l'intervento
Violante: "L'omicidio Matteotti ci ricorda che nessuna dittatura tollera i parlamenti"
L'ex presidente della Camera ha tenuto un discorso in occasione delle commemorazioni a cento anni di distanza dall'ultimo intervento del leader socialista in Parlamento
Pubblichiamo qui di segutito il discorso integrale che l'ex presidente della Camera Luciano Violante ha pronunciato in occasione delle commemorazioni tenute a Montecitorio, a cento anni dall'ultimo intervento in Parlamento di Giacomo Matteotti, prima dell'omicidio del leader socialista.
Ho avuto la possibilità, nei miei primi giorni di vita parlamentare, di ascoltare due lezioni sul Parlamento, che mi hanno aiutato a comprendere la natura e le funzioni del luogo nel quale mi trovavo. La prima è di Nilde Iotti, da poco eletta alla presidenza della Camera, che replicando con calma ad un alterco tra due deputati disse: “Colleghi, prima ascoltatevi; io ho imparato che stare in Parlamento significa sforzarsi di capire le ragioni degli altri”. La seconda è di Mario Pochetti, mitico segretario d’Aula e frusta del gruppo comunista. Io ero seduto vicino a un deputato pugliese molto aggressivo nei confronti degli avversari che intervenivano. Pochetti dopo un paio di giorni di improperi gli si avvicinò e gli disse con calma: “Guarda, qui stiamo per parlare con quelli che non la pensano come noi. Quando finisce la seduta vai da quei due, indicando i colleghi offesi, gli offri un aperitivo e la chiudi là.” .”Ma quelli hanno sempre torto” replicò il collega; gelido Pochetti lo fermò: “E’ statisticamente impossibile.” Allora si obbediva e il collega, finita la seduta, offrì l’aperitivo ai due avversari che lo accettarono di buon grado. I due interventi, quello di Nilde Jotti e quello di Mario Pochetti, al di là del loro carattere aneddotico, richiamavano in modo schietto i tre caratteri dei liberi Parlamenti: si discute tra persone che hanno legittimamente diverse opinioni; è impossibile che una parte abbia sempre ragione e l’altra abbia sempre torto; per arrivare ad una sintesi ciascuno deve sforzarsi di comprendere le ragioni dell’avversario. Mi trovavo in un libero Parlamento di una libera democrazia, dove nessuno era titolare di verità precostituite, dove bisognava rispettare e ascoltare gli avversari. Era un Parlamento diverso da quello nel quale Matteotti disse le parole che lo condussero alla morte. 2 Ciascuna dittatura é diversa dall’altra; ma tutte hanno un punto in comune: non tollerano i Parlamenti, dove si esprime la rappresentanza pluralistica della nazione, dove la parola è libera, il diritto di critica può esprimersi senza condizionamenti. Nel 1923 un grande giornalista italiano, Giulio Debenedetti, intervistò Adolf Hitler per La Gazzetta del Popolo, quotidiano di Torino. Hitler gli espose il suo programma: “…Distruzione di ogni idea internazionale. Attirare nel nostro movimento le masse operaie. …Vogliamo che il potere dello Stato sia affidato ad una minoranza onesta e capace. Si immagina lei che io, dittatore, mi lascerò, quando avrò la direzione dello Stato, comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo? “Debenedetti concluse “Non mi pare un dittatore troppo pericoloso”. Dieci anni dopo si apriva il lager di Dachau. Ma De Benedetti era già stato costretto a rifugiarsi in Svizzera. In “Stato e Rivoluzione” anche Lenin si dichiara nemico del Parlamento “Bisogna sapere in che modo si può distruggere il parlamento. Se poteste distruggerlo in tutti i paesi con una insurrezione armata, sarebbe una gran bella cosa. Voi sapete che in Russia abbiamo dimostrato, non soltanto in teoria, ma anche in pratica, la nostra volontà di distruggere il parlamento borghese. Ma voi avete dimenticato che ciò è impossibile senza una preparazione abbastanza lunga e che, nella maggioranza dei paesi, è ancora impossibile distruggere il parlamento di un sol colpo. Noi siamo costretti a condurre anche nel parlamento la lotta per la distruzione del Parlamento”..
