Il caso

Meloni e il test Matteotti: fattuale, senza stupire. Per Fini e Violante va bene così

Simone Canettieri

La premier a margine al centenario dell'ultimo discorso del socialista cita "gli squadristi fascisti" che lo uccisero. In Aula molto Pd e poco FdI

Lo scrive, ma non lo dice. Con una nota inviata a cerimonia in corso Giorgia Meloni constata che Giacomo Matteotti fu “ucciso da squadristi fascisti”. Fattuale. Nessun accenno all’antifascismo (parola ancora tabù) né una menzione diretta a chi ordinò e rivendicò quell’omicidio. Aleggia un dubbio quando la premier, in compagnia per l’occasione del presidente del Senato Ignazio La Russa, lascia l’Aula di Montecitorio per infilarsi in un ascensore: ha detto – o meglio scritto – il minimo sindacale? Poteva spingersi oltre? Va comunque apprezzato il gesto tecnico e sperare nel futuro? I comunicatori  di Fratelli d’Italia – dopo che tutto è finito e il presidente della Repubblica è tornato al Colle da un pezzo – ripetono l’ovvio: “Nessuna ricorrenza, nessun fatto la spingerà a dire, perché siete voi a chiederglielo, un’abiura totale sul fascismo. Giorgia è fatta così, ancora non la conoscete?”. Gianfranco Fini, cantore del fascismo male assoluto, si aggira in Transatlantico: “Matteotti venne ucciso da una squadra capeggiata dal fascista fiorentino Amerigo Dumini: è storia”.

   
Poi Fini, stanco forse di fare il grillo parlante della destra e con la testa altrove, se ne va: non cerca polemiche, né lezioni ai suoi nipotini che mal lo sopportano. Dice anzi ai cronisti di non cercare il pelo nell’uovo e che insomma quello che c’era da dire è stato detto. Anche un altro collega, in quanto ex presidente della Camera, come Luciano Violante, si sente di promuovere la premier: con lui, va detto, è come sfondare una porta aperta. Con Meloni Violante vanta una lunga e consolidata amicizia fatta di stima e consuetudine. Ed è sempre colui che quando si insediò a Montecitorio, nel 1996, parlò anche delle ragioni dei vinti e dei “ragazzi di Salò”. Ed è stato comunque un protagonista della mattinata. Ha parlato durante le cerimonia, dopo lo storico Emilio Gentile, sul valore costituzionale del Parlamento che sta sempre sul gozzo alle dittature, sui rischi delle democrazie che non decidono, sul suicidio di queste assemblee elettive. Violante ha citato le parole di Pinuccio Tatarella (“quando sospesi la seduta per una contesa che poteva degenerare, e avendogli chiesto di seguirmi in ufficio, ai miei rilievi su alcuni comportamenti di alcuni esponenti del suo gruppo mi rispose che ‘spesso un conflitto in Parlamento evita un conflitto nel paese’”). Passaggio che provocherà un sussulto nella coppia Meloni e La Russa che si scambiano qualche parola all’orecchio. Si sta qui per celebrare i cento anni esatti dall’ultimo discorso pronunciato da Matteotti alla Camera: quello che gli costerà la vita. Gli sguardi sono tutti per Meloni, alla prima uscita pubblica – e in piena trance elettorale – dopo la scenetta, diventata meme, con il governatore De Luca a Caivano (appuntamento preferito alla commemorazione della strage neofascista di piazza della Loggia, e giù altre polemiche).

 

La posa questa volta è seria. Osserva con Mattarella, La Russa e il padrone di casa Lorenzo Fontana le teche con i documenti parlamentari di Matteotti. Entra poi in Aula dove ad attenderla c’è anche Bruno Vespa che racconta la versione intima e famigliare del socialista martire, a partire dai rapporti con la moglie Velia. La scelta pop del presidente della “Terza Camera”, re dei giornalisti politici tv, divide e crea un po’ di discussione a margine del grande punto interrogativo sospeso. Ma quando parlerà, se lo farà, Meloni? E cosa dirà? La curiosità in una giornata solenne – Fontana annuncia che  il posto che occupava Matteotti non sarà più assegnato ad alcun deputato come si fa con le maglie dei campioni ineguagliabili dopo il ritiro – resta sempre la stessa. Gentile si avvicina al cuore della faccenda spiegando che il fascismo era già violenza vile con Matteotti in vita, come da citazione di un articolo del mussoliniano Popolo d’Italia, di un anno prima, in cui il deputato era definito spregevole e meritevole di un trattamento poco garbato: gli va spaccata la testa. Il Polesine, i video di Pertini, gli interventi. E poi il finale affidato all’attore Alessandro Preziosi con tanto di applauso vibrante al passaggio dell’ultimo discorso di Matteotti quando rivolto ai fascisti che gli urlavano contro chiese loro di parlare “parlamentariamente”.

  

Alle 11.54 intanto era arrivata alla stampa la dichiarazione della premier con la citazione sugli “squadristi fascisti”. Sul clima e il contesto storico del periodo in cui maturò il delitto, la capa della destra si limita a un ragionamento basico: “Onorare il suo ricordo è fondamentale per ricordarci ogni giorno a distanza di 100 anni da quel discorso il valore della libertà di parola e di pensiero contro chi vorrebbe arrogarsi il diritto di stabilire cosa è consentito dire e pensare e cosa no”. Con tanto di chiosa finale buona per i tempi in cui viviamo: “La nostra democrazia è tale se si fonda sul rispetto dell’altro, sul confronto, sulla libertà, non sulla violenza, la sopraffazione, l’intolleranza e l’odio per l’avversario politico”. Finisce così il tributo di Meloni “all’uomo libero e coraggioso”. Per i suoi (le truppe di FdI erano davvero poche) forse oggi ha già detto pure troppo, per il Pd (in forze sugli scranni) è stato un passetto obbligato. La campagna elettorale può continuare. Alla prossima ricorrenza.
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.