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La questione

L'antimafia politicante che non ha cambiato la politica

Riccardo Lo Verso

Da Orlando a Chinnici, i candidati alle europee che spolverano di perbenismo le liste. Dopo opportuni cambi di casacca
 

Trent’anni fa erano baldanzosi, coraggiosi, a tratti persino spocchiosi. Cavalcavano il dolore e l’indignazione, teorizzavano la cultura del sospetto, andavano tra la gente stordita dal sangue delle stragi e confortavano le vittime con parole di speranza, sfidavano boss e picciotti della mafia e denunciavano con forza ogni indizio di corruzione, di intrigo, di arroganza e malaffare. Non solo. Scalavano pure i palazzi del potere. Ricordate Leoluca Orlando, il ragazzo col ciuffo sudaticcio appiccicato sulla fronte? Cresciuto nel ventre molle della Dc si rivoltò contro Salvo Lima e Giulio Andreotti, segnò a dito le collusioni e le compromissioni con Cosa nostra, si mise alla testa degli onesti che invocavano verità e giustizia, e con le mani nude conquistò il comune di Palermo. “Viva Palermo e Santa Rosalia”, gridarono con lui i chierici del comitato antimafia, eccitati da Ennio Pintacuda, il gesuita che ispirò la rivolta. E quando il mite Leonardo Sciascia, scrittore illuminato dalla ragione, denunciò sul Corriere della Sera i professionisti dell’antimafia, la confraternita del sindaco Orlando non esitò a sputacchiarlo e a collocarlo, come un piccolo delinquente di periferia, “ai margini della società civile”.

Trent’anni dopo, Palermo cerca faticosamente di fare i conti con le macerie e di rimarginare le ferite provocate da quella beffarda stagione. Ma lui, Leoluca Orlando, è ancora lì che tenta di piazzare la propria immagine e la propria storia al migliore offerente. Ha cercato la sponda del Pd, il partito che lo ha sempre fiancheggiato, anche se a debita distanza, ma non ha trovato udienza. E dopo dieci, cento, mille peregrinazioni ha trovato casa nella sinistra estrema di Bonelli e Fratoianni. E’ capolista nella circoscrizione delle Isole, e spera di riconquistare un biglietto per Strasburgo.

L’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando non ha trovato udienza presso il Pd e ha preso casa in Avs. L’ostacolo del quorum

Chi l’avrebbe mai detto? Dopo avere dominato per un quarto di secolo il palcoscenico del potere, l’ex sindaco della cosiddetta primavera di Palermo si ritrova confinato – sopportato, si stava per dire – in un partito che boccheggia e che difficilmente riuscirà a superare il quorum del quattro per cento, necessario per essere ammessi alla ripartizione dei seggi del Parlamento europeo. Ma il treno per Bruxelles è diventato l’ultima occasione che i professionisti dell’antimafia hanno per dire al mondo che esistono e che possono ancora avere un ruolo nella cosiddetta società civile. Come i nonni garibaldini vengono messi in lista al solo scopo di dare, al popolo degli elettori, un’immagine di perbenismo, di rigore, di attaccamento alle regole. I partiti li corteggiano e li arruolano. Se li appuntano sul bavero della giacca e vanno in giro per l’Italia a tromboneggiare in nome della legalità e del buongoverno. 

Se Orlando è andato con l’Avs di Bonelli e Fratoianni – gli stessi che si sono intestati il compito non facile di salvare Ilaria Salis dalla tortura ungherese – la lista “Libertà” di Cateno De Luca ha reclutato il capitano Ultimo, il carabiniere che dal gennaio 1993 intesta a se medesimo il merito di avere catturato a Palermo il boss dei boss: quel Totò Riina che era stato latitante per 23 anni e che a capo dei sanguinari corleonesi aveva deciso di decimare i vecchi boss di Palermo e di aggredire con le stragi gli eroi dello stato di diritto e di assassinare a Capaci e in via D’Amelio i due giudici che con professionalità e determinazione contrastavano la violenza e gli affari di Cosa nostra: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Diciamolo: nessun partito in lizza per le europee si è sottratto al fascino dell’icona antimafia da collocare in cima alla propria lista. Il grillino Giuseppe Conte ha pescato Giuseppe Antoci, che la mafia dei pascoli aveva tentato di uccidere su una strada sperduta dei Nebrodi, mentre Carlo Calenda, con Azione, ha preferito farsi illuminare dalla luce legalitaria di Sonia Alfano, figlia di un cronista ucciso trent’anni fa dalla mafia a Barcellona Pozzo di Gotto. Ma la figura che ha sorpreso e spiazzato di più giornali e osservatori della politica è stata quella di Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco, il magistrato che aveva inventato il pool dei giudici istruttori nel palazzo di Giustizia e che nel luglio del 1983 è saltato in aria con un attentato al tritolo in via Imperatore Federico, a Palermo. 

