Giorgia Meloni - foto Ansa

L'editoriale del direttore

Ragionare sulle riforme Meloni senza il chatgpt della deriva autoritaria

Claudio Cerasa

Giustizia, autonomia, premierato. Il riformismo meloniano è imperfetto ma è tutto l’opposto di una deriva autoritaria. Ecco alcuni buoni motivi per cui bisognerebbe rileggersi Piero Calamandrei

Nell’ultimo mese, il governo guidato da Giorgia Meloni è entrato in una fase nuova rispetto a ciò che si è visto nel primo anno e mezzo di vita dell’esecutivo. In questa nuova fase, la maggioranza di centrodestra ha scelto di mettere in campo il suo profilo per così dire “riformista” e lo ha fatto attraverso tre riforme importanti che meriterebbero di essere analizzate con un approccio diverso rispetto a quello messo in campo da buona parte delle opposizioni, convinte che il riformismo della destra di governo sia, a seconda dell’umore della giornata, un tributo al fascismo, un colpo alla Costituzione, un tentativo di trascinare il paese verso una deriva autoritaria. Le tre riforme di cui stiamo parlando sono il premierato, l’autonomia differenziata, la riforma della giustizia, comprensiva di separazione delle carriere e nuove regole per il Csm, e per sgomberare il campo dal primo punto, dalla prima domanda, dall’accusa di essere tutte riforme inclini a far rivivere, sotto nuove spoglie, la cultura fascista nel nostro paese potremmo dire che, al contrario, sono riforme che, per motivi diversi, dovrebbero stare particolarmente a cuore a tutti coloro che sognano di tutelare il buon funzionamento del nostro sistema democratico.

 

 

La separazione delle carriere, riforma che tra l’altro il centrosinistra ha proposto in diverse campagne elettorali, punta, in primo luogo, a rafforzare il principio della terzietà del giudice, e avere un sistema giudiziario non schiacciato sull’accusa, non appiattito cioè sull’idea che l’Italia sia una repubblica giudiziaria fondata sulle procure, dovrebbe incrociare la sensibilità di tutti coloro che sognano di riequilibrare il rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo. La riforma dell’autonomia differenziata è un caso più complicato ma non meno interessante.
 

Innanzitutto la riforma dell’autonomia differenziata non introduce l’autonomia differenziata – principio già garantito dall’articolo 116 della Costituzione e che già oggi consente a qualunque regione di chiedere maggiore autonomia al governo, come fatto e ottenuto nel 2018 dalla regione Emilia-Romagna guidata all’epoca dall’attuale presidente del Pd Stefano Bonaccini e dall’attuale segretario del Pd Elly Schlein all’epoca vice di Bonaccini – ma introduce una legge cornice attraverso la quale fare ciò che già oggi è possibile. La “legge cornice” si occuperà di fare quello che il centrosinistra ha sempre chiesto di fare per attuare l’articolo 116 della Costituzione ovverosia prevedere di creare entro due anni i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che devono essere garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, come aveva già chiesto il braccio destro di Elly Schelin, Francesco Boccia, nel 2019, da ministro per gli Affari regionali del governo Conte II. Essere contrari all’autonomia differenziata – nata anche per riequilibrare i poteri dello stato centrale, nata dunque per riequilibrare gli accentramenti di potere di un governo – non è uno scandalo ma se si sceglie di considerare la legge quadro come l’epifenomeno dell’autonomia si sbaglia bersaglio: il tema è un articolo della Costituzione che già esiste non una legge che introduce un passaggio in più per attuare ciò che la Costituzione già consente. Quindi, onestamente, di che cosa stiamo parlando?
 

Il terzo punto, il premierato, è forse quello più interessante. Piero Calamandrei, in un celebre intervento pronunciato in sede di Assemblea costituente il 5 settembre 1946, offrì una riflessione che può tornare utile anche oggi: “La democrazia, per funzionare, deve avere un governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato. In Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato a una maggioranza solida che gli permettesse di governare”. Non si può negare che la riforma del premierato (premier eletto direttamente dai cittadini, premier che ha il potere di chiedere al capo dello stato lo scioglimento delle Camere senza che il capo dello stato possa opporsi alle richieste del premier) non abbia un impatto sui poteri del Parlamento (che avrebbe ovviamente meno margini di oggi per scegliere il capo del governo) e anche su alcune prerogative del capo dello stato (che avrebbe molti meno margini di oggi per intervenire nei processi di formazione di un esecutivo). Ma anche qui la critica che il premierato sia una riforma pericolosa per l’Italia perché mette troppi poteri nelle mani del capo del governo è una critica che stona con la realtà dei fatti almeno per due ragioni.
 

Le democrazie, come ricordava in un certo modo Calamandrei, si proteggono anche cercando nuovi modi per renderle più efficienti e più competitive ed è difficile sostenere l’idea che l’unico modo per avere democrazie sane, competitive, all’altezza delle sfide dei nostri tempi, sia avere democrazie in grado di proteggere tutto ciò che le rende instabili. E allo stesso tempo non si può neppure dire che sia un oltraggio al buon funzionamento del sistema democratico avere un premier che, come succede in Spagna, in Svezia e nel Regno Unito, in caso di fallimento possa rivolgersi nuovamente e rapidamente all’elettorato per garantire la governabilità del proprio paese. La riforma può non piacere e ha ragione chi sostiene che sia un assurdo totale il fatto che il secondo premier che potrebbe arrivare dopo quello eletto direttamente dal popolo abbia maggiori poteri del primo (dopo il primo premier, ce ne può essere un altro, dopo il secondo premier, secondo la legge sul premierato, un altro non ci può essere). Ma anche rispetto a questa legge la domanda a cui bisognerebbe rispondere è questa: una legge non perfetta che va nella giusta direzione è una legge da sostenere o è una legge da boicottare? “Quando qualcuno scioglie il Parlamento – scrisse Cesare Salvi, allora capogruppo dei Ds al Senato, il 28 maggio del 1997 durante la seduta della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema e che aveva al centro anche una bozza di premierato – non è che poi assume i pieni poteri e rinchiude i parlamentari in uno stadio di calcio: la parola viene data al popolo sovrano, e potrebbe verificarsi che, se la scelta non è ben calibrata, quello stesso popolo sovrano si formi anche un’idea ed esprima un giudizio sulla scelta stessa dello scioglimento e voti di conseguenza”.
 

Il riformismo modello Meloni è molto pasticciato, in alcuni casi è timido, in altri casi è confusionario, in altri casi rischia di essere velleitario, come è per esempio il caso della riforma della giustizia che è anch’essa, come le altre due riforme, una riforma costituzionale e che difficilmente riuscirà a essere approvata in tempo in questa legislatura. Ma dire che il riformismo modello Meloni sia un riformismo che ci proietta nella stagione del fascismo significa semplicemente non voler affrontare la complessità della realtà, significa volerla buttare in vacca e significa non voler far fare passi avanti alla democrazia italiana solo per evitare che il governo possa ottenere un successo politico. Le dittature, disse sempre Calamandrei nel 1946, “sorgono non dai governi che governano e che durano ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici”. Vale la pena di ricordarselo, prima di chiedere a ChatFascismGpt il prossimo editoriale contro le nuove derive autoritarie.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.