L'editoriale del direttore
Per rivoluzionare la sanità non servono più soldi, ma meno politica negli ospedali
Efficienza e riorganizzazione del capitale umano sono due elementi utili per evitare che i nosocomi diventino succursali dei partiti. Chiacchierata controvento con il professor Remuzzi
Riformare la sanità è una priorità, farlo senza demagogia pure. Il governo Meloni, lo avrete visto, ieri ha portato in Consiglio dei ministri un decreto legge contenente “misure urgenti per la riduzione dei tempi delle liste di attesa delle prestazioni sanitarie” e un disegno di legge volto a garantire nuove “misure di garanzia sulle prestazioni sanitarie”. Come buona parte delle misure approvate in fretta e furia poco prima di un’elezione, la quota “spot” è decisamente superiore alla quota “concretezza”. Ma un fatto interessante c’è, anche nella scelta della tempistica. La classe politica italiana, di destra e di sinistra, sa che per buona parte dell’elettorato i temi legati alla sanità sono quelli più sentiti, ben più sentiti rispetto ai temi legati all’immigrazione, e il fatto che alla vigilia delle europee si discuta più di come migliorare la sanità che di come rendere impossibile la vita ai migranti è un segnale che noi irresponsabili del pensiero ottimista potremmo persino definire incoraggiante.
Ma l’approccio scelto dal governo sul tema della sanità, in questo in perfetta continuità con i suoi predecessori, è un approccio che contiene una forma di demagogia legata all’impostazione generale. Il problema dell’Italia, quando si parla di sanità, non è legato ai soldi che non ci sono, alle liste d’attesa che non funzionano, ma è legata al vero elefante nella stanza che nessun politico, per forza di cose, vuole affrontare: la volontà della politica di non dedicare un solo secondo del suo tempo ai danni che la politica produce quando trasforma gli ospedali in succursali dei partiti. Giuseppe Remuzzi, medico importante, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, accetta di dialogare con il Foglio su questo tema e prova a offrire qualche paletto utile per identificare con semplicità quando la politica si occupa di concretezza, sul tema della sanità, e quando invece si occupa di demagogia. C’è un problema culturale quando si parla di sanità, dice Remuzzi, di prospettiva, verrebbe da dire. E il problema, dice, è questo: “Non si può schiacciare il dibattito sulla sanità del futuro concentrandosi solo sulla logica sterile della lagna”.
Remuzzi va sul concreto: “La sanità non si migliora con gli slogan, non si migliora limitandosi a chiedere più soldi, non si migliora concentrandosi sull’ossessione delle liste d’attesa. Si migliora provando a declinare un concetto che scotta ma che è quella che chiunque sia interessato a intervenire in questo settore deve avere il coraggio di usare: efficienza”. E dire efficienza, dice Remuzzi, significa dire delle cose precise. “La prima: non è vero che l’unica sanità efficiente è quella privata e che la pubblica è spacciata. E’ falso. E’ vero invece che per avere una sanità pubblica più efficiente occorre iniziare a gestire la sanità pubblica come se questa fosse un’impresa vera, reale, non la succursale di un gabinetto politico. E per farlo la soluzione vera, rivoluzionaria, è mettere meno politica negli ospedali”. Bum! “Non è un’affermazione retorica. E’ un’affermazione pratica. Bisogna avere il coraggio di dare agli ospedali lo stesso status giuridico che hanno le imprese. Bisogna smetterla di avere direttori sanitari nominati solo perché vicini ai partiti”.
“E bisogna avere il coraggio di dire che avere i primari scelti con criteri politici rappresenta il problema più grave della sanità italiana. Lo dico con chiarezza: vi pare normale che a ciascuno di noi può capitare di essere operato da un medico che ha ottenuto un posto di responsabilità perché in quota a questo o quel partito? Senza cambiare questo equilibrio, senza dare cioè al direttore di un ospedale la possibilità di poter scegliere un primario, ogni scelta che verrà fatta per migliorare la sanità sarà una scelta demagogica”. Il passaggio successivo, dice Remuzzi, è eliminare i concorsi, abolirli, “dare la possibilità a ciascun direttore generale di assumere i medici che reputa essere i migliori sulla piazza, scaricare sul direttore generale la responsabilità delle scelte e infine dare agli ospedali finanziamenti in base ai risultati”. Ed è inutile che ci prendiamo in giro, dice Remuzzi: “Oggi dei risultati non interessa quasi a nessuno, o meglio, nessuno li misura, perché i controlli sono formali, non entrano nel merito delle cure e i soldi arrivano a pioggia, senza stabilire dei paletti che possano permettere agli ospedali di puntare verso l’alto, verso l’eccellenza”.
