Matteo Renzi e Carlo Calenda - foto via Getty Images

Rappresentanza

Liberali di tutta Italia, ricostruitevi

Oscar Giannino

Il dilemma irrisolto tra vongole e barolo continua a pesare dopo il fiasco elettorale alle europee. Ma bisognerà dare una rappresentanza politica ai potenziali elettori che non si riconoscono in questa destra e in questa sinistra. Una guida

Prigionieri di un aspro dilemma esistenziale. Liberali alle vongole, come diceva Eugenio Scalfari, o liberali al barolo, come dice oggi Giuliano Ferrara? Scalfari, come Indro Montanelli prima di lui, prese in prestito l’anatema ricorrente di Mario Pannunzio contro l’“Italia alle vongole”, quella gravata dalla storica tendenza a far prevalere gli istinti sulle regole, il piacere sul dovere, l’interesse privato su quello pubblico, indifferente a scandali e disservizi ma intenta solo al bene proprio. Una definizione che riprendeva a distanza di un secolo le polemiche di Niccolò Tommaseo e Massimo d’Azeglio contro il carattere degli italiani, e che nello staffile editoriale di Scalfari venne appioppata a quei liberali che, soprattutto all’inizio, si fecero sedurre dalla parabola di Silvio Berlusconi. I liberali al barolo, nel fumigante eloquio di Giuliano Ferrara, sono invece quelli sempre pronti ad alzare il supercilio in nome di Adam Smith, Friedrich von Hayek e Milton Friedman, ma alieni dalla voglia e capacità di sporcarsi le mani con la politica vera e concreta, fatta di ricerca di consensi e alleanze, e buoni in definitiva solo ad alati convegni da circoli del whist. Il dilemma liberale italiano tra vongole e barolo resta irrisolto. E continua a pesare come un macigno più che mai oggi, dopo l’esplosione nell’aprile 2023 della federazione parlamentare Iv-Azione che aveva fatto sperare in un coraggioso sviluppo dell’alleanza elettorale che aveva ottenuto incoraggianti risultati alle politiche del settembre 2022, e all’indomani del fiasco elettorale alle europee di entrambi gli spezzoni separati da 14 mesi di polemiche a coltello.
 

Chi qui scrive non ha nessuna intenzione di infilarsi nel rodeo delle accuse reciproche, delle ruvidezze personali, degli ego e degli es aggressivi e autodistruttivi. L’intento è invece di cercare di fissare in sei capitoletti alcuni punti che vanno affrontati e sciolti, da parte di chiunque voglia – nelle attuali disastrose condizioni – non rinunciare all’idea di dare una rappresentanza politica a quel 10 per cento o anche più potenziale di elettori che, ostinatamente, non si riconoscono in questa destra e in questa sinistra. Sei capitoletti, un piccolo esamerone, come nella patristica greca e latina si denominavano i sei giorni della creazione del mondo. Non bisogna partire dai leader ma dalle idee, dicono molti delusi dalle lotte e dal fiasco. Sì, ma a patto che ci siano leader che in queste idee si riconoscano e ne facciano campagna da dopodomani o quasi, sapendo che sarà difficilissimo risalire dallo sprofondo. Caveat: le questioni che leggerete sono deliberatamente a risposta libera, non postulano una soluzione univoca. Chi scrive si tiene per sé che cosa pensa, è irrilevante. Se però contano prima le idee, allora bisogna avere sincerità e coraggio di porsi domande scomode. Che sono a risposta aperta.

I socialisti con i socialisti

Primo, basta continuare a essere prigionieri dei richiami della propria foresta, quella di origine lontana di ogni filone della diaspora liberale da Berlusconi a oggi. In vista delle prossime elezioni politiche, ormai si sa bene che cosa sono questa destra e questa sinistra che si affrontano.  Una destra a guida Meloni che in un anno non solo si è rafforzata, ma ha ridotto in un angolo pretese e portata del salvinismo scassa-tutto e filoputiniano. Una sinistra in cui il Pd guidato da Schlein è tornato a superare il 24 per cento dei voti alle europee, abilmente sommando la caterva di voti raccolti dai sindaci riformisti a una linea politica della segreteria molto più radicale e antimercato. Senza mai smettere di inseguire a parole i Cinque stelle, li ha compressi a un ruolo elettorale tale da evaporare qualunque pretesa di Conte di essere lui, il leader vero del “campo largo”. La crescita a sinistra di Avs, in linea con la segreteria Pd ma non con l’ala riformista del partito, non imbarazza affatto Schlein ma costituisce al contrario un valido sostegno per alleanze elettorali alle politiche domani. E non a caso all’interno dell’ala riformista del Pd sono iniziate immediatamente a fiorire suggestioni direttamente volte a recuperare in una chiave neo-margheritica un bel po’ di voti andati a Renzi e Calenda.
 

