Chiamatemi Adolfo
Continuavano a chiamarlo Adolfo Urss. In difesa di un soprannome
Abbiamo scritto ministro Urss anziché Urso, e lui, che all’inizio l’aveva trovata “una cosa simpatica”, oggi si sente denigrato e chiede i danni. Ma la sua politica industriale dirigista e statalista resta più vicina a modelli sovietici che al programma del governo Meloni
Negli ambienti di Fratelli d’Italia si narra che prima della formazione del governo, Giorgia Meloni avesse chiesto a Ignazio La Russa – il veterano della destra – un consiglio su due nomi che avrebbe voluto scegliere come ministro: Daniela Santanché, di cui il presidente del Senato era avvocato, e Adolfo Urso. Sulla prima, la sua amica, La Russa ha dato rassicurazioni (e si è visto come è andata a finire) mentre sul secondo ha risposto alla premier con una frase del compianto Pinuccio Tatarella: “È tanto bravo quanto inaffidabile”. Dopo diversi mesi di exploit e protagonismo da nuovo ministro delle Imprese, Meloni è tornata da La Russa: “Ma non avevi detto che era pure bravo?”.
L’insofferenza della premier verso le dichiarazioni e le iniziative di Urso è aumentata nel tempo, e chissà cosa ne pensa dopo la decisione del ministro delle Imprese di avviare un procedimento di mediazione contro il Foglio e il Riformista per un valore compreso tra 250 e 500 mila euro per essere stato chiamato “Adolfo Urss”. Venerdì 7 giugno, il giorno prima delle elezioni europee, mentre tutti erano concentrati su un voto determinante per il continente, il ministro delle Imprese e del made in Italy (Mimit) fa depositare un’istanza di mediazione civile – il passaggio che prelude a un’azione civile – perché si è sentito leso nell’onore da articoli del Foglio (e uno del Riformista). Articoli non recenti, ma che risalgono a quattro mesi fa e a quasi un anno fa. I giornalisti, secondo Urso, “hanno tenuto un comportamento gravemente lesivo dell’onore e della reputazione” del ministro delle Imprese “attraverso la diffusione di articoli denigratori e non rispondenti alla realtà in merito ad alcuni delicati temi di politica industriale, quali: caro benzina, caro voli aerei, licenze taxi, ex Ilva e Uber”. La colpa dei giornalisti – io e il direttore Claudio Cerasa, Annarita Digiorgio e l’ex direttore del Riformista Andrea Ruggieri – è di aver criticato la sua politica industriale dirigista. Ma ciò che più di tutto non è andato giù al ministro delle Imprese è stato “l’utilizzo di un nomignolo originale, ma dai connotati fortemente denigratori, quale Adolfo Urss”. Un appellativo ironico per descrivere il suo approccio statalista, ma che ora viene buono anche per descrivere la sua insofferenza alle critiche della stampa.
Certo, per un politico della destra post fascista non sarà piacevole essere accostato al comunismo, ma come ha detto Nicola Porro – allievo di Antonio Martino, che nella destra italiana cerca di iniettare un po’ di cultura liberal-liberista – “Come lo vuoi chiamare un ministro che pensa di imporre con un algoritmo di stato il prezzo dei biglietti aerei all’interno di un mercato libero? Quello che nazionalizza l’Ilva. Adolfo Thatcher?”. Impossibile. Anche perché avremmo rischiato una denuncia, quella sì con un fondamento solido, da parte degli eredi della Lady di Ferro.
Eppure l’inizio di questo governo faceva immaginare una svolta liberale. Nel suo discorso d’insediamento alla Camera dei deputati, Giorgia Meloni disse che con il suo governo chi vuole fare impresa in Italia “va sostenuto e agevolato, non vessato e guardato con sospetto. Il nostro motto sarà: non disturbare chi vuole fare”. Parole che ricordano molto quelle pronunciate dalla Thatcher nel 1975, prima di entrare a Downing Street: “Lavoro, esportazioni, ricchezza e inventiva sono la base della nostra prosperità. Dipendono dalla libera impresa. Ora serve solo un governo che ci creda. Un governo che incoraggi una libera impresa fiorente e redditizia”.
