Litigi e dossier. Perché le regioni sperano che Fitto parta per Bruxelles
Tensioni sul futuro del Pnrr. Il ministro è candidato in pole position per il ruolo di commissario europeo. Lascia un'eredità complessa, tra successi e conflitti con le gli enti locali, ma il nodo delle riforme resta cruciale per l'Italia
“C’è ancora tanto da lavorare sul Pnrr”, si è schernito ieri Raffaele Fitto con chi gli chiedeva se sono pronte le valigie per Bruxelles. Il ministro, che ha deleghe del peso di mezzo governo (Ue, Pnrr, coesione e Sud), è il candidato in pole position per il ruolo di commissario europeo e in queste ore Giorgia Meloni sembra rilanciare l’ipotesi parlando di commissario politico e di fine della stagione dei tecnici. Se non c’è dubbio che sul Pnrr c’è effettivamente ancora molto da fare, è anche vero che la discussione al Senato sul decreto legge di riforma dei fondi coesione, conclusa in commissione Bilancio giovedì e al via in settimana in Aula, porterà a compimento con successo il clamoroso “ciclo legislativo” aperto da Fitto con il decreto Mezzogiorno nel maggio 2023 (accentramento dei poteri al governo a scapito delle Regioni); continuato con il decreto legge Pnrr (coordinamento con la revisione del piano europeo e tagli per 10-15 miliardi alle risorse nazionali del Fondo sviluppo coesione e del Piano nazionale complementare per compensare i comuni usciti dal Pnrr); completato infine con il decreto legge Coesione (coordinamento dei vari programmi di investimento ma anche ulteriore accentramento della pianificazione nelle mani del governo).
Una fase, quella delle riforme, che si può dire conclusa. Adesso occorre metterle in pratica usando quel “taglia e cuci” che riguarda 150 miliardi di euro di opere e che tutti pensavano il ministro avesse disegnato per sé. Un potere enorme che in effetti Fitto ha sempre accentrato sui suoi uffici, e solo in qualche caso, come per i tagli da decidere ai 30,6 miliardi di infrastrutture del Piano nazionale complementare al Pnrr, ha condiviso in condominio con il Mef e il ministro Giorgetti. Un accentramento di poteri in fase di programmazione che nella storia della Repubblica non ha precedenti e che ha irritato non poco anche i ministri più impegnati nella politica degli investimenti (Salvini, per esempio, ha talmente battuto i pugni che ha ottenuto la costituzione di un nucleo di programmazione al ministero delle Infrastrutture e l’assunzione di 100 persone, 70 tecnici e 30 avvocati).
Sul piano politico, l’azione di Fitto ha portato al conflitto prima con i sindaci, poi con i governatori che a più riprese hanno provato a sbarrargli la strada, senza mai riuscire. Anche il decreto legge Coesione si avvia a conclusione con un risultato positivo, senza incidenti all’orizzonte per il ministro, che ha respinto molti emendamenti proposti dalla Conferenza delle Regioni per fargli crollare il castello. Il terreno di scontro principale è stato il fondo perequativo infrastrutturale da cui il governo ha sottratto 3,9 miliardi su 4,6 con la scorsa legge di bilancio. Fitto ha ottenuto il risultato di spaccare il fronte delle regioni, con la Campania di Vincenzo Di Luca che ha rifiutato qualunque mediazione sugli emendamenti, pretendendo il ripristino del fondo e annunciando ricorso alla Corte costituzionale, e le altre regioni che hanno presentato emendamenti soft, alcuni respinti, altri accolti, ma senza l’ambizione di cambiare il corso delle cose. Anche l’altra modifica rilevante – quella che introduce all’articolo 1 un paletto alle modalità di attuazione del decreto legge ricordando che su tutta la materia dominano i regolamenti Ue sulla politica di coesione caratterizzata da un rapporto diretto fra regioni e Commissione Ue – è più questione di principio che di sostanza.
Fitto esce al momento giusto dallo scontro con le regioni, quando può cantare vittoria, anche se non è detto che il grande rimescolamento di opere e investimenti che ha avviato vada in porto e risulti alla fine un bene per un paese cronicamente incapace di accelerare i tempi e rendere stabile ed efficace la pianificazione. Molti si chiedono come faranno gli uffici del ministro a gestire, con forbici, ago e filo, una partita tanto complessa e piena di insidie. Se il ministro prenderà la via di Bruxelles, verrà meno a Roma il collante che ha tenuto insieme operazioni tanto ardite. Trovarne un altro che faccia lo stesso e porti al traguardo la maxi operazione non sarà facile. I presidenti di regione tireranno un sospiro di sollievo nella convinzione che un altro Fitto non ci sarà e quella massa enorme di poteri si torneranno a dividere fra un centro un po’ più piccolo e periferie frammentate. L’ipotesi di ritrovarselo a Bruxelles commissario alla Coesione sarebbe un incubo. A lui magari piacerebbe, per finire la partita, ma per l’Italia sarebbe un affronto, così relegata a ruoli di terzo piano. Meglio mettersi al servizio del paese e voltare pagina.