Una specie di formazione finto-liberale di sinistra pronta al campo largo, un po’ come nei paesi del blocco sovietico facevano i vecchi partiti comunisti con i “partiti dei contadini”. Questa intenzione non è surreale, nasce da un fatto concreto. È vero che molti esponenti di Italia viva e Azione hanno un passato diretto nel Pd qualunque ruolo vi abbiano svolto, a livello parlamentare nazionale e nelle amministrazioni territoriali. Ed è verissimo che prima della scelta dell’alleanza dell’ultimora terzopolista alle politiche del 2022, uno degli attori del cosiddetto Terzo polo aveva siglato l’alleanza col Pd. Pendolarismo per altro confermato in innumerevoli elezioni locali succedutesi alle ultime politiche.  Va considerato motivo di scandalo e tradimento, che una parte di coloro che hanno animato l’iniziativa terzopolista, e una parte di chi vi si è riconosciuto e l’ha votata, continuino a pensare che in definitiva un’alternativa non c’è, e che bisogna solo guardare a un’alleanza con questa sinistra? Da giovane, chi scrive si era abbeverato a Torino della storia e dell’epica antifascista del Partito d’Azione, quindi figurarsi se posso considerare uno scandalo che vi siano i liberal-socialisti. Ho sempre creduto che lo scisma del Partito d’Azione che ne decretò la morte, di fronte all’alternativa tra Togliatti e De Gasperi, sia stato un clamoroso errore e un gran peccato per l’Italia.
 

Ma certo non mi scandalizzo: ho un mucchio di amici sinceramente liberalsocialisti, lo erano in realtà quasi tutti i riformisti storici del vecchio Pci-Ds-Pds-Pd,e  ne conosco moltissimi sia tra i renziani sia tra i calendiani. C’è però da fare, di fronte a questa destra e questa sinistra oggi in Italia, una scelta chiara su come chiamarsi, se si pensa a un’alleanza politico-elettorale a sinistra. Bisogna che quest’area la smetta di dirsi liberaldemocratica, e apertamente dia vita a una piattaforma del tutto analoga a quella Place Publique creata in Francia da Raphaël Glucksmann e che è diventata terza forza alle urne dopo la destra di Bardella-Le Pen e i liberali di Macron. Una piattaforma che ha ridato vita all’esangue e quasi scomparso partito socialista francese vittima dei propri errori, e che dopo tanti anni ha ridato una speranza a una sinistra francese non appiattita sul radicalismo veteromarxista e filo putiniano della France Insoumise di Mélenchon. Non è un caso che comunisti, Mélenchon e Verdi-radicali abbiano subito annunciato un “fronte popolare” in vista delle elezioni politiche di fine mese convocate da Macron, e Glucksmann abbia subito risposto che non gli interessa, perché non condivide nulla delle idee di Mélenchon. Quindi se una parte degli ex terzopolisti italiani mira ad allearsi a sinistra, si chiamino socialisti riformisti, socialdemocratici alla Bad Godesberg, come cavolo vogliono e preferiscono ma si diano il ruolo di rappresentare ciò che al panorama politico italiano manca a sinistra, cioè una forza socialista di mercato e  occidentalista. Socialista però, non pseudo-liberale. Per conseguenza, la piantino a ogni elezione ed elezioncina di fare le prediche agli altri, conducendo un balletto eterno tra questa destra e questa sinistra, credendo di impor loro condizioni a prescindere dalla forza propria. È a furia di fare così, che si sono sputtanati tutti. E facendo gli asini di Buridano hanno finito proprio loro per dare un calcione al crogiolo di una terza forza che mai come dopo le ultime politiche sembrava a portata di mano. Il più grande regalo possibile a questa destra e a questa sinistra. Un vero crimine politico. 

Una destra europea?

