Soccorso nel sud della Francia ai migranti che cercano di attraversare la Manica (AP Photo/Bernat Armangue) 

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Ecco 22 miti da sfatare sui migranti, rifugiati e cambiamenti climatici

Alberto Mingardi

Le ondate migratorie aumentano sempre di più? No. Ma anche l’influenza del clima è sopravvalutata, nonché basata su un mito, come spiega il sociologo Hein de Haas. Una breve guida contro le semplificazioni eccessive

L’espressione “migranti climatici” è ormai entrata nell’uso comune. Sembra alludere a uno scenario tanto triste quanto ragionevole: se gli eventi estremi si inaspriscono, più persone saranno costrette a lasciare territori vieppiù inospitali. Già nel 1995, del resto, l’esperto di biodiversità Norman Myers metteva in guardia dall’imminente “esodo ambientale”.
 

Sotto il profilo della comunicazione politica, la formula è efficace. L’ultimo manifesto di Salvini prometteva: in Europa per difendere la tua casa e la tua auto. Semplificando: a destra non piacciono i migranti. Invece la preoccupazione per il cambiamento climatico è modesta e soprattutto viene associata a mezzi che, indipendentemente dal fine, sono “di sinistra”: più vincoli all’attività d’impresa e restrizioni ai comportamenti individuali. Sottolineare come fra le cause dei crescenti flussi migratori occupino un posto di rilievo eventi ritenuti conseguenza diretta dell’evoluzione del clima, dovrebbe dare una sveglia alla destra e spingerla un altro poco più a sinistra.
 

Hein de Haas ha scritto “How Migration Really Works”. Sulla desertificazione ammonisce a non pensare a una “battaglia degli elementi”

  

Per Hein de Haas, “il cambiamento climatico è una delle questioni più pressanti che l’umanità debba affrontare, e la mancanza di volontà da parte dei governi della comunità internazionale di farci i conti sul serio è un’ottima ragione per perplessità e proteste. Tuttavia, giustapporre questo problema allo spettro delle migrazioni di massa è una pratica dannosa e ingannevole basata su un mito anziché sulla realtà”. Olandese, Hein de Haas insegna sociologia e migrazione e sviluppo all’università di Maastricht. Fra il 2006 e il 2015 era professore a Oxford, dove ha diretto l’International Migration Institute. Con How Migration Really Works (New York, Basic Books, 2023, pp. 464) ha voluto scrivere “una guida basata sui fatti alla più divisiva delle questioni” della politica contemporanea.
 

Per quanto riguarda le migrazioni “ambientali”, l’idea, intuitivamente persuasiva, che l’innalzamento dei livelli del mare sottragga spazio alla terra e quindi ad ambienti abitabili è falsa. Erosione e sedimentazione in qualche modo si bilanciano, anche se non è chiaro in che misura. “L’innalzamento del suolo a causa della sedimentazione spiega perché gli studi sulle immagini satellitari hanno dimostrato che negli ultimi decenni la maggior parte dei delta, delle mangrovie e delle altre paludi costiere del mondo in realtà sono cresciute”. “Se alcune isole scompaiono, altre vengono create. L’analisi delle immagini satellitari in Bangladesh – che si trova per lo più in quello che è il più grande delta del mondo (il delta del Gange-Brahmaputra) – ha rivelato che, nel periodo tra il 1985 e il 2015, il tasso di crescita della superficie terrestre (attraverso la sedimentazione nelle aree costiere) ha superato di poco il tasso di erosione. Quindi, nonostante l’innalzamento del livello del mare, il Bangladesh ha guadagnato terreno anziché perderlo”. Se è vero che a livello locale l’erosione delle coste può spingere alcune persone a spostarsi, “questo non ha nulla a che fare con le immagini di imponenti spostamenti climatici, ma con la mobilità a breve distanza”.
 
