(foto EPA)

questioni di sopravvivenza

La sottile linea del confine nord di Israele

Daniela Santus

Gli attacchi di Hezbollah e i 100 mila sfollati israeliani che oggi nessuno vuole vedere. Il conflitto tra palestinesi e cristiani libanesi, gli attentati, l’occupazione e il ritiro dal Libano: la lunga storia di un’altra frontiera che scotta

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha affermato che l’Italia è pronta a riconoscere lo Stato di Palestina qualora ci fosse una missione Onu, a guida araba, che garantisse la sicurezza. Parola di Tajani, siamo pronti a “inviare i nostri militari per ripetere quello che stanno facendo con molta capacità tra Libano e Israele” Il ministro forse si è distratto negli ultimi, circa, vent’anni. Chi osserva con maggiore attenzione la situazione sul campo non può non notare come le forze Onu appaiano sempre più ostaggio di Hezbollah. Ma facciamo un passo indietro.
All’indomani della Dichiarazione Balfour (1917), gli storici ci spiegano che l’organizzazione sionista aveva sperato in uno Stato d’Israele che includesse l’attuale Libano meridionale sino al fiume Litani. Quest’area comprende infatti due delle principali sorgenti del Giordano: i fiumi Hashbani e Wazzani, oltre allo stesso Litani. Per ovvi motivi veniva ritenuto necessario che queste sorgenti si trovassero all’interno dei confini dello Stato, in quanto l’eventuale diversione del loro corso avrebbe significato non soltanto lasciare a secco il Giordano, ma anche creare notevoli problemi al lago di Tiberiade, di cui il fiume Giordano è il principale immissario. Va ricordato che il lago di Tiberiade è l’unico bacino d’acqua dolce in superficie dell’attuale Stato d’Israele. Ma non si trattava soltanto di una questione idrica: come ci ricorda Benny Morris nel suo testo “Vittime”, gli ebrei avrebbero infatti “preferito che il loro Stato confinasse con la regione cristiano-maronita a nord del Litani che, ipotizzavano, sarebbe diventata un giorno uno Stato maronita indipendente, piuttosto che con un paese islamico”.

D’altra parte proprio a questo accennava Ben Gurion nel 1938 parlando della “necessità politica di una frontiera comune con il Libano, un paese con una forte minoranza cristiana destinata a una precaria sopravvivenza in un oceano musulmano”.
I maroniti avevano infatti subìto massacri per mano dei musulmani libanesi e siriani, e anche dai drusi, particolarmente nel 1860 e nei primi anni ‘20. Ma, sempre secondo Morris, si sentivano anche impauriti dalla proibizione musulmana di collaborare con gli ebrei e molti pensavano che in futuro il loro benessere sarebbe dipeso dall’avere buoni rapporti con la maggioranza islamica.
Con la nascita dello Stato ebraico, Israele si accontenterà di molto meno. Nonostante ciò si troverà ad affrontare le varie guerre scatenate dai Paesi arabi, nonché i problemi derivanti dal terrorismo palestinese. Le roccaforti dell’Olp, dopo che Arafat sceglie di stanziarsi a Beirut e nei campi profughi nel Libano meridionale, cominciano a fungere da basi per altri gruppi terroristici come la Rote Armee Fraktion. Dal sud del Libano i terroristi, nel corso di incursioni transfrontaliere, colpivano facilmente i civili israeliani. Così le Idf (Forze di difesa d’Israele) cominciano a preoccuparsi di sigillare, per quanto possibile, il confine israeliano-libanese e la costa israeliana settentrionale. Nel frattempo in Libano, nel 1975, scoppia la guerra civile che si trascinerà sino al 1990, facendo più di 100mila morti.
Nei primi anni di guerra, i palestinesi subiscono una serie di sconfitte. A Beirut, ad esempio, due campi profughi vengono conquistati dai cristiani, che massacrano buona parte degli abitanti. Non si tratta di Sabra e Chatila, ma dal momento che non possono essere incolpati gli israeliani, nessuno se ne ricorda. Tra il 1977 e l’81 l’Olp è impegnato a combattere i cristiani libanesi e, contestualmente, a compiere le sue incursioni nel nord d’Israele con artiglieria e razzi: è quello il periodo in cui nasce l’alleanza israelo-cristiana.