Esattamente ciò che poi ha messo in pratica, salvando il Regno Unito dall’inesorabile declino in cui si era avvitato (un po’ come l’Italia degli ultimi decenni). Nel 1995 la Thatcher diceva esattamente le stesse cose in difesa dello stato minimo: “Un governo interventista soffoca gli sforzi di tutti, fiacca le imprese, incoraggia la dipendenza e promuove la corruzione”. Vent’anni dopo quel discorso, e dopo aver attuato sul serio una rivoluzione liberale, la Lady di Ferro era rimasta coerente con i suoi propositi giovanili, che le hanno consentito di diventare la prima donna a capo di un governo in Europa.
L’ossessione del controllo dei prezzi. Il ministro delle Imprese si è convinto di poter condizionare con le sue iniziative sia i grandi aggregati economici, come l’inflazione, sia i prezzi al dettaglio. Tutto è cominciato con i benzinai
Dopo qualche mese di governo, invece, del discorso alla Camera di Meloni è rimasto ben poco. Il ministro Adolfo Urso, che ha interpretato la politica industriale e non solo, è andato avanti a colpi di nazionalizzazioni, intrusioni, conflitti con le imprese, concertazioni e un sistematico tentativo di controllo dei prezzi. Sarà stata l’aria di Palazzo Piacentini, storica sede del ministero delle Corporazioni durante il Ventennio, ma in questo caso si è andati addirittura oltre l’interventismo caratteristico della destra corporativa. A un certo punto è venuto quasi il sospetto che il Mimit si fosse trasformato nella sede del Gosplan, l’agenzia che nell’Unione sovietica si occupava della pianificazione economica. Non c’è un settore in cui il ministro non sia intervenuto. Ogni vera o presunta emergenza, ogni notizia estemporanea, diventa lo spunto per un’iniziativa del ministero. Più che delle Imprese, Urso è diventato il ministro della Rassegna stampa per questo doppio canale che si è aperto con i media: l’agenda di governo viene dettata dai titoli dei giornali e i provvedimenti assunti dal governo hanno l’obiettivo di finire nei titoli dei giornali. Un circolo che si autoalimenta, senza però incidere sui problemi strutturali del paese.
L’ossessione principale ha riguardato il controllo dei prezzi, all’ingrosso e al minuto. Nel senso che Urso si è autoconvinto di poter condizionare con le sue iniziative sia i grandi aggregati economici, come l’inflazione generale (sia headline sia core) o il costo dell’energia (carburanti), sia i prezzi al dettaglio (pane, pasta, pannolini, assicurazioni, biglietti aerei, etc.). Urso si è convinto – e ha cercato di convincere il resto del mondo – di essere in grado di controllare l’inflazione al posto della Banca centrale. Da quando è esplosa l’inflazione, dopo lo choc sul lato dell’offerta dovuto prima alla pandemia e poi all’aumento dei costi energetici a seguito dell’invasione dell’Ucraina, Urso ha attaccato continuamente la Bce per la politica di rialzo dei tassi, sostenendo che fosse una scelta dannosa perché avrebbe depresso l’economia. Non è andata così, ovviamente. Perché gli undici rialzi dei tassi deliberati dalla Bce – che ha probabilmente la colpa di aver agito in ritardo e non di aver reagito troppo – hanno riportato l’inflazione da sopra il 10 per cento di fine 2022 al 2,6 per cento di maggio 2024 (0,8 per cento in Italia). In questo stesso periodo, peraltro, il pil ha continuato a crescere (seppure di poco), l’occupazione ad aumentare e la disoccupazione a scendere (6,4 per cento nell’Eurozona, per la prima volta dopo tanto tempo sotto il 7 per cento in Italia). Nel 2023 Urso – che ritiene parte della sua attività il commento della politica monetaria – si scagliava contro la Bce, dicendo che l’aumento dei tassi non avrebbe favorito la ripresa economica. A distanza di meno di un anno l’Eurozona, sebbene dovrà ancora affrontare l’ultimo miglio per arrivare al target del 2 per cento, sta andando verso un “soft landing” (un atterraggio morbido), ovvero uno di quei rarissimi casi in cui si riesce a ottenere una forte disinflazione senza andare in recessione. Per qualsia politico che abbia dimestichezza con l’economia e i meccanismi del mercato, sarebbe la conferma che aveva ragione Christine Lagarde. Per Urso, al contrario, che ha una notevole capacità di confondere causa con effetto, è la dimostrazione che aveva ragione lui. Dato che ritiene il calo dell’inflazione un merito del governo e, più nello specifico, della capacità del suo ministero di controllare i prezzi.
