L'analisi
Piccola riflessione di filosofia economica attorno alla riforma dell'autonomia
L'autonomia approvata dal Parlamento non è il migliore dei federalismi possibili, ma viene incontro a problemi che l’Italia ha non dal 2001 ma dal 1861: finora abbiamo utilizzato la solidarietà come concetto per coprire le divergenze, ora diamo una chance all'egoismo
C’è sogno e sogno. Dietro quello “di Miglio e di Bossi”, scrive il direttore del manifesto Andrea Fabozzi in un articolo a tratti pure condivisibile, non c’erano “idee”: ma solo “egoismi e calcoli di bottega”. Le riforme sono una pietanza difficile da cucinare e, perché riescano minimamente sapide, qualche idea ci vorrebbe. Ma è dura sostenere che in politica gli interessi non abbiano nulla a che vedere con le idee. Gli uni orbitano attorno alle altre (o il contrario, per i materialisti ortodossi) e l’orizzonte si illumina o si spegne a seconda del loro allineamento. Non c’è nulla di più impolitico che pensare che l’interesse sia sempre cattivo.
Cattivissimo è poi l’autointeresse. Il quale si fa spesso tradurre con “egoismo”. Di solito, individuale. In questo caso collettivo. Perché se l’autonomia è la “secessione dei ricchi”, questi ultimi non sono proprietari di Ferrari o collezionisti di case di villeggiatura, quanto semplicemente chi vive in Lombardia, Veneto, Piemonte, Casalinghe, rider e operai inclusi. Costoro hanno abboccato alla promessa di servizi migliori, sempre pagati con le medesime imposte, perché a gestirli è un ente loro più prossimo. Una qualche articolazione della Regione anziché dello Stato. Che secessione, e che ricchi. L’autonomia per cui hanno votato veneti e lombardi nel 2017 non tocca la dimensione del prelievo ma quella dell’erogazione della spesa pubblica. La Sanità è delegata alle Regioni fin dalla Costituzione del ’48 e se si guarda ai risultati in termini, ad esempio, di speranza media di vita, i risultati non sembrano poi pessimi. Almeno non tanto quanto quelli di scuola e giustizia, rigidamente centralizzate. Giunte e Consigli regionali sono un po’ meno lontani di Parlamento e governo, è più facile costringerli a fare i conti con lamentele e speranze dei governati. L’egoismo, in politica, dev’essere la pretesa di avere qualcuno che ti dia retta.
L'autonomia non è il migliore dei federalismi possibili. Il governo Meloni attua una possibilità nata con la riforma del Titolo V, nella legislatura del centrosinistra (1996-2001). Sarà difficile comparare l’efficienza di Regioni che chiamano a sé competenze diverse. Senza il federalismo fiscale, i famosi LEP potrebbero causare più problemi che altro. Tutto vero.
Ma la riforma viene incontro a problemi che l’Italia ha non dal 2001 ma dal 1861. La “solidarietà” è il comodo travestimento di un potere fortemente accentrato. La promessa di servizi uniformi, a diverse latitudini, è per tanti motivi storicamente fallita. E se il Veneto, con l’autonomia, impara a organizzarsi un po’ meglio, non si capisce quale sia il danno per il Molise. L’egoismo di chi prova a far meglio per sé offre almeno un esempio da imitare e perfezionare agli altri. L’idea di uno Stato monolitico ed efficiente dalle Alpi alle Piramidi può affascinare alcuni. Però a un certo punto le idee debbono confrontarsi con i fatti. A oltre 150 anni dall’unificazione, il pil pro capite al Sud resta la metà che al Nord. Se la solidarietà ci ha condotto sin qui, val la pena di dare un chance all’egoismo.