Nel maggio 1977 in Israele viene eletto Menachem Begin: i cristiani maroniti gli chiedono subito aiuto. Intanto i siriani, che si erano a loro volta inseriti nel conflitto, bombardavano i villaggi maroniti e i quartieri cristiani di Beirut Est uccidendo centinaia di civili.  Si arriva così al 3 giugno 1981 quando Begin, alla Knesset, afferma che “la sicurezza e la sopravvivenza dei cristiani in Libano” erano un “interesse vitale per Israele” e che se i cristiani fossero stati ancora “attaccati dall’aviazione siriana” Israele sarebbe intervenuta “in loro difesa”. Nel frattempo l’Olp continuava ad attaccare, nel Libano meridionale, le città israeliane della Galilea.
Il 6 giugno 1982 gli israeliani entrano in Libano. Fu una scelta obiettivamente errata. Gli obiettivi di Ariel Sharon erano quelli di sconfiggere l’Olp e cacciare i siriani. A seguito di scontri e bombardamenti aerei, Arafat decide così di lasciare il Libano. Il 21 agosto 1982 comincia l’evacuazione. Una forza multinazionale si schiera a protezione della ritirata. Una parte delle truppe dell’Olp, le brigate dell’Esercito Palestinese e i resti dell’85esima brigata siriana lasciano la città su autocarri diretti in Siria o semplicemente più a nord, nella valle della Bekaa: le truppe dell’Olp in ritirata non vengono disarmate delle armi leggere. Negli 11 giorni dell’evacuazione, 14.398 palestinesi e siriani abbandonano Beirut, per schierarsi indisturbati nel Libano settentrionale. I dirigenti OLP si distribuiscono tra Siria, Algeria, Yemen del Nord e del Sud, Iraq, Giordania e Sudan: il quartier generale viene trasferito in Tunisia. La storia poi è nota. Il neo eletto Presidente della Repubblica libanese, Beshir Gemayel, viene assassinato il 14 settembre 1982 da un agente siriano e Sharon incontra i comandanti falangisti cristiani Frem e Khobeika per coordinare l’eliminazione dei terroristi. Il 16 settembre 1982, 150 uomini di Khobeika entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila, attraversando indisturbati le linee israeliane. Nessuno ha mai testimoniato di aver visto israeliani entrare nei campi con i falangisti, resta il fatto che questi ultimi compiono una strage, come già avevano fatto anni prima.

Nei giorni seguenti la Falange negherà di avere alcuna responsabilità, trovando un insperato appoggio da parte dei leaders islamici e della stessa Olp: era più importante, per questi, accusare Israele che non trovare gli esecutori materiali dell’eccidio. La colpa viene così fatta cadere su Israele. E mentre nel mondo si riaccende l’odio contro gli ebrei, Ariel Sharon – proprio per il fatto di non aver saputo impedire quella strage – viene costretto da Menachem Begin a lasciare il posto di ministro della Difesa. Una decisione corretta di uno stato democratico.
Il 21 settembre viene eletto Amin Gemayel e Israele, in seguito a pressioni americane, si ritira dal Libano, mantenendo soltanto una fascia di sicurezza. Tuttavia al disimpegno israeliano seguirà un peggioramento del conflitto: i siriani e i loro alleati ricominciano a colpire Beirut Est; i drusi massacrano centinaia di cristiani e costringono gli altri ad andarsene. Quali reazioni nel mondo? Nessuna, se non che i cristiani libanesi considereranno l’espulsione dalle loro case come diretta conseguenza del “tradimento” d’Israele che si era ritirato abbandonandoli al loro destino.
Nasce Hezbollah, il Partito di Dio creato e foraggiato dall’Iran, il cui scopo era quello di scatenare un Jihad anti israeliano, di restituire Gerusalemme e la Palestina all’islam e di sconfiggere l’occidente cristiano. Hezbollah trae i suoi militanti dagli sciiti poveri di Beirut e della valle della Beka’a. E con Hezbollah nascono gli attentatori suicidi. Interessante, tra le righe, una riflessione sul concetto di jihad. Se è vero infatti che il significato letterale indica uno “sforzo” teso a ottenere un obiettivo e, pertanto, non necessariamente qualcosa di militare (potrebbe essere un obiettivo spirituale), è altrettanto vero che i gruppi terroristici adoperano il termine soprattutto in chiave di annientamento del nemico: non per nulla chi usa l’islam in chiave politica e non spirituale ha parlato di jihad anti-sovietico, di cyber-jihad, di jihad in terra crociata (ovvero negli Stati cristiani) e, soprattutto, di jihad anti-israeliano. In questi casi il significato è sempre quello che indica la necessità di uno sforzo per ottenere l’annientamento d’Israele. Nella Carta di Hamas del 1988 si indica chiaramente la necessità di compiere un jihad contro gli ebrei, Israele e la civiltà moderna. Si vedano in particolare gli art. 12-13-14-15.

