Il dibattito
"La separazione delle carriere non è una riforma giusta ma un'impostura". La versione di Spataro
Le parole di Falcone e le idee di Pisapia e di Martina non convincono l’ex magistrato. La riforma "finirebbe con il compromettere gravemente la tutela dei diritti dei cittadini". La risposta all'articolo del direttore Claudio Cerasa
Egregio direttore, nel suo articolo, pubblicato sabato 18 maggio, lei definisce la separazione delle carriere una “riforma giusta” e “anche di sinistra”, utilizzando “tre lezioni” (come lei le definisce) per dimostrarlo. Parto dalla definizione, per discutere poi del resto: da qualunque area politica possa essere sostenuta o condivisa, la riforma in questione è in realtà un’“impostura”, una mistificazione attraverso la quale, disegnando un quadro fasullo – quello del giudice che oggi, ignorando le tesi del difensore, sposerebbe quelle del pubblico ministero in quanto suo “fratello” – si afferma di voler assicurare una giustizia giusta ai cittadini. In realtà, il divieto di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali e viceversa finirebbe con il compromettere gravemente la tutela dei diritti dei cittadini, il principio della loro eguaglianza di fronte alla legge e con il sottomettere il pubblico ministero al potere esecutivo.
Non si tratta di affermazioni rituali, ma il tema in questione è complesso e le motivazioni di chi difende l’attuale assetto non possono certo essere riassunte in un articolo. Sono costretto, dunque, a tentare di essere sintetico e – per chi fosse interessato – a rimandare al testo della mia audizione Dinanzi alla commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati del 25 gennaio 2024 (consultabile anche sul sito della rivista giuridica “Giustizia Insieme”).
Mi occupo di questo argomento da più di trent’anni, da quando, cioè, le tensioni tra politica e magistratura, normali in ogni democrazia, hanno raggiunto livelli inaccettabili, tanto da indurre due ministri della Giustizia ad affermare che la magistratura non è uno dei tre poteri previsti dalla Costituzione, ma un ordine sottoposto agli altri due. Vorrei allora qui ricordare che la possibilità per chi ha vinto un pubblico concorso di scegliere se fare il giudice o il pm e poi di transitare da una funzione all’altra è una “forza” del nostro sistema.
Intanto, i due mestieri, pur differenti, hanno una caratteristica comune: il pm condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e non è votato – comunque e sempre – alla formulazione di richieste di condanna, ma deve determinarsi (o dovrebbe) a richieste assolutorie ogniqualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente. Ciò anche a seguito delle indagini a favore dell’imputato che per legge è obbligato a compiere. Tali obblighi professionali, fortunatamente per i cittadini, nulla hanno a che fare con le regole del giusto processo e la terzietà del giudice, previste dall’art. 111 della Costituzione e in particolare dal secondo comma (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) che nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la citata parità tra le parti è infatti quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (cioè comune all’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, cioè, la conoscenza del singolo processo). Ma il difensore resta un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza. Il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio alto mandato nella piena legalità.
Ma veniamo alle tre “lezioni” presenti nell’articolo citato in premessa: la prima riguarda la presunta posizione di Giovanni Falcone di cui si citano passaggi di un intervento del 1989 per dimostrare che sarebbe stato favorevole alla separazione delle carriere, il che è entrato nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati. In realtà, si tratta di un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un contesto ben più ampio, quello di 12 pagine contenute nei capitoli 22 (“Evoluzione del principio di obbligatorietà dell’azione penale”) e 23 (“Il Pubblico Ministero nel processo penale”) di un testo importante “Giovanni Falcone - Interventi e proposte, 1982-1992” (Sansoni Ed.) Una lettura completa di quelle pagine dimostra che Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del pm nella direzione della Polizia giudiziaria, rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988. Alla fine della pag. 182 Falcone dice che la questione merita “l’approfondimento di tutte le possibili implicazioni”, dimostrando che non stava prendendo posizione ma che aveva voluto porre su tappeto il problema del funzionamento della giustizia nel nuovo assetto che il Cpp aveva riservato al pm.
Mi permetto di aggiungere, visto il comune percorso associativo, che in innumerevoli occasioni, peraltro, Falcone aveva spiegato di non condividere la necessità di separare le carriere di giudicanti e requirenti all’interno della magistratura. Egli credeva solo che, con l’avvento del nuovo codice di procedura penale e l’abolizione della figura del giudice istruttore, vi fosse accentuato bisogno di un sapere specialistico e che le conoscenze necessarie a un pm per svolgere efficacemente il suo lavoro non coincidessero certo con quelle del giudice. “In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla”: furono queste le parole di Giovanni in occasione di un Congresso che si svolse a Milano, nel novembre 1988. Il che è sacrosanto e comporta la necessità di prevedere non la separazione delle due carriere ma fasi di approfondito aggiornamento nel caso di riconversione professionale da giudice a pubblico ministero e viceversa.
