Il racconto
La destra processa i senatori a vita: sono tutti di sinistra. Monti: meglio se sto zitto.
Maurizio Gasparri lancia la raccolta firme per indicare il generale Mori. Il M5s cambia opinione su queste figure nominate dal Quirinale. Così il premierato entra nel vivo, sotto lo sguardo preoccupato della Cei
“Non mi faccia parlare, non mi sembra corretto: è un tema delicato”. Mario Monti è in aeroporto nel giorno in cui il Senato si esercita su un dibattito che riguarda la sua esclusiva categoria: cinque esemplari viventi in tutta Italia. Un club esclusivo che per il futuro il premierato di Giorgia Meloni vuole sopprimere: sono i senatori a vita. Considerati dalla destra, il salvavita dei governi di sinistra, troppo determinanti ora che i parlamentari sono anche stati tagliati. E, come dice Maurizio Gasparri di Forza Italia con un tondo ragionamento, mai provenienti dall’area di centrodestra (“ecco perché intanto firmerò per la nomina del generale Mori”). Nel giorno in cui a Palazzo Madama si parla di loro, loro sono assenti: per consuetudine o per prassi istituzionale. Sono i magnifici cinque. In ordine: Carlo Rubbia, Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano (scelti dal presidente Giorgio Napolitano) e Liliana Segre (voluta da Sergio Mattarella). Sono i saggi della Repubblica, più che le riserve.
“Macché esistono solo qui e in Russia”, dice con furia iconoclasta il patriota Alberto Balboni, relatore della riforma costituzionale sul premierato. Qua e là, passeggiando sullo scricchiolante parquet del salone Garibaldi, si percepisce qualche refolo di populismo: le élite dei senatori a vita assediate dal gentismo. Con anche la solita capriola del M5s che con un salto carpiato – ma non è ormai una notizia – ha cambiato idea sull’argomento. Le tirate di Beppe Grillo contro Rita Levi Montalcini sono passate alla cronaca della volgarità, i post del Blog delle stelle, ormai invecchiati di 12 anni, riemergono con titoli tipo “i senatori a vita muoiono troppo tardi: sono praticamente eterni”. E a seguire le foto di Rita Levi Montalcini, Giulio Andreotti, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti ed Emilio Colombo. Era il 2012. E per i succitati si trattava di “promozione di carattere feudale, baronale, come ai tempi dei valvassini e dei valvassori”. Ora il partito di Conte sembra aver cambiato idea. Ed è pronto alla pugna parlamentare, emendamento su emendamento, per difendere la Costituzione. Ecco per esempio Alessandra Maiorino, vicepresidente del gruppo M5s: “Il centrodestra non ha nessuna personalità culturale di riferimento che sia stata nominata senatore a vita? Si facciano delle domande. L’unico nome che ricorre nei loro convegni culturali è quello dell’estremista ultra-nazionalista Aleksandr Dugin, ideologo russo. Forse possono aprire a nazionalità straniere per avere qualcuno da cui si sentono rappresentati”. Ecco il livello è questo. Il fatto è però che i senatori a vita non ci stanno a farsi attaccare addosso titoli o qualifiche di parte. Prendiamo Monti. Si astenne quando l’aula si espresse sulla fiducia al governo Meloni, ha sempre votato a seconda dei provvedimenti. Di tanto in tanto ha cercato anche dei contatti privati e pubblici con la premier (come quella volta, nel gennaio 2023 che andò a Palazzo Chigi per consigliarle di mettere il veto in Europa nella trattativa sugli aiuti di stato per essere più forte su immigrazione e Patto di stabilità: non venne ascoltato). Monti non si sente espressione del centrodestra anche perché quando venne nominato senatore a vita dal Quirinale, fu proprio (circostanza mai smentita) su spinta anche di Silvio Berlusconi. Il quale da capo del Pdl appoggerà il gabinetto tecnico dell’economista in qualità di primo partito di maggioranza relativa. “E allora Renzo Piano? Si è visto in Aula solo due volte: una per votare la decadenza di Berlusconi e l’altra per farci una lezione sul rammendo dell’Italia”. Senatori contro senatori. Un cortocircuito tale da spingere Ignazio La Russa, presidente dell’assemblea di Palazzo Madama, a invitare tutti a togliere il pallottoliere: “Non mi pare il caso di andare a esaminare quando i senatori sono stati assenti e presenti perché potremmo trovare elementi di critica per chiunque”. Sono schermaglie destinate a continuare almeno fino al 18 giugno quando arriverà il voto finale sul premierato. Il primo sì, dopo le europee. Nonostante i desiderata diversi di Meloni. Smentiti da La Russa, ma molto verosimili (così come l’apertura dei centri per migranti in Albania, attesi prima delle urne ma destinati a vedere la luce fra diverse settimane). Alla fine la presidenza del Senato ha optato per il contingentamento dei lavori: solo 30 ore di dibattito per far fronte ai 3 mila emendamenti dell’opposizione. E poi fra taglione e canguri si arriverà, salvo sorprese, al primo sì (con il ruolo di Iv tutto da decifrare, ancora). E però il dossier inizia a essere attenzionato. Non tanto dal Colle – che non proferisce parola – quanto per la prima volta dalla Cei. Il cardinale Matteo Zuppi auspica “che non si facciano scelte di parte quando si toccano gli equilibri istituzionali”. Il fronte si allarga, la maggioranza si compatta. Meloni sembra avere un nuovo interlocutore sulla strada che porta alla madre di tutte le riforme.