Caterina Chinnici, che ha corso con il Pd per la presidenza della regione Sicilia, ora si presenta con Forza Italia. Mormorii malmostosi

Caterina Chinnici, pure lei magistrato, è una professionista di lungo corso: professionista dell’antimafia e anche della politica. E’ stata assessore alla regione sotto la presidenza di Raffaele Lombardo, un leader autonomista finito sotto processo per intrighi di mafia ma poi puntualmente assolto; e stata per due legislature, e un totale di dieci anni, deputata al Parlamento europee sotto le insegne del Partito democratico; è stata la candidata del Pd alla presidenza della regione nella campagna elettorale del 2022, campagna vinta da Renato Schifani e dalla coalizione di centrodestra. Una storia di sinistra, verrebbe da dire. Cancellata con un tratto di penna nell’aprile del 2023, quando Santa Caterina dei Miracoli – così viene chiamata da alcuni giornali siciliani – decide di cambiare casacca e di passare, armi e bagagli, con Forza Italia, il partito al quale aveva rivolto per anni parole non proprio di apprezzamento. Sì, con il partito di Silvio Berlusconi e di Marcello dell’Utri, ma anche di Renato Schifani, eletto a Palazzo d’Orleans anche con voti di Totò Cuffaro, l’ex governatore condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento a Cosa nostra. Un gesto clamoroso il suo. Che non ha mancato di sollevare un mormorio malmostoso anche tra le anime belle, le stesse che per dieci anni l’avevano osannata e che, dopo l’ultima capriola, l’hanno apertamente accusata di trasformismo.
Ma lei, la figlia del giudice Rocco, non si è minimamente turbata. E pur di conquistare per la terza volta il seggio di Strasburgo continua ad andare dritta per la sua strada. Sostiene che la sua presenza in Forza Italia è stata voluta da Antonio Tajani, segretario di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi. Va in giro per la Sicilia con Lombardo, con Schifani, con Gianfranco Miccichè ed è convinta che gli azzurri conquisteranno, nella circoscrizione delle Isole, non uno ma due seggi. Grazie anche a Cuffaro, un alleato i cui voti un tempo puzzavano e ora non puzzano più.

Miracoli della politica. O del cambio casacca. Del resto i professionisti dell’antimafia si fanno vivi solo nelle vigilie elettorali. In quest’ultimo anno, ad esempio, la Sicilia è stata attraversata da scandali e scempiaggini che hanno messo a dura prova persino la tenuta della regione. Basta pensare al maleodorante affare di SeeSicily, una campagna di comunicazione promossa tra il 2021 e il 2022 dalla corrente turistica di Fratelli d’Italia, che ha provocato un buco di bilancio – acclarato e certificato – di almeno venti milioni di euro. La firma sugli atti più opachi e controversi è quella di Manlio Messina, a quel tempo assessore al Turismo della giunta Musumeci e oggi vice presidente del gruppo parlamentare di FdI alla Camera dei deputati. Corte dei conti e procura della Repubblica hanno sui tavoli montagne di documenti sequestrati dalla Guardia di finanza negli uffici della regione e stanno ancora cercando di quantificare le dimensioni dello scandalo, ma né la Chinnici né altri professionisti dell’antimafia hanno trovato la forza – o il coraggio – di pronunciare una parola di sdegno, di rammarico o di condanna. Meglio una parola in meno che una parola in più. 

La linea del silenzio – o dell’omertà, scegliete voi – adottata di fronte agli scandali più clamorosi della politica è stata rigorosamente seguita anche di fronte al complottismo inventato da certi procuratori d’avanguardia e sfociato in processi farlocchi che hanno sputtanato e mortificato persone che non avevano nulla a che fare né con le “trame oscure” né con i “mandanti occulti” di chissà quali nefandezze. Ma tant’è. I professionisti dell’antimafia ormai non parlano più. Non s’indignano e non protestano. Non alzano il ditino inquisitorio e non scendono più in piazza. Si sono accasati nelle stanze calde e protettive del potere e vogliono restare lì, con tutti gli agi, i conforti e i privilegi che la politica riesce a garantire. In cambio, va da sé, di una spruzzatina di bon ton alle liste, di un’antimafia da cerimonia fatta su misura per la campagna elettorale. I partiti non gli chiedono altro. Le parate e i pennacchi del resto non hanno altro scopo se non quello di richiamare alla memoria gli anni tosti e salvifici dei cortei, dell’impegno civile e dei lenzuoli bianchi che pendevano dai balconi come segno della lotta di Palermo e della Sicilia intera contro il terrore e la violenza delle cosche mafiose. Insomma, tra l’antimafia militante e la politica politicante c’è solo un gioco reciproco di opportunità e convenienze.