Non si tratta della terapia della motosega del libertario Milei, che nella situazione disperata dell’Argentina, ha portato l’inflazione dal 25,5 per cento mensile al 4,2 per cento in soli cinque mesi con un’austerity senza precedenti (un aggiustamento fiscale di 5 punti di pil in poche settimane). Nel caso italiano si tratterebbe, secondo il ministro, della terapia d’Urso che consiste nel lanciare accuse contro gli “speculatori”, mettere cartelli con il prezzo medio nelle stazioni di rifornimento e fare moral suasion sulle imprese lanciando il “carrello tricolore”. E’ con tutta evidenza una sorta di cura omeopatica, che agisce come un placebo e quindi produce effetti solo per chi si convince che funzioni: Urso.
Tutto è cominciato con i benzinai. Per placare le polemiche sull’aumento del costo dei carburanti dopo l’aumento delle accise, Urso ha promosso un decreto contro la “speculazione”: obbligo di esposizione a ogni pompa di benzina di un cartello con il prezzo medio regionale dei carburanti, “accisa mobile” nel caso in cui i prezzi salgano troppo e inasprimento delle multe ai distributori che non adempiono a tutti gli obblighi di comunicazione dei prezzi. Tutte misure completamente inutili, che hanno tra l’altro indispettito una categoria vicina a FdI che si è sentita ingiustamente accusata per un aumento dei prezzi dovuto alle dinamiche delle quotazioni internazionali (tant’è che il costo del pieno in Italia è salito, e poi sceso, né più né meno che nel resto d’Europa). Tra l’altro, tutte le misure si sono rivelate completamente inutili. Dopo un anno abbondante, del decreto Trasparenza sui carburanti è rimasta solo la rottura con i benzinai: le multe sono state annacquate; i consumatori non hanno visto alcun beneficio; l’accisa mobile non è mai entrata i vigore (il governo ha poi scelto un’altra strada come il bonus benzina per i lavoratori dipendenti); e il cartello con il prezzo medio – la grande innovazione di Urso – oltre a non avere avuto alcun impatto sui prezzi, è stato dichiarato illegittimo dal Consiglio di stato (che ha appunto annullato l’articolo 7 del decreto).
Ma il ministro è convinto, con la sola esposizione del cartello, di essere riuscito ad avere un impatto sui prezzi, superiore alle decisioni dell’Opec (che sul prezzo del petrolio ha un’influenza non trascurabile): “Col tabellone sul prezzo medio – ha detto il ministro – c’è stata una costante riduzione del prezzo di gasolio e benzina”. Di parere opposto i distributori di benzina, secondo cui “non è servito a niente”. La Figisc – che è la Federazione italiana gestori impianti stradali carburanti – ha pubblicato una valutazione d’impatto molto dettagliata che ha seguito l’andamento nel tempo dei tre fattori che compongono il prezzo finale: l’accisa ivata (che dipende totalmente dallo stato), il costo del prodotto ivato (che dipende dalle oscillazioni del mercato globale) e il margine industriale lordo ivato del sistema distributivo (dove si è concentrata l’attenzione del Mimit). L’analisi è impietosa: l’evoluzione dei margini industriali è stato coerente con la media dei periodi antecedenti o, addirittura, in alcuni casi più sostenuto. In sostanza: il cartello non è servito a niente.
Siccome oltre a essere stata inutile, la norma è stata anche scritta male e per questo annullata dalla giustizia amministrativa, la cosa più normale sarebbe archiviare questa triste pagina di tentato controllo dei prezzi. Ma il ministro Urso non demorde, anzi rilancia. Con un colpo da maestro, inimmaginabile per un comune mortale: una soluzione più inutile del cartello con il prezzo medio. Nel nuovo ddl di riforma della distribuzione dei carburanti il Mimit propone “l’inserimento, quale alternativa alla esposizione della cartellonistica riportante il prezzo medio regionale, il meccanismo del Qr code”. In pratica l’automobilista, al posto del vecchio cartello inutile, se ne ritroverà davanti uno illeggibile: prima di fare benzina dovrebbe estrarre lo smartphone, scansionare il codice e leggere il prezzo medio regionale. Non è solo nella mania di controllare i prezzi, ma è nella ridondanza di inutile burocrazia che si può apprezzare lo stile sovietico del nuovo Mimit. Roberto Di Vincenzo, presidente della Fegica (Federazione gestori impianti carburanti e affini), rappresentante di una categoria storicamente vicina al centrodestra dice che “Urso è senza dubbio il peggior ministro che sia mai stato in Via Molise. Ricordo dure battaglie con il socialdemocratico Nicolazzi, ma a confronto era Talleyrand”.