Veniamo a una seconda questione, sull’altro versante dello schieramento politico. Che molti libdem vivono come un tabù. A confermarlo, le accuse più brutali e dirette espresse in questi mesi, che a parte taglienti riferimenti all’identità psichica delle persone, il più dele volte da parte di Azione si risolvevano in “siete pronti a fare lo sgabello della destra”, “mirate a far maggioranza con Meloni”: e sto usando gentili parafrasi, rispetto a toni e parole originali. Nella realtà, anche Azione a livello locale era disposta ad allearsi con la destra e più volte l’ha fatto, naturalmente sempre in nome della propria autodichiarata superiorità contenutistica nel giudicare il candidato di destra appoggiato.  Ma il monopolio della scomunica “traditori della democrazia” era suo, di Azione, suo e sempre rivolto alla controparte ex terzopolista. Vedendolo ripetere come un mantra, mi è innumerevoli volte venuto in mente che, ad onta del supergarantista Enrico Costa che milita in Azione, il suo partito avrebbe durissimamente scomunicato a fine giugno 1946 l’amnistia proposta dall’allora ministro della Giustizia e leader del Pci Togliatti, e fatta propria dal governo De Gasperi. Si avanza questo esempio storico deliberatamente. Anche chi scrive, con ogni probabilità, sarebbe stato tra i critici di quella amnistia. Necessaria per voltare pagina dopo una guerra civile feroce, che aveva spaccato il Nord occupato dai nazifascisti. Ma che, alla luce della storia repubblicana ex post, fu anche un passaggio che spalancò la porta a un forte continuismo burocratico, amministrativo e giudiziario rispetto al regime fascista. Benedetto dai britannici, che temevano l’insurrezione comunista come in Grecia. Ma che gli Stati Uniti impedirono invece per fortuna e saggiamente in Germania, rispetto al nazismo.
 

Ma l’esempio è voluto appunto per questo: la scomunica per chi non guarda a sinistra e l’accusa di voler far da stampella a questa destra sono radicate nell’idea sbandierata ogni giorno dal Pd e Repubblica: questa destra italiana è fascista, mira al regime senza dirlo, tutte le sue riforme costituzionali sono fasciste, tutta la sua concezione delle politiche migratorie e della famiglia e il negazionismo verso qualunque diritto Lgbtq è di puro stampo fascista. Ora, che Salvini sia stato il primo a candidare anni fa gente di Casa Pound nelle sue liste, e che intorno a Giorgia Meloni, a Roma come nelle amministrazioni locali, vi sia un gran numero di giovani e meno giovani che proprio non ce la fanno a nascondere le proprie tenaci convinzioni nostalgiche del Duce e talvolta anche delle croci uncinate oltre che dei saluti romani, tutto questo è un triste fatto innegabile. Il flop dei campi immigrati in Albania nasceva da una trasposizione all’italiana del brutale tentativo dei Tories a Londra “deportiamoli in Ruanda”. Ma la domanda politica vera è un’altra.
 

È un bene o un male, la melonizzazione di questa destra italiana in corso da un anno e mezzo? E’ un bene o un male, la sua linea sull’Ucraina e Putin rispetto a Salvini? È un bene o un male, che alla fine della fiera il ministro Giorgetti non dia ragione a Salvini che invoca incessantemente sprofluvi di deficit aggiuntivi a fini elettoralistici, e abbia invece abbracciato la linea prudenziale della Meloni, al punto tale da trovarsi crocifisso spesso e volentieri dalla sua stessa maggioranza? La sinistra si ostina a dire che il Pnrr rivisto da Fitto sia peggiore di quello di Conte: ma seriamente si può pensare che fosse meglio avere già ora la certezza che centinaia e centinaia di progetti erano affidati a stazioni appaltanti prive della competenza per bandirli e realizzarli in tempo utile, per non perdere le risorse il 31 dicembre 2025? (succederà in ogni caso, ma almeno in percentuali minori). Forse che la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti configura nomine in massa di magistrati allineati al governo, come è avvenuto in Ungheria e Polonia? Il premierato a elezione diretta per com’è scritto ancor oggi è pieno di errori gravi, sottolineati anche da fior di costituzionalisti di destra, ma finché non è chiaro su quale legge elettorale lo si vorrebbe applicare è possibile giudicarlo come una manomissione autocratica della Costituzione?
 