Un gioco comunque intrigante nel quale è cascato pure il capitano Ultimo – al secolo Sergio Di Caprio – che dopo la clamorosa cattura di Totò Riina non ha mai mostrato la faccia in pubblico per timore di una ritorsione mafiosa e ha rilasciato tutte le interviste con un passamontagna calato sul viso. Ma un mese fa quando Cateno De Luca, l’istrionesco leader di un partito chiamato “Sud chiama Nord”, gli ha offerto la candidatura alle europee, l’eroico Ultimo ha rotto gli indugi e si è finalmente liberato del passamontagna: “Lo faccio per un omaggio alla libertà”, ha detto con un chiaro riferimento alla parola che giganteggia nel simbolo della lista con la quale De Luca tenta di conquistare un seggio in Europa.

I professionisti dell’antimafia si sono sistemati nelle stanze del potere con tutti gli agi. C’è cascato pure il capitano Ultimo, che professionista non era

Il capitano Ultimo – va detto – non ha, a differenza di Leoluca Orlando o di Caterina Chinnici, un passato di professionista dell’antimafia. Però la lista “Libertà”, che lui capeggia con la fermezza propria di un carabiniere, comprende anche Piera Aiello, che per ventitré anni ha collaborato con la giustizia come ex moglie, ovviamente pentita, di un boss mafioso. Lei un po’ somiglia alla Chinnici, almeno nella vocazione al trasformismo: eletta alla Camera dei deputati con i grillini, nel settembre del 2022 non è stata riproposta per Montecitorio e ha quindi divorziato. Ora si è concessa pure lei un cambio di casacca: ha mollato il partito di Giuseppe Conte e ha cercato rifugio in quello di Cateno De Luca. Ce la farà a conquistare il seggio? I margini sono ristretti, addirittura esigui. Chi vivrà vedrà. Nelle stesse condizioni di Piera Aiello si trova Sonia Alfano. Che il primo colpo grosso lo ha tuttavia centrato nel 2009 quando è stata eletta all’Europarlamento per l’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro. Ora ci riprova con Carlo Calenda ma la strada è tutta in salita. 

L’antimafia dei nostri giorni non brilla più di luce propria. Non trascina masse di elettori. Non affascina più i giovani e i vecchi hanno imparato, purtroppo, a diffidare. Hanno visto troppe carriere sfrecciare e incenerirsi nel cielo ingannevole della politica. Hanno visto passerelle addirittura indecenti durante le commemorazioni di Giovanni Falcone e di altre vittime della mafia. Hanno visto il fratello del giudice Paolo Borsellino, fatto a pezzi nell’attentato di via D’Amelio, abbracciare e baciare in pubblico il pataccaro Massimo Ciancimino, primo testimone – ovviamente fasullo – del processo più avventato del secolo: quello sulla Trattativa. E, sinceramente, non hanno la più la forza e l’energia per inseguire altri miti e mitomanie costruiti in nome dell’antimafia. 

Questo non significa, va da sé, che la lotta ai boss e ai picciotti di Cosa nostra si sia esaurita. I siciliani, e non solo, hanno imparato a distinguere il grano dal loglio: sanno che ci sono magistrati che puntano – per velleità o ambizione – a imbastire processi farlocchi a beneficio esclusivo di giornali e televisioni, ma sanno pure che ci sono magistrati che hanno saputo coordinare con serietà e intelligenza la cattura di Matteo Messina Denaro. La Sicilia, pur tra le sue mille contraddizioni, non abbocca più: mantiene alta la considerazione per l’antimafia delle coscienze e dell’impegno civile; ma all’un tempo guarda con distacco all’antimafia della fuffa, della chiacchiera, delle carriere, dei giochi d’azzardo con la politica.  

La lotta ai boss e ai picciotti di Cosa nostra non si è esaurita. Ma i siciliani, e non solo, hanno imparato a distinguere il grano dal loglio
 

Qualche giorno fa Caterina Chinnici ha pubblicato sui social un post per dare conto di un incontro organizzato dall’Associazione Donne Elettrici di Catania dal titolo “Cultura politica per una Europa unita”. La foto mostrava una grande sala vuota. All’incontro c’erano sì e no una quindicina di persone. Un disastro. Per raggranellare un po’ di gente è stato necessario l’intervento di Raffaele Lombardo che, nel pomeriggio, sempre a Catania, ha riunito i propri fedelissimi e ha dato alla capolista di Forza Italia la sensazione – o l’illusione – di avere un popolo di elettori sul quale contare.

Per molti anni abbiamo creduto che l’antimafia, con la sua morale e le sue intransigenze, avrebbe cambiato in meglio la politica. E’ successo che una candidata dell’antimafia, per conquistare un seggio a Strasburgo, ha bisogno di essere sorretta da Lombardo e dagli altri cacicchi sparsi sull’infelice terra di Sicilia.