L’iniziativa del carrello tricolore per “dare un definitivo colpo all’inflazione”. La guerra al “caro voli”. Misure e annunci di Urso si distinguono in due grandi categorie: inutili e dannosi. E intanto si accumulavano i ritardi su importanti provvedimenti per l’industria come gli incentivi di Transizione 5.0 e per l’auto
Con le imprese del settore agroalimentare, accusate anch’esse di speculare sui beni di prima necessità, è successa la stessa cosa. Urso ha lanciato con grande fanfara il “carrello tricolore” nel cosiddetto “trimestre anti-inflazione”: un accordo tra Gdo e imprese in cui gli aderenti si sono impegnati a fare promozioni, senza vincoli particolari, su una selezione di prodotti alimentari e di cura della persona. “Con il paniere calmierato siamo convinti di poter dare un definitivo colpo all’inflazione riconducendola a livelli naturali”, annunciò il taumaturgo titolare del Mimit. In realtà si tratta grosso modo delle abituali offerte che si trovano nei supermercati, solo stavolta con il marchio di stato del “carrello tricolore”. Tanto è bastato a Urso, un po’ come la mosca cocchiera che credeva di aver trainato la carrozza, per prendersi il merito per il calo dell’inflazione: “Nel primo mese del carrello tricolore l’inflazione è crollata di 3,5 punti percentuali, migliore performance in Europa! Una frenata senza precedenti. Obiettivo raggiunto!”.
Ma se si analizzano i dati, si vede come il “carrello tricolore” di Urso è servito esattamente come il “cartello alla pompa”: a niente. Anzi, da quando è finito il cosiddetto “trimestre antinflazione” voluto Urso, l’inflazione scende più di prima. Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, i prezzi dei “beni alimentari, per la cura della casa e della persona” – l’indice che rappresenta il cosiddetto “carrello della spesa” – rallentano a maggio dal 2,3 al 2,3 per cento: il dato più basso dal novembre 2021. Da quando (dicembre 2023) non c’è più il “carrello tricolore” del ministro il tasso di inflazione di questi beni è sceso di 3,3 punti percentuali: dal 5,3 al 2 per cento. Il “trimestre anti inflazione” era talmente inutile che è durato, appunto, solo un trimestre. Urso non lo ha rinnovato perché “ha raggiunto l’obiettivo”, che evidentemente era quello di dimostrare la sua inutilità: l’inflazione scendeva prima, durante e dopo la brillante iniziativa del controllore dei prezzi di Palazzo Piacentini.
Ma siccome nessuno, né tra i colleghi di governo né tra gli amici o i consulenti, ha avuto il coraggio di svelargli che lui non è in grado di calmierare i prezzi, Urso continua invece a credere di avere questi poteri. E così, oltre ai prezzi in generale, si è occupato anche di tutti gli aumenti per ogni settore. Urso ha fatto istituire addirittura una “Commissione di allerta rapida di sorveglianza dei prezzi” – il comitato centrale del Pcus avrebbe certamente apprezzato l’idea – che viene convocata per monitorare l’andamento dei prezzi in tutti i settori: filiera agroalimentare, assicurazioni Rc auto, pannolini, ortofrutta e biglietti aerei.