Dopo le violenze della campagna elettorale del 1924, Matteotti comprese che il Parlamento sarebbe stato destinato ad un progressivo svuotamento; il fascismo, che aveva colpito con violenze, devastazioni e aggressioni le manifestazioni della opposizione, non avrebbe certamente riconosciuto a quella stessa opposizione una tribuna dalla quale parlare al Paese. Tuttavia, sinchè possibile, in quel drammatico contesto, il Parlamento avrebbe potuto costituire per l’opposizione l’unico luogo nel quale essere presente e attiva. Matteotti condusse perciò una dura polemica, ricordata da Sandro Pertini, contro i governi Nitti, Giolitti e Bonomi che non avevano troncato le crescenti violenze fasciste e non avevano difeso il ruolo del Parlamento. 3 A differenza di esponenti di altri partiti di opposizione, legati ad una idea del Parlamento come “Stato maggiore delle classi dominanti” e al mito del “facciamo come in Russia”, Matteotti aveva una idea moderna del Parlamento come luogo proprio della democrazia nel quale le opposizioni più che la maggioranza avrebbero potuto esprimere ,le proprie ragioni. Egli insiste su questo concetto nell’ormai famoso ultimo discorso, quando contesta l’inerzia della Giunta delle elezioni che non aveva fatto alcun accertamento sulle violenze e sui brogli: ” E’ per questo, onorevoli colleghi che … siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere altra voce ed espressione”. Matteotti sapeva che non basta essere presenti in Parlamento. Bisogna anche guadagnarsi il rispetto dell’Aula, che non è scontato. Occorrono chiarezza e lealtà. Matteotti nei suoi interventi sta sempre ai fatti, all’accaduto. Mai una parola di irrisione o di offesa nei confronti degli avversari, mai un giudizio puramente moralistico; parlava con laico realismo, senza fanatismi, che pure negli anni venti, dopo il turbine della guerra, erano frequenti. In un intervento del 1923, ricordato dal presidente Fontana, scrisse: “non sempre i liberi regimi rappresentativi sono stati i migliori; ma in confronti delle oligarchie e delle dittature, hanno almeno il vantaggio della libera critica e quindi della capacità di correggere i propri errori attraverso una consapevole rivalutazione della realtà”. Nella disordinata campagna elettorale ci furono violenze commesse anche da parte antifascista. Lealmente Matteotti le ammette, ma chiarisce la differenza: anche dalla sua parte c’erano stati “atti di follia cui però erano succedute la sconfessione e la deplorazione, mentre il fascismo coronava gli eccessi dei suoi adepti con la “glorificazione”. Nel corso dell’intervento del 30 maggio. Il presidente dell’Assemblea Alfredo Rocco, mentre l’Assemblea rumoreggia, lo ammonisce: “Lei ha facoltà di continuare a parlare, ma prudentemente”. Matteotti risponde: “Io chiedo di parlare non prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente.”. L’avverbio parlamentarmente dice di più di quanto non appare; era frutto di una concezione profondamente moderna, non retorica, del Parlamento e della sua funzione. In Parlamento si affrontano problemi a volte drammatici, che riguardano l’intera nazione. Il dirigente socialista sta enumerando le aggressioni, i brogli, le 4 intimidazioni che avevano condizionato il risultato elettorale. Al Presidente che lo interrompe risponde di volerlo fare ”parlamentarmente”, cioè in condizioni di libertà e nel rispetto dei fatti. Il confronto in Parlamento ha una propria specificità; non è un dialogo tra benpensanti, né una privata discussione e non ha lo scopo di compiacere l’interlocutore, come in un circolo di gentiluomini. Può essere anche drammatico. Può dare luogo a scontri. E i Parlamenti, proprio per il loro pluralismo e per le regole che ne disciplinano il funzionamento, si sono spesso rivelati una formidabile macchina per canalizzare, orientare e regolare il conflitto. Credo che a questo fenomeno di governo del conflitto intendesse riferirsi Pinuccio Tatarella, presidente del Gruppo di AN, quando, avendo io sospeso la seduta per una contesa che rischiava di degenerare, e avendogli chiesto di seguirmi in ufficio, ai miei rilievi sul comportamento di alcuni esponenti del suo Gruppo mi rispose: “Forse hai ragione; ma tieni conto che spesso un conflitto in Parlamento evita un conflitto nel Paese.” Essere oggi in quest’Aula non è sentito da nessuno di noi come un fatto formale. Perchè qui Matteotti pronunciò le parole che lo avrebbero portato a morire e perché da ogni sua parola traspare il convincimento profondo del valore costituzionale del Parlamento. Il suo coraggio sta non solo nella forza della denuncia, ma anche nel sottolineare, ogni volta che sia possibile, il rapporto che intercorre tra l’ attività di opposizione e la presenza in Parlamento. A noi si pone una domanda. Questo parlamento, quello nel quale oggi noi siamo, è quello che Matteotti pensava dovesse essere? Fuori dei casi dell’avvento di dittature, i Parlamenti muoiono per suicidio, non per omicidio. Muoiono quando cessano di essere consapevoli della loro ragion d’essere, quando diventa loro estranea la ragione politica intorno alla quale si sono costituiti. Il nucleo dei Parlamenti è la rappresentanza della nazione: lo stabiliva l’art. 41 dello Statuto Albertino e lo stabilisce in termini simili l’artt. 67 della Costituzione. 5 Ma l’attuale frammentazione sociale, i corporativismi che ne derivano, insieme ad una legge elettorale del tutto inidonea, rendono difficile per un parlamentare svolgere la propria funzione di rappresentante della nazione.