Andiamo al caso francese, che fa gridar scandalo ai più: Macron è impazzito, a convocare elezioni politiche in tre settimane col rischio concretissimo di consegnare il governo alla destra di Bardella-Le Pen. Davvero è pazzo, oppure Macron si è dato rapidissimamente, prima ancor che glie lo chiedessero le opposizioni trionfanti in piazza, un’alternativa secca? O riesco a impedir loro alle urne la vittoria, chiamando i francesi a uno scatto di reni perché un conto sono le europee altro sono i destini della Francia, e allora entro nella leggenda; oppure comunque è un vantaggio, inchiodare la destra alle responsabilità di governo con me presidente eletto ancora per tre anni, sottrarre ai lepenisti il facile vantaggio dell’opposizione e obbligarli a cambiar linguaggio e metodo, e a finirla col filo putinismo assumendo responsabilità nella Nato, com’è avvenuto di fatto alla Meloni.
 

Tutte queste domande sono fattuali, chi se le pone e le pone agli altri non vota Meloni né questa destra. Ma è impensabile escludere a priori queste domande, e vietarsi per pregiudizio la possibilità e disponibilità a giocare un ruolo che è di interesse nazionale: quello di spingere questa destra a essere più europea e meno populista, più occidentale e non putiniana, più Stato di diritto e non vannacciana. I liberali amano i Van Halen, non i Van Kazzen. Che poi è la battaglia che conduce ogni giorno su queste colonne il Foglio. Non solo oggi. Da sempre.

Occhio alla legge elettorale

Terzo: senza Terzo polo la legge elettorale sarà una tagliola. La disastrosa sconfitta terzopolista alle europee glie la serve sul piatto. Se la federazione tra gruppi fosse rimasta in piedi, e del resto funzionava benissimo, avrebbe condotto in Parlamento una dura battaglia contro l’ovvia legge elettorale finto/bipolarista che Meloni e Schlein vogliono imporre. Mentre al contrario non solo Meloni e Schlein, quasi tutti i media italiani brindano dopo le europee felici al ritorno del bipolarismo Pd-FdI. Non c ‘è verso che lo capiscano, i giornaloni un tempo borghesi: i Panebianco e De Bortoli sono rimasti orfani e i Barbano sono defenestrati. Restano ciechi e sordi, di fronte al fatto innegabile che i tre decenni di bassa crescita italiana, di bassa produttività, di debito altissimo, di bonus a catena sfonda-deficit al posto di riforme strutturali, di welfare depredante il futuro di donne e giovani, di occupazione che per quanto ai record oggi resta lontanissima da quella dei paesi nordeuropei, di aggravamento di tutti i gap del sud (il nostro sud, scrive l’Istat nel suo recente rapporto annuale, è l’unica, ripeto l’unica area regionale di tutta la Ue a non aver realizzato in 25 anni convergenza verso le medie europee di reddito procapite, occupazione e servizi di base), e di costi energetici folli in bolletta, e si potrebbe continuare a lungo… ecco i media restano ciechi e sordi di fronte all’evidenza che su tutto questo abbiano lasciato le loro impronte digitali tutti i governi succedutisi sia di destra sia di sinistra. Tutti, nessuno escluso.
 

Perché dunque brindare a questo finto bipolarismo zoppo, se destra e sinistra si insultano eticamente ma alla fin fine hanno un’analoga, se non proprio uguale, concezione dello stato nell’economia, e della tutela di rendite improduttive in tutti i vasti settori che restano esclusi da un minimo di accettabile concorrenza? Se si guarda agli interessi del paese, e non al tifo per questa o quell’altra parte attuale, la risposta è no. Non bisogna brindare. Serve un sistema elettorale che consenta a forza diverse di affacciarsi alla rappresentanza, per poi mettersi alla prova della crescita dei consensi. Anche per chi degli ex terzopolisti volesse declinare il proprio ruolo a sinistra, serve prima una prova elettorale in cui dimostrare di esistere per influenzarla, la sinistra, non finire in un campo largo elemosinando seggi e costretti poi a tacere, altrimenti scatta la solita accusa di tradimento che il Pd non risparmiò certo a Calenda. E, dall’altra parte, se esiste una componente di liberal-democratici volta invece a esercitare il proprio ruolo verso l’europeizzazione della destra, allora dovrebbe impegnarsi per una legge elettorale che consenta potenzialmente anche a Forza Italia di contarsi altrove e con un’ancora più netta comunanza di movimenti e programmi liberali, fuori dalla morsa delle destre estreme. È una possibilità che con Forza Italia di oggi esiste e che non può che interessarle, mentre non esisteva per definizione finché era il minor partner dell’alleanza di governo e per di più in continuo calo di consensi. Forza Italia è l’unica forza della maggioranza attuale che può farsi forte dell’accresciuto ruolo del Ppe in Europa, sarebbe sciocco dal punto di vista liberale non considerare che prospettive tutto ciò possa aprire per non rassegnarsi ai saluti romani.

