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SAVERIO MA GIUSTO

Pronostico rispettato: ha preso più voti il Cav. da morto che Salvini da vivo

Saverio Raimondo

Decesso strategico, coerenza, niente indagini: i vantaggi elettorali di essere un leader morto. Consigli da spin doctor per Renzi, Calenda, Conte e tutti coloro che sono usciti sconfitti dalle urne

L’avevo pronosticato già ai primi di aprile su questo giornale: prende più voti Berlusconi da morto che Salvini da vivo. Il mio pronostico non era dettato da nessuna chiaroveggenza, ma dalla conoscenza della profonda cultura sepolcrale italiana: da sempre ci piacciono i morti, nella musica come nella letteratura come in tv (guardate gli ascolti dei funerali, o anche solo dei programmi di teche); e sapevo che prima o poi sarebbe arrivata questa preferenza anche in politica. Aggiungo alla mia previsione ormai certificata un altro dato, non di secondaria importanza: Berlusconi da morto prende più voti di sé stesso da vivo.
 

Nel 2019, alle precedenti elezioni europee, Forza Italia si era fermata all’8,7 per cento; quest’anno, con il fondatore e vero leader (Tajani è soltanto un medium) deceduto, guadagna più di un punto percentuale. Questo significa che l’elettore italiano non rimpiange Berlusconi com’era; all’elettore Berlusconi piace così com’è adesso, cioè morto (in effetti un leader morto è garanzia di una certa stabilità, a suo modo è rassicurante, insomma è perfetto per l’elettorato moderato). Credo che questo discorso non valga solo per Berlusconi, ma possa piuttosto essere la nuova frontiera della politica democratica. Come rilanciare la propria leadership, quando ormai gli elettori ti hanno voltato le spalle e sei in calo di consensi? Morendo. Si badi bene: non sto augurando la morte a nessuno. Sto solo facendo lo spin doctor per Matteo Renzi, Giuseppe Conte, Carlo Calenda, Matteo Salvini, tutti coloro che sono usciti sconfitti dalle urne e hanno bisogno di un rilancio, di recuperare voti e prestigio. Insomma: una strategia. E Berlusconi insegna, ancora una volta.
 

Il leader morto piace, attira le preferenze, anche trasversalmente: non solo la morte non è di destra né di sinistra (o meglio, è sia di destra che di sinistra: la morte è qualunquista, vagamente populista), ma un leader da morto può piacere anche ai suoi detrattori, a chi non l’ha mai votato. L’elettorato di sinistra preferisce sicuramente un leader di destra morto a uno vivo; e viceversa. Inoltre, è innegabile che un leader politico da morto tende a essere più coerente (niente cambi di casacca né voltagabbana), difficilmente fa gaffe, non può essere indagato. Tutti punti a favore del decesso come strategia politica. Inoltre per gli avversari è molto più difficile attaccare o smentire un leader morto; il quale si sottrae naturalmente al confronto tv senza poter essere accusato di opportunismo o vigliaccheria. Attenzione però a non pensare che la morte sia un argomento convincente solo per gli elettori moderati: non c’è niente di più radicale della morte, per certi aspetti è una scelta estremista, oserei dire polarizzante.
 

Sicuramente, un leader morto non può essere tacciato di ambiguità: in una logica bipolare, “o di qua o di là”, il leader morto si schiera nettamente aldilà. Aggiungo: i grandi statisti sono tutti morti; ergo, se un leader politico punta a costruirsi un profilo istituzionale solido e credibile, morire è il minimo, una condizione forse non sufficiente ma di certo necessaria. La morte è sempre stata una strategia a lungo termine; ma ora Berlusconi alle urne ci insegna che può premiare persino nel breve periodo. Non resta dunque che sostituire il suicidio politico (caro a molti leader italiani, specie di area centrista/terzopolista) con il suicidio vero e proprio. E a chi diceva di certe alleanze “più che un campo largo è un camposanto”: potrebbe essere un’idea, per giunta vincente.

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