Ad ogni modo, dalla fine degli anni Novanta, presidenti e primi ministri libanesi sono nient’altro che burattini che agiscono grazie ai fili tirati a Damasco.
Quando a metà maggio 2000 Israele si ritira unilateralmente anche dalla zona di sicurezza del Libano, gli Hezbollah – senza che l’Onu esprima una sola parola di condanna – stabiliscono postazioni di mortai e di razzi Katiuscia a pochi metri dal confine internazionale e cominciano a colpire i villaggi del nord d’Israele. Non stupisce che la stessa cosa venga poi fatta anche da Hamas dopo il ritiro dei coloni e dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza.
Tramite Hezbollah, Iran, Siria e fondamentalisti islamici cercano da allora di imporre la loro egemonia sulla regione. Come già ci ricordava Gadi Taub, in un articolo ripreso tempo fa da israele.net, le guerre che si sono scatenate all’indomani dei ritiri unilaterali di Israele dal sud del Libano e dalla Striscia di Gaza, sono state combattute da Hezbollah e Hamas per impedire ciò che stava più a cuore alla gente d’Israele e cioè la necessità di porre fine all’occupazione anche della Cisgiordania. La maggior parte degli israeliani era infatti convinta che, senza spartizione del territorio, l’esistenza futura d’Israele fosse a rischio. Proprio per questo motivo Hezbollah e Hamas hanno attaccato e continuano ad attaccare. Basta ricapitolare la sequenza dei fatti: Israele ha firmato gli Accordi di Oslo nel settembre 1993 perché la maggior parte degli israeliani era giunta alla conclusione che l’occupazione metteva, appunto, in pericolo il futuro del paese. Arafat, nel 2000, fa naufragare la possibilità di spartizione del territorio. Gli israeliani ne deducono che non c’era modo di porre fine all’occupazione attraverso un accordo e si muovono per porvi fine lo stesso, ma senza accordo. E’ così che è nato il concetto di “ritiro unilaterale”. Da quel momento gli estremisti islamici hanno trovato il modo di impedire anche questa strada: infatti su entrambi i fronti da cui Israele si è ritirato unilateralmente (sud del Libano e Striscia di Gaza), sono cominciate le incursioni, i lanci di missili e razzi, per finire col pogrom del 7 ottobre. Non dovrebbe apparire insensato? In realtà molti palestinesi paiono convinti del fatto che proprio la persistenza dell’occupazione sia la migliore arma per distruggere Israele perché lo isola a livello internazionale e lo espone al divenire minoranza in una maggioranza araba, fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. 

Anche Arafat lo aveva capito bene, e per questo nel 2000 aveva fatto saltare l’accordo offertogli dall’allora primo ministro israeliano Ehud Barak a Camp David e a Taba. Ma Hamas e Hezbollah lo avevano capito ancora prima di Arafat, tanto da attivarsi per bloccare il processo di pace e impedire la spartizione territoriale fin dai primi anni ‘90. Ai loro occhi la Conferenza di Madrid del 1991 rappresentava l’inizio di una china pericolosa e pertanto mettono in campo tutti i mezzi che potevano per impedire qualunque progresso del processo di Oslo (“l’Accordo del Tradimento”, nel linguaggio di Hamas). E’ noto che Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, avesse addirittura invocato l’assassinio di Arafat quando questi sembrava avviarsi sulla famosa strada dei due Stati per due Popoli. Il problema rientra quando Nasrallah comprende che Arafat non aveva alcuna intenzione di attuare davvero quanto andava affermando ai media internazionali.
A quanto pare, sia Hamas che Hezbollah – per dirla ancora con Gadi Taub, storico dell’Università Ebraica di Gerusalemme – sono attori politici assai realisti, quando si tratta di definire la tattica. I loro obiettivi millenaristici saranno anche illusori, ma i mezzi che usano contro Israele sono perfettamente razionali. Entrambi sapevano che attacchi missilistici dalle aree che Israele aveva sgomberato avrebbero bloccato ulteriori futuri ritiri. Entrambi capivano bene ciò che Ehud Olmert aveva spiegato in modo così eloquente agli israeliani prima delle elezioni: che la sopravvivenza di Israele dipendeva da confini stabili internazionalmente riconosciuti in un territorio dove gli ebrei fossero una chiara maggioranza. Il che significava porre fine all’occupazione. 