E cosa c’entrano le liste d’attesa? “C’entrano perché l’ossessione generica delle liste d’attesa induce il sistema sanitario ad alimentare prestazioni inutili, a non ragionare sulla base di ciò che serve e di ciò che non serve, e a far aumentare la spesa sanitaria a danno di chi è davvero malato. Un lavoro pubblicato tempo fa su Nature ha dimostrato che se si mettono a disposizione più specialisti le liste d’attesa al momento si riducono, poi però il sistema si riorganizza su un nuovo livello di domanda e siamo da capo. Dunque, sì: le liste d’attesa sono importanti. Ma per intervenire su questo terreno occorre, anche qui, fare scelte anti demagogiche, scelte improntate all’efficienza, e occorre governare la domanda stabilendo delle priorità, adeguandosi cioè all’evoluzione delle conoscenze”. Per riorganizzare il sistema a volte è sufficiente copiare. Guardate cosa succede in Portogallo, per dire. In Portogallo dice Remuzzi vi sono delle case di comunità, dove vi sono medici che lavorano insieme, e che possono prescrivere farmaci, un gruppo di specialisti che aiuta, e sono strutture che mandano persone a casa di chi ha difficoltà a muoversi. “Un anziano non lo mando al pronto soccorso, è l’infermiere che va a casa”. Poi, dice ancora il prof., “accanto a queste strutture, occorrerebbe superare la logica degli ospedali diffusi, che nessun politico riesce a governare perché se chiudi un piccolo ospedale ti ritrovi i manifestanti in piazza, e occorrerebbe lavorare agli ospedali di prossimità, dove gli infermieri possono fare tutto ciò per cui non hanno bisogno necessariamente di un ospedale tradizionale: diagnosi, cure, referti. Così facendo, si toglierebbe dagli ospedali tradizionali l’ottanta per cento dei pazienti che non ha necessità di stare in quelle strutture e si eviterebbe di intasare anche i pronto soccorso lasciando spazio a chi ha un’urgenza vera: un infarto, un’emorragia cerebrale, la lesione dell’aorta, il sangue nello stomaco. Tengo a ripetere questo numero: l’80 per cento delle persone che oggi si rivolge agli ospedali si potrebbe curare a casa”.
La riorganizzazione che serve, quella più urgente, non riguarda dunque l’allocazione del capitale economico, ma riguarda l’allocazione del capitale umano. “Mettere i soldi così, senza fare nulla, senza riorganizzare, non serve, e produce anzi risultati controproducenti: nasconde la polvere sotto il tappeto, dà maggiore forza alla politica negli ospedali, e porta a spendere soldi in modo del tutto inefficiente. Non servono più soldi, serve meno politica. E dopo aver pensato a tutto questo, puoi pensare a tutto il resto. Per esempio pagare di più i medici, distribuire meglio le risorse, evitare di far scappare i più bravi in altri paesi solo perché un primario che lavora in Italia guadagna meno di un primario che lavora in altri grandi paesi europei. Per esempio dando ai giovani medici una prospettiva di avanzamento di carriera e di responsabilizzazione che sono le vere leve per evitare di fare andare i ragazzi all’estero. Per esempio, ancora, ricordarsi che un medico di medicina generale, che gestisce anche 1.500 posti letto, deve essere pagato bene e deve essere formato da professionisti seri non dai sindacalisti scelti dalla politica per dare un contentino al sindacato di turno. Vi do un numero”. Prego. “Ogni anno si sprecano 50 miliardi in esami inutili e farmaci di cui si può fare a meno. Quei soldi andrebbero utilizzati per retribuire medici e infermieri così da avvicinarci alle retribuzioni europee. I soldi non sono l’unica ragione per cui perdiamo medici e infermieri, il sistema va analizzato globalmente, è inutile inseguire la singola disfunzione: liste d’attesa, letti di rianimazione, più medici in pronto soccorso”. Conclude Remuzzi: “Il nostro Servizio sanitario nazionale dovrebbe essere universale, solidale e uniforme, è la cosa più preziosa che abbiamo, deve essere alla cima dei pensieri di tutti i governi perché, come sosteneva già Giorgio III nel Settecento, forza e prosperità di una nazione si ottengono solo proteggendo la salute di una popolazione numerosa e questo spetta al re, cioè per noi il governo. Non servono più soldi. Serve semplicemente meno politica. Ma chissà quando la politica lo capirà”.