Basta complessi di superiorità

C’è un tratto elitista che per i liberaldemocratici non è solo un macigno dal punto di vista dei consensi elettorali potenziali. È purtroppo un vero problema cognitivo. Proprio il mondo che non fa che ripetere di avere i migliori programmi e le persone più competenti, conferma invece la totale incomprensione dei meccanismi della comunicazione e del consenso di massa. In questo, Giuliano Ferrara ha sempre avuto ragione da vendere. E infatti, quando sia pur per poco ha dato una mano a Berlusconi a Palazzo Chigi, lo accusavano di essere l’ibrido tra un provocatore surrealista e una improbabile guardia di ferro, lui che tra tutti è Falstaff e non certo un arcigno sir Thomas More. Invece no, Giuliano ha sempre avuto ragione. Potete davvero credere a ondate immense di simpatia e consenso elettorale per chi ha un PhD ma non sa comunicare, ma allora siete degli sprovveduti. Anzi, soffrite di una particolare patologia tardo nietzschiana, quella del superomismo incardinato non più su improbabili “uomini della provvidenza” infallibilmente autocrati, ma su grandi accademici, banchieri o manager. Una gran confusione tra i tecnici al potere che sognava Rathenau, prima di essere ucciso nella Repubblica di Weimar da terroristi nazionalisti di destra, il “governo dei tecnici” di Bruno Visentini, idea nata per porre un argine alle depredazioni che gli uomini delle correnti del pentapartito attuavano nelle Partecipazioni statali, e la Repubblica dei filosofi di Platone, perché solo i filosofi sanno coltivare la parte razionale dell’animo umano e perseguire il bene comune. Nel mondo degli interessi frammentati e della comunicazione just in time, del record italiano delle povertà e insieme della spesa assistenziale rivolta in maggioranza a chi non he davvero bisogno, del mondo del lavoro che cambia impetuosamente ma non trova profili formati da assumere e spinge i giovani meglio formati ad andare all’estero, i poveri liberaldemocratici coi loro concettosi webinar fanno la parte del fantasma in Amleto.
 

Di qui un classico della lettura delle proprie sconfitte. Anche questa volta alle europee, non sono mancate dichiarazioni tipo “pensavamo che fosse premiata la qualità dei nostri candidati e delle nostre proposte che sono le uniche serie, ma gli elettori hanno ragionato diversamente”. Frasi così possono avere cittadinanza solo in un altro universo, di fiction pura, non nella realtà attuale. Che poi non è nemmeno quella di oggi, è la realtà che tutte le democrazie occidentali a cominciare dagli Usa vivono impetuosamente da anni e anni, e che ha terremotato tutte le tradizionali grandi e storiche famiglie politiche europee, quella dei popolari, dei socialisti e dei liberali. In ogni paese europeo, grandi e piccoli senza distinzioni se non quelle delle diverse forme politiche assunte dalle forze populiste di destra e sinistra, nazionaliste e sovraniste, anti immigrati e anti mercato.
 

Bisogna proprio che i liberaldemocratici intraprendano una rivoluzione mentale. Gli elettori sono quelli che sono, e che sono diventati per mille e uno motivi studiati approfonditamente dalle ricerche sociali e dall’evoluzione dell’industria della comunicazione. Sono quelli che sono e bisogna imparare a conoscerli, non sono una massa di fessi da prendere a calci se hai perso: se no il vero unico fesso sei tu. Temo proprio che questa sia una delle ragioni più importanti della scomparsa di una almeno dignitosa rappresentanza liberaldemocratica nella politica italiana. Tutti hanno storto la bocca di fronte al mezzo milione di preferenze di Vannacci. Ma a confronto del ciarpame rozzo e becero dei suoi libri, è un genio il giovane youtuber cipriota Fidias Panayiotou, che senza aver mai votato in precedenza né avere alcun partito ha ottenuto il 20 per cento dei voti e l’elezione europea senza aver usato altro che i social. Lo youtuber cipriota è esploso nei consensi senza credere di essere Dio, ma perché conosce le masse, al contrario dei saccenti manager. I monologhi dei politici sui social non servono a niente, ci vuole un piccolo battaglione di creativi al di sotto dei 25 anni. Tanto per cominciare. Chiedere ad Alessandro Tommasi fondatore di Nos, che era candidato alle europee con Azione e non è andato affatto male. È un buon esempio di come fare.