Quest’ultimo tema è stato un cavallo di battaglia del ministro per tutta la scorsa estate. Dopo aver letto notizie sullo stagionale aumento dei costi dei biglietti aerei nella stagione estiva, Urso ha lanciato una guerra al “caro voli”: “Abbiamo potuto verificare che l’algoritmo crea una distorsione di mercato”, ha detto annunciando un decreto per bloccare i prezzi. A inizio agosto, dopo aver incontrato il ministro, il ceo di Ryanair (il principale vettore del paese) Eddie Wilson, intervistato da Repubblica, definisce il decreto sui prezzi “ridicolo e illegale” oltre che “populista e di stampo sovietico”. Pochi giorni dopo che il Foglio lo aveva definito “Adolfo Urss”, per le sue iniziative stataliste, il ceo di Ryanair era giunto alle stesse conclusioni (evidentemente Urso troverà anche in questa coincidenza la prova di una “velina” o di un “complotto” orchestrato contro di lui, ma ne parleremo più avanti). La vicenda della norma contro il “caro voli”, poi entrata nel decreto Asset, è stata particolarmente imbarazzante: come era prevedibile, nonostante lo strano appoggio dell’Antitrust, la Commissione europea ha chiesto al governo di rimuovere il tetto ai prezzi perché in contrasto con il diritto comunitario. Bruxelles non ha detto esplicitamente che è una norma di stampo sovietico, ma ha fatto capire chiaramente che è contro la libera determinazione dei prezzi in un mercato libero.
Le misure e gli annunci di Urso si distinguono, in sostanza, in due grandi categorie: inutili e dannose. Del primo gruppo fanno parte la Giornata del Made in Italy, il Liceo del Made in Italy (appena 375 iscrizioni in tutta Italia, lo 0,08 per cento del totale), l’Esposizione permanente del Made in Italy, il Fondo sovrano per il Made in Italy, il decreto Asset sui taxi. “Più licenze per fronteggiare la crescente richiesta e i picchi turistici – dichiarò il ministro dopo le immense code di turisti nelle città italiane – anche nel settore taxi arriva la svolta attesa da anni”. In realtà, dopo un anno la “svolta” è che è tutto come prima. Nessuna nuova licenza è stata rilasciata con le norme del decreto. Del secondo gruppo, tra le uscite dannose, fanno parte le dichiarazioni improvvide fuori dal suo campo. Due sono emblematiche. A novembre, su un tema delicato come la gestione del debito pubblico, con il suo solito approccio dirigista Urso ha incitato le assicurazioni ad aumentare gli acquisti di Btp. Qualche compagnia ha reagito in maniera diplomatica, ricordando che le assicurazioni sono soggette a regole europee che saggiamente spingono verso la diversificazione e penalizzano l’eccessiva esposizione su specifici asset. L’ad di Generali Philippe Donnet – memore degli attacchi di Urso ai “francesi” in nome della “sovranità finanziaria” e dell’intervento a gamba tesa sugli equilibri del Leone con il ddl Capitali – ha risposto in maniera secca: “Non ci si può ricordare del settore assicurativo solo quando c’è bisogno”. La tensione su un tema così delicato ha indispettito il Mef, ma nulla in confronto alla tempesta che è stata scatenata sulle banche. In un’altra intervista estiva, di quelle in cui spazia dall’inflazione alla geopolitica all’energia, Urso aveva annunciato un intervento legislativo sugli Npl (non performing loans) per dare la possibilità al debitore di ricomprare a sconto il suo debito ceduto dalla banca a operatori nel settore dei crediti deteriorati. Si tratta della norma nota come “Legge delle mutande”, a causa di un video virale in cui l’allora premier Giuseppe Conte, a Napoli, dialogava da un balcone all’altro con un signore attempato in slip che gli chiedeva di approvare la proposta di Urso. Una norma che già la Banca d’Italia e la Bce avevano bocciato, perché avrebbe disintegrato un mercato che funziona bene e che ha ripulito i bilanci delle banche italiane. Poi il Mef ha dovuto metterci una toppa, rassicurando gli investitori internazionali con un’intervista al Financial Times di un sottosegretario non sovietico, Federico Freni: “Il mercato è sano, non c’è motivo per cui il governo intervenga”.