Sulla base di questa logica, Hamas e Hezbollah hanno deliberatamente puntato a ostacolare il ritiro unilaterale, per impedire che finisse l’occupazione e per bloccare la strada di Israele verso confini stabili e internazionalmente riconosciuti. Sotto questo aspetto, la loro continua campagna missilistica è un successo e pensare che a risolvere la situazione possa essere la presenza dei Caschi Blu dell’Onu è una favoletta per bambini. Non vanno dimenticati i pesanti bombardamenti delle città del nord d’Israele da parte di Hezbollah, dopo la sua incursione nel paese nel luglio del 2006, ma soprattutto il ruolo di supporto che, da sempre, svolge nei confronti di Hamas. Dopo il 7 ottobre, Hezbollah ha tenuto impegnato parte dell’esercito d’Israele con attacchi quotidiani a strutture militari e civili del nord d’Israele. Come ha scritto Micol Flammini su questo stesso giornale, le persone dal nord d’Israele sono fuggite, abbandonando le loro abitazioni, le scuole, il lavoro. Finché Hezbollah sarà lì, il nord non sarà un posto sicuro in cui vivere checché ne pensi il nostro ministro Tajani che, semplicemente, non si rende conto che i più di centomila sfollati israeliani sono l’espressione palese del fallimento dei caschi blu dell’Unifil. Per comprendere l’attività indisturbata di Hezbollah basta ascoltare le parole di Ibrahim Al-Amine, giornalista affiliato al gruppo stesso, che pochi giorni fa ha affermato, vantandosene alla tv libanese Al-Jadeed: “Israele non ha avviato nulla in questa guerra; se non lanciamo noi offensive, Israele non spara un solo colpo. Dal 7 ottobre siamo noi a decidere come sarà la guerra”.

Pertanto, se la comunità internazionale continuerà a nascondere la testa sotto la sabbia e a puntare il dito accusatore sempre e soltanto contro lo Stato ebraico, Israele sarà costretto ancora una volta a dover agire per la propria sopravvivenza. Questo, purtroppo, non è più il tempo delle concessioni: lasciare la Striscia senza aver eliminato le postazioni di Hamas e distrutto i tunnel che da Rafah portano all’Egitto significherebbe che troppe persone – israeliane e palestinesi – hanno perso la vita invano. Lo stesso discorso vale per Hezbollah. Offrire, alle condizioni attuali, uno stato ai palestinesi significherebbe premiare il 7 ottobre e permettere che venga ripetuto. Significherebbe abbandonare gli ostaggi ancora in vita a un destino terribile. E, a nord, impedire il ritorno degli sfollati alle loro case e occupazioni. I palestinesi dovranno avere un loro stato: è innegabile, è giusto, è opportuno. Ma anche Israele dovrà poter vivere entro confini sicuri senza la minaccia del terrore o di nuove guerre. Non riteniamo anche questo innegabile, giusto, opportuno? Se tutto ciò si realizzerà, sarà perché Hamas e Hezbollah saranno stati sconfitti. Allora sì che una nuova e importante alleanza con i paesi dell’area potrà portare pacificazione e mettere in minoranza l’Iran, che si ritroverebbe d’un botto privo delle sue milizie in terra straniera. Sperando che ciò possa anche permettere a noi, nel mondo occidentale, di imparare a riconoscere e ad apprezzare la fortuna di risiedere nei nostri imperfetti stati democratici e laici che ci permettono persino di gridare fesserie. Attenzione, però, che quando queste fesserie sono così enormi da meritare il plauso di Al Qaeda, com’è recentemente accaduto, significa che siamo sull’orlo del baratro. Non lo pensa anche lei, ministro Tajani?
 

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