Peraltro, se anche fossero quelle male interpretate, si potrebbe comunque dissentire anche dalle opinioni di Falcone, come avvenne in un documento firmato da 60 esperti magistrati, tra cui Borsellino e Caponnetto, in cui si criticava il suo originario progetto di costituzione della Procura nazionale antimafia, elaborato mentre lavorava presso il ministero della Giustizia, progetto non a caso poi modificato. In ogni caso, la più sicura conferma della sua contrarietà alla separazione delle carriere la diede Falcone stesso chiedendo e ottenendo più volte di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa: da giudice istruttore era anche diventato procuratore della Repubblica aggiunto, funzione che esercitava quando fu chiamato da Martelli al ministero. E analoghi mutamenti di funzione hanno chiesto e ottenuto altre vittime di mafia e terrorismo come Paolo Borsellino e Guido Galli, nonché altri magistrati cui tanto deve il nostro paese come Francesco Saverio Borrelli che, autorevolmente a proposito della sospetta vicinanza dei giudici alle tesi dei pm, aveva parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ricordando l’importanza di “una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” (Micromega, n. 1/2003).
La seconda “lezione” riguarda la proposta di legge che i parlamentari di Rifondazione comunista Giuliano Pisapia e Giovanni Russo Spena presentarono nel 2001 in tema di “distinzione delle funzioni requirenti e giudicanti e di passaggio da una funziona all’altra”. Tale riferimento è stato poi arricchito con la pubblicazione sul Foglio di lunedì 20 maggio del testo della proposta di legge e della relazione di accompagnamento. Si vorrebbe con ciò dimostrare che, in passato, anche la sinistra era orientata verso la separazione delle carriere. Ma, a prescindere dalla già citata irrilevanza di questo particolare, basta leggere i testi pubblicati e la relazione per comprendere che tale proposta, risalente a 23 anni fa, non riguarda affatto i tanti mutamenti della Costituzione e del nostro ordinamento che oggi si vogliono approvare: doppio concorso per l’accesso in magistratura, doppio Csm con sorteggio “attenuato” di parte dei componenti, diversa formazione, interventi sui criteri di priorità dell’azione penale affidati al Parlamento etc.
Peraltro, il testo della riforma Pisapia è oggi irrilevante perché non prevede affatto una netta separazione delle carriere, ma solo limitazioni e requisiti perché il passaggio dall’una all’altra sia possibile. Cioè esattamente quanto oggi già previsto, essendo già intervenute negli ultimi decenni un d.lgs il 5 aprile 2006 (in attuazione di una legge delega del 20 luglio 2005), successivamente una legge del 30 luglio 2007 ed infine la legge n. 71 del 17 giugno 2022 che, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente, hanno finito con il raccogliere le indicazioni di Pisapia e Russo Spena. L’ultima legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di nove anni dalla prima assegnazione delle funzione.
Peraltro, esaminando i dati ufficiali relativi ai cambi recenti di funzioni, si può verificare che nel 2019, 2020 e 2021 sono stati rispettivamente 5, 10 e 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre i pubblici ministeri diventati giudici sono stati rispettivamente negli stessi anni 19, 15 e 16! Ciò di fronte alle migliaia di magistrati in servizio nei due ruoli. Da un lato, dunque, quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si vuol far credere ed è anzi marginalissima; dall’altro, può dirsi che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
Sempre nella relazione della proposta Pisapia-Russo Spena è contenuta una grave inesattezza, forse giustificabile con l’epoca in cui fu redatta: si sostiene – come ancora oggi molti affermano – che la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri stati a democrazia avanzata. Ciò è totalmente privo di fondamento e ignora le radicali differenze tra il nostro ordinamento – per fortuna caratterizzato da indipendenza del pm e obbligatorietà dell’azione penale – e quelli di altri stati europei. Studiandoli seriamente ci si accorgerebbe che ovunque la carriera del pm sia separata da quella del giudice, il pm stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento). Ma sarebbe anche chiaro che, sia pure con vari requisiti e grazie a provvedimenti amministrativi, l’interscambiabilità dei ruoli è possibile dovunque (in Austria, in Belgio, in Svizzera, in Olanda, in Germania, in Francia etc.), tranne che in Spagna. Nel novembre 2013, in Francia, è stato reso noto il rapporto della commissione ministeriale presieduta dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione, composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei pm (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.