E’ in corso, inoltre, per effetto della interconnessione delle diverse tecnologie digitali, un cambiamento d’epoca. Le nostre società, la nostra antropologia, il nostro modo di stare al mondo sono profondamente cambiati. Frantumazione sociale e cambiamento d’epoca rendono più profonda la separazione tra Parlamento e Paese. Per il Parlamentare diventa quindi difficile presentarsi ai cittadini come loro rappresentante; diventa più conforme allo stato delle cose presentarsi come uno simile a loro, legittimato ad avere il loro consenso perchè a loro somigliante nel costume complessivamente tenuto. Questo politico non dice “sceglimi perché io ti rappresento”; dice “sceglimi perchè io ti somiglio”. La somiglianza è cosa diversa dalla rappresentanza. Costituisce un ragionevole tentativo di superare la distanza che intercorre tra il cittadino e il Parlamento. Ma è una vicinanza transitoria , che dura pochi attimi perchè poi ciascuno prenderà la propria strada e quella del parlamentare sarà probabilmente diversa da quella del cittadino. La somiglianza è limitata; non risolve le difficoltà del Parlamento perché si limita a riflettere bisogni singoli esasperando le polarizzazioni che già esistono nella società. La rappresentanza, invece, comporta una superiore sintesi politica, capace di risolvere i conflitti attingendo al complesso dei saperi, dei quali i Parlamenti dispongono, e che sono essenziale presupposto per la decisione. I
Parlamenti contemporanei per recuperare la propria naturale funzione di rappresentanza sono obbligati a misurarsi sul rapporto tra tecnologie digitali e destino dell’uomo, sulla nuova geopolitica, sulle grandi migrazioni, sull’emergere in quasi tutti i paesi del mondo di inaccettabili ingiustizie sociali, sulle difficoltà delle democrazie ad acquisire il consenso necessario per confrontarsi vittoriosamente con gli autoritarismi prevalenti nel mondo. Depositario dei saperi necessari per la decisione in questa fase non è quasi mai, nè può esserlo per la vastità delle competenze richieste, il singolo parlamentare. 6 Di qui l’essenzialità dell’amministrazione per il buon funzionamento della rappresentanza parlamentare. La massima qualità dell’amministrazione, che qui noi possiamo vantare, diventa perciò un fattore essenziale per un buon funzionamento del Parlamento. Tuttavia l’impegno per la rappresentanza e la disponibilità delle conoscenze necessarie per cogliere i contesti sociali ed economici non sono fine a sé stessi. I Parlamento non possono ridursi a clases discutidoras, secondo la definizione di Donoso Cortés. Non possono solo dibattere, alla fine devono decidere. La rappresentanza parlamentare non è un evento teatrale; è una sintesi politica che deve necessariamente portare ad una decisione politica. La democrazia o è decidente, capace di decidere non solo di rappresentare, oppure si riduce ad un gioco di specchi. La crisi che portò al fascismo e all’omicidio di Giacomo Matteotti fu anche e soprattutto una crisi di decisione delle vecchie classi dirigenti. Proprio la sua tragica storia, che oggi ricordiamo, ci insegna che le democrazie incapaci di decidere aprono i cancelli dell’autoritarismo.