Nel frattempo, mentre si occupava della qualunque, nonostante l’economia italiana continuasse a crescere e il mercato del lavoro a macinare record, il campo di sua stretta competenza – l’industria – non è andato bene. Ad aprile, secondo l’Istat, la produzione industriale è scesa dell’1 per cento rispetto al mese precedente, dell’1,3 per cento rispetto al trimestre precedente e del 2,9 per cento rispetto all’anno precedente: quindicesimo calo mensile consecutivo. “Una discesa che indica chiaramente come non si tratti di una fluttuazione temporanea, ma di una crisi strutturale che richiede interventi urgenti”, ha scritto sul Foglio Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza, uno dei principali distretti italiani per export. Vanno male, tra i tanti settori, l’automotive e i macchinari. Sicuramente ci sono dei problemi strutturali che riguardano l’industria italiana, ma anche delle responsabilità del ministro. Mentre si occupava alacremente di carrelli, cartelli e tetti ai prezzi, si accumulavano i ritardi su importanti provvedimenti per l’industria come gli incentivi di Transizione 5.0 e per l’auto. Come raccontava il Sole 24 ore ad aprile, il mercato interno per le macchine utensili ha perso il 20 per cento, quinto calo consecutivo: da diversi mesi il settore è in attesa dei decreti attuativi per rendere operative le misure che valgono nel complesso 6,3 miliardi di euro finanziati con il Pnrr. Stessa sorte è toccata al settore dell’auto, paralizzato per mezzo anno dagli incentivi annunciati e attuati con enorme ritardo. Hai voglia a far cambiare il nome italiano alle auto del gruppo Stellantis prodotte all’estero, operazione buona per conquistare i titoli dei giornali per qualche giorno, ma se non si risolvono i problemi strutturali del fare impresa in Italia le auto non le produrranno né Tavares né i cinesi che – secondo il ministro sovranista – stanno sgomitando per venire a investire.
Per non parlare dei problemi dell’Ilva, nazionalizzata ma senza un piano industriale né una prospettiva.
Dirigismo, burocratismo, statalizzazioni. La critica alla politica industriale del ministro Urso è molto articolata, oltre che condivisa da tanti osservatori e operatori. Il soprannome “Adolfo Urss” era solo un modo ironico per sintetizzarne l’impostazione statalista. E l’appellativo, infatti, non sembrava aver leso l’onore e la dignità del ministro Urso che, in un evento pubblico, del 26 agosto 2023 – pochi giorni dopo l’articolo del Foglio di inizio agosto – ebbe a definirla “una cosa simpatica”. Ma su questa vicenda c’è in realtà un non detto, che è meglio rendere esplicito. Il ministro Urso è convinto che dietro questo “nomignolo originale” ci sia un complotto per delegittimarlo. Nell’istanza di mediazione civile, Urso cita due articoli del 3 agosto 2023 – mio sul Foglio e di Annarita Digiorgio sul Riformista – “dal contenuto perfettamente sovrapponibile ed inventivi ove si ricorre all’utilizzo di un nomignolo originale, ma dai connotati fortemente denigratori, quale Adolfo Urss”. E’ “perfettamente sovrapponibile” l’aspetto rilevante per l’ex presidente del Copasir, esperto di servizi segreti e trame estere. In passato esplicitò meglio il suo pensiero: il 26 agosto 2023, durante la kermesse di Affaritaliani, l’intervistatore gli alzò la palla sui critici che lo descrivevano come “un po’ sovietico” usando il nome “Adolfo Urss”: “E’ l’invenzione di due giornalisti (io e Digiorgio sul Riformista, ndr) – rispose Urso – che nello stesso giorno, su due giornali diversi, hanno avuto la stessa intuizione: parafrasare il mio nome da Urso a Urss. Hanno scritto lo stesso articolo, identico, con la stessa trama, gli stessi richiami. Sembrava una velina. Le sembra possibile che due giornali diversi lo stesso giorno si inventino una cosa così fantasiosa e simpatica? Che pensi, chi sia stato?”. Chi c’è dietro? Di chi è la “manina” che vuole delegittimarlo?
La realtà, come spesso accade, è molto più banale. Il nome “Adolfo Urss” appare la prima volta sul mio account X (ex Twitter) il 1° agosto 2023 per commentare una sua dichiarazione in cui si impegnava a “contrastare le grandi multinazionali”, poi in un articolo sul Foglio del 2 agosto 2023, infine il 3 agosto in un altro articolo sul Foglio e in uno del Riformista che usa tale “nomignolo originale” (senza citare la fonte). Non c’è stato nessun coordinamento, nessuna Spectre, nessuna velina e nessun mandante esterno, né indiano né francese.
Le nostre critiche sono tutte fatte in casa (made in Italy) e hanno l’obiettivo di far rimettere la politica industriale del governo sui binari liberali tracciati nel discorso d’insediamento di Giorgia Meloni. Se il ministro rimuove i suoi tratti più marcatamente statalisti saremo i primi a riconoscerlo e a cambiare “nomignolo”. Certo, difficilmente arriveremo a usare Adolfo Thatcher come dice Nicola Porro. Al limite Adolfo ex Urss.