Il caso
Superare 1 milione di preferenze tornando alle origini: le mosse elettorali di Meloni
La leader per le europee teme l'astensione sotto il 50 per cento. E guarda agli exploit di Berlusconi e Salvini. I consigli di Fazzolari per cercare la conflittualità con la sinistra e i radical chic
Ha un obiettivo minimo: un milione di preferenze alle europee. Un risultato che Giorgia Meloni ritiene più che alla portata. Nelle riunioni riservate la leader di Fratelli d’Italia è molto attenta a non fissare asticelle per evitare l’effetto attesa. E però chi la consiglia, chi le dice di tornare aggressiva e conflittuale, e quindi nature, ragiona proprio su questi numeri e percentuali. Confermare il 26 per cento delle ultime politiche, dopo 19 mesi di governo, viene percepito come un’ottima prova. Così come sfondare il muro delle sette cifre per la premier, capolista in tutte le circoscrizioni con anche l’escamotage scrivi “Giorgia”. D’altronde basta guardare lo spot ufficiale di FdI: una riedizione, sedici anni dopo, del video “Meno male che Silvio c’è”, senza musica, ma con la medesima costruzione: baristi, agricoltori, casalinghe, giovani, impiegati, dottori (con l’aggiunta in questo caso di una disabile) che sembrano dire: “Meno male che Giorgia c’è”.
E qui la breve clip – un minuto e ventisei dal gusto un po’ rétro – spiega il perché di questa scelta nelle urne i prossimi 8 e 9 giugno. “Perché è una del popolo”. “Perché crede in chi lavora”. “Perché si è fatta strada partendo dal basso”. “Perché è una di noi e non si è montata la testa”. In Via della Scrofa, quartier generale presidiato da Arianna Meloni, c’è apprensione sulle percentuali che riguardano l’astensionismo. Girano rilevazioni che addirittura parlano di più di un elettore su due che non voterà. Deriva anche da questo timore l’approccio molto “richiamo della foresta” andato in scena in questi giorni: l’attacco ai radical chic che guardano La7, la tirata contro chi chiuse gli italiani in casa durante la pandemia, il continuo oscillare sul premierato. Da “o la va o la spacca” a “se perdo chi se ne importa: governerò cinque anni”. In prima linea in questi giorni, come sempre in queste fasi, c’è Giovanbattista Fazzolari, il sottosegretario ideologo e capo della comunicazione politica della premier: lui sta a Meloni, come Rodolfo Sonego stava ad Alberto Sordi. Sceneggiatore, cervello, consigliere del principe.
Per il racconto della politica c’è lui, “Il Fazzo”; per le emergenze, come si è visto ieri, serve invece il tocco felpato di Raffaele Fitto pronto a scendere in campo con una nota – rarità – per rassicurare i comuni che non ci saranno tagli riguardo al Pnrr. Intanto la premier si trova a gestire questa fase con vista sulle europee: ieri era a Palermo, per firmare il diciottesimo accordo di programma con le regioni per i Fondi di coesione, oggi tornerà a Caivano, una delle tante periferie d’Italia, dall’amico e sostenitore don Maurizio Patriciello per la consegna di una palestra. L’agenda settimanale offre anche, mercoledì, un Consiglio dei ministri con forse la riforma della giustizia (tema non proprio acchiappa voti che potrebbe slittare di una settimana) da maneggiare con cura. Il 3 giugno arriverà invece il provvedimento, quello sì popolare, per tagliare le liste d’attesa nella sanità. Giovedì la storia porterà la premier alla Camera per i cento anni dall’assassino di Giacomo Matteotti: l’occasione – sulla carta – per dichiararsi antifascista. Uno snodo che potrebbe portarsi dietro anche complicazioni nelle urne, e chissà se alla fine la premier pronuncerà la formula che l’opposizione le chiede di pronunciare da quando è arrivata a Palazzo Chigi. Tutto è calcolo, tutto è numero in questa fase. Così come la corsa dell’organizzazione di Fratelli d’Italia a reclutare, con autobus organizzati e auto, più militanti possibili sabato alle 14. Quando sotto un discreto sole giaguaro si terrà a piazza del Popolo il comizio, l’unico per il momento, della leader della destra italiana, in una piazza almirantiana che senza palco ospita fra le 56 e le 60 mila persone. Anche in questo caso si punta, con una serie di accorgimenti, ad arrivare a superare i 30 mila supporter. Dopo il comizio, la leader ritornerà premier per il ricevimento al Quirinale delle alte cariche. Ma alla fine il vero rovello sono le europee: il 26 per cento da confermare e quel milione di preferenze personali da conquistare. Nel 2009 l’allora premier e capo del Pdl Silvio Berlusconi riuscì a ottenere 2,7 milioni di voti come capolista in tutta Italia alle europee (con il partito al 35,6 per cento). Dieci anni dopo Matteo Salvini superò il tetto dei 2 milioni (Carroccio al 34 per cento) anche lui. Superare un milione di preferenze per Meloni è il minimo sindacale, ragiona chi le sta vicino. Proiettare questo obiettivo su una percentuale è più complicato vista l’affluenza che non si attende molto generosa. Tira in generale un’aria di forte attesa, in tutti i partiti. Per non parlare della Lega se è vero che anche i governatori del nord, Zaia e Fedriga, nei giorni scorsi hanno constatato parlando con alcuni deputati di maggioranza che “ormai Matteo non tira più”. Ma magari Vannacci sì. Come teme anche Meloni.