In Inghilterra e Galles, invece, non esiste il pm nelle forme da noi conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia e può rappresentare la Polizia, vera titolare dell’iniziativa penale: ecco l’ “avvocato della polizia”, così agognato in Italia ! Tra l’altro, a prescindere dallo status del pm, spesso funzionario dipendente dall’esecutivo, in quasi tutti gli altri stati europei esiste il giudice istruttore, figura cancellata in Italia sin dal 1989, che garantisce indagini indipendenti. Il sistema statunitense, infine, si divide in giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del presidente degli Stati Uniti, e giustizia statale ove vige il sistema elettorale. Ciononostante, esiste l’interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pm che coinvolge anche l’avvocatura dalla quale, anzi, spesso provengono i pm e i giudici.
Ma in relazione agli orientamenti della comunità internazionale vi è da segnalare che le ragioni a favore dell’unicità della carriera sono innanzitutto rafforzate dalla prospettiva del Consiglio d’Europa. Vanno a tal fine citati almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che “… se l’ordinamento giuridico lo consente, gli stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire a una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”. Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che “La possibilità di “passerelle” tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.
Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio consultivo dei procuratori europei destinato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta Carta di Roma” e una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa: vi sono con forza ribaditi tutti i principi che depongono per l’interscambio di funzioni. Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura europea (Eppo) che, con sede in Lussemburgo ed entrata in funzione dall’1 giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente a indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi. Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’Eppo impegna gli stati europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, infatti, alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’Eppo.
Come si può dire, allora, che l’Europa vuole e attua dovunque la separazione delle carriere? La risposta a questa domanda che continuo a porre dovunque è il silenzio, salvo quella di un giornalista che in un recente confronto televisivo, mi si è rivolto con una frase cortese: “Non diciamo fesserie per favore!”.
È pertanto possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione, quasi mai per buone ragioni, peraltro trascurando che, nell’ambito del nostro procedimento penale, il pm svolge un ruolo di controllo – che deve essere efficace e completo – sulla legalità dell’operato della Pg: ciò ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio.
La “terza lezione da sinistra” riguarda una mozione congressuale presentata nel 2019 dall’ex segretario del Pd Maurizio Martina, sostenuta da altri esponenti dello stesso partito, in cui si affermava che “il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Mi spiace per Martina ed i suoi seguaci dell’epoca, ma non ho nulla da aggiungere a quanto già scritto e preferisco, alle sue parole, quelle dell’avv. prof. Franco Coppi che, intervistato l’8 luglio 2023, ebbe a dichiarare: “La separazione delle carriere… sarebbe un’enorme spendita di quattrini, una cosa mostruosamente difficile. E a che servirebbe? Io non ho mai pensato di aver vinto o perso una causa perché il pm faceva parte della stessa famiglia del giudice. Dipende dall’onestà intellettuale delle persone”.
È giusto pertanto ribadire che, al di là delle criticità talvolta rilevabili nel comportamento dei magistrati (tema di cui pure ho molte volte scritto e parlato), l’unicità delle due carriere è necessaria anche per difendere e rafforzare un’omogenea “cultura giurisdizionale” tra pm e giudici, un’espressione di cui è però opportuno spiegare il significato concreto, poiché spesso viene fatta passare per una cortina fumogena utile per celare supposti privilegi corporativi. In concreto, unicità della cultura giurisdizionale sta a indicare il dovere per il pm e il giudice di compiere lo stesso percorso per l’affermazione della verità. Le valutazioni possono alla fine divergere, ma i canoni della valutazione delle prove devono unirli: il pm dovrà valutarne la fondatezza solo in funzione della loro valenza nella fase del giudizio, mentre è bene che i giudici conoscano a loro volta limiti e doveri propri dell’attività investigativa, senza che ciò determini il loro appiattimento sulle ragioni di chi accusa, ignorando quelle di chi difende. E una simile cultura si crea e rafforza attraverso un unico concorso per l’accesso alla magistratura, un unico Csm che amministra le carriere di tutti i magistrati, un’unica formazione professionale (auspicabilmente da aprirsi all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni) e una identica indipendenza dal potere politico e assoluta indifferenza alle sue aspettative, essendo la magistratura sottoposta soltanto alla legge.
Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto d’Europa, invece di disperderla, specie a fronte di ripetute tensioni tra potere politico e magistratura, che generano il rischio di riforme punitive: occorre “spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di valori civili” (G. Zagrebelsky interv. del 2008).