Il trend europeo

Quinto: la famiglia liberaldemocratica europea nei diversi livelli nazionali partecipa molto più a governi moderati che socialisti. Certo, ci sono casi n cui la convergenza si allarga. Come nella Polonia di Tusk, che anche alle europee ha fatto un passo avanti con la sua coalizione contro il PiS, il quale invece ha preso un’altra mazzata elettorale dopo quella delle politiche. Lo stesso avverrà con ogni probabilità in Ungheria, dove Orbán inizia grazie al cielo a mostrare la corda anche se, al momento, avviene più per la rivolta di uno suo ex ministro. In Olanda, Wilders ha vinto le politiche, ci ha messo mesi e mesi di trattative per convincere altri partiti a formare un governo dove il suo peso sarà comunque molto limitato, ma ha perso le europee, e anche in quel caso contro di lui ci sono forze politiche di colore diverso. In Spagna i liberali, i Ciudadanos di Rivera, si sono letteralmente suicidati sulla vicenda catalana, e sono praticamente scomparsi restituendo i loro voti ai Popolari. Ma in Germania e Francia i liberali della Fdp e i macroniani non sono alleati né alla sinistra né alle destre.
 

Il recente congresso del Ppe ha sicuramente contenuto la svolta decisa verso il gruppo Ecr della Meloni e corretto l’impressione opposta che si era diffusa per mesi, ma ora i Popolari gongolano come vero asse rafforzatosi alle urne della maggioranza Ursula, rispetto ai socialisti e alla sberla incassata da Renew, comunque non tale da travolgere una solida maggioranza al Parlamento europeo come molti vaticinavano, (anche se poi il presidente della Commissione dovrà superare il voto a scrutinio segreto). Ma sempre il Congresso Ppe ha comunque segnato la fine della transizione green a-la-Timmermans, ed è cosa buona e giusta. Perché le intere manifatture europee, tedesca, Italiana e francese, sono da mesi insorte all’unisono contro traguardi così impegnativi senza risorse europee che li sostengano, col rischio di finire sempre più spiazzati nella grande guerra della competitività lanciata a livello globale da Cina e Usa a suon di trilioni di dollari di incentivi per la supremazia in tecnologie avanzate e AI, autonomia dei semiconduttori, terre rare e tutte le commodities necessarie alla manifattura avanzata. Sì al nucleare di nuova generazione al più presto, no allo stop del motore endotermico al 2035: sono i Popolari europei, il primo grande interlocutore dei liberaldemocratici europei di ogni provenienza nazionale. E se anche la destra la pensa così allora sia benvenuta. Perché si tratta di essere ragionevoli, il fascismo non c’entra un cappero.

Chi può farlo?

L’errore che puntualmente si sta commettendo è quello di partire dai nomi. Ma è inutile stupirsi e fare i difficili. In politica, è ovvio che sia così. Mi guardo bene dal far nomi io, che conto zero. Diciamo allora che per mettere mano a un processo di casa comune, e non più figlio di accordi tra partiti che restano in piedi coi propri leader, serve un comitatino di personalità oggi presenti in Parlamento di area liberaldemocratica, per fissare un primo appuntamento pubblico in cui parlarne e redigere una prima proposta.
 

Non è affetto detto che debbano solo essere parlamentari di Azione e Italia Viva: ma in realtà fuori dalla fedeltà assoluta agli attuali leader sconfitti ci sono, eccome, esponenti di rilievo in entrambe le forze politiche. Più qualche personalità di riferimento del mondo liberaldemocratico, ma che sia davvero nota e ovviamente senza macchia. Inviti a porte aperte per tutti, ma con proposta finale di un primo corredo di regole, documento orientativo e proposta di primo congresso costitutivo, anche in quel caso non costruito per delegazioni di partiti e  movimenti ma su base libera individuale, e primarie per la leadership. Poi, immediato inizio di iniziative sul territorio e iscrizioni. Volendo, non è affatto difficile. Non raccontiamoci cazzate, tipo non c’è tempo e non c’è modo. Chi lo dice e lo pensa fa solo l’ennesimo favore a Meloni e Schlein. Grazie, no.