I flussi migratori aumenteranno a causa della desertificazione? Hein de Haas ammonisce a non pensare che quest’ultima sia una sorta di battaglia degli elementi, per cui le dune guadagnano spazio a spese delle coltivazioni. Si tratta in realtà di “un fenomeno locale di degradazione del territorio, causato in gran parte dall’intervento umano, come il taglio di alberi e arbusti o le pratiche di gestione del territorio e dell’acqua che portano all’erosione o alla scarsità d’acqua”. Le sue ricerche hanno dimostrato che “la crisi dell’agricoltura tradizionale delle oasi è quasi esclusivamente il risultato di cambiamenti sociali, economici e politici, in parte dovuti alla migrazione” – per esempio a causa dello spostamento dei figli dei contadini verso le città.
 

E gli eventi ambientali estremi? Spesso tutto hanno fatto fuorché spingere le persone a lasciare il paese nel quale vivevano. Prendiamo, suggerisce Hein de Haas, il caso dell’uragano Katrina che sommerse New Orleans nel 2005, privando dell’abitazione un milione di persone e uccidendone un migliaio. Particolarmente colpiti furono gli afroamericani, che “sovente vivevano nei quartieri più vicini al livello del mare e più soggetti agli allagamenti” e che magari non potevano disporre neanche di un’automobile per rifugiarsi da qualche parente o amico. Una catastrofe che colpisce una popolazione povera le toglie la casa, la costringe a ingegnarsi per cercare rifugio, ma difficilmente la porta ad affrontare, in un momento in cui è già così fortemente provata, l’incubo di un viaggio verso un altro paese. Gli studi sembrano confermarlo: “È stato osservato, ad esempio, che una siccità nelle zone rurali del Mali ha fatto aumentare la migrazione temporanea a breve distanza verso le città vicine al fine di integrare il reddito famigliare, ma non ha aumentato la migrazione a lunga distanza e quella internazionale. Analogamente, si è visto che in Malawi la siccità e le inondazioni riducono l’emigrazione dalle aree rurali alle città. Allo stesso modo, la siccità in Burkina Faso ha ridotto l’emigrazione verso la Costa d’Avorio”.
  

Non c’è mai un solo fattore. La destra ignora i costi del lasciare il proprio paese, la sinistra pensa che arrivino solo i più derelitti

  

Il libro di Hein de Haas nasce da anni passati a discutere di immigrazione in convegni e dibattiti televisivi, ma anche dall’intuizione che sia necessario non solo correggere semplificazioni e fraintendimenti sulla base di elementi di fatto, quanto promuovere una nuova comprensione delle migrazioni. Quest’ultima non ha nulla della retorica dei pannicelli caldi: bisogna capire, secondo lo studioso olandese, che le migrazioni rientrano nella logica della crescita economica. La quale è, se si adotta una prospettiva panoramica, inscindibile dallo spostamento di persone dalle campagne alle città. Per questo bisogna intendersi su come il fenomeno “funziona”, come recita il titolo del libro. All’interno di questa cornice, che lega migrazione e sviluppo, vi sono poi tutte le sfumature dei casi particolari. De Haas insiste che non si deve immaginare l’immigrazione come qualche cosa che viene spinto o tirato, acceso o spento, da un singolo fattore chiaramente identificabile. Siccome di migranti si ragiona di solito a suon di statistiche, tendiamo a dimenticarci che i migranti sono persone e in quanto tali compiono le loro scelte sulla base di tutta una serie di valutazioni non necessariamente ispirate da una sola motivazione. Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua sociologia. Per semplificare, di nuovo, brutalmente, i commentatori “di destra” tendono a ignorare i rilevantissimi costi (economici e psicologici) del lasciare il proprio paese. Oppure ad avere una strana opinione del migrante per cui questi sarebbe, nel migliore dei casi, totalmente disinformato sulle trappole disseminate lungo il viaggio della speranza e si affiderebbe agli scafisti senza neanche immaginare d’esser finito, se gli va bene, nelle mani di Mangiafuoco. È più probabile che queste persone sappiano che molti viaggi non sono finiti bene e che si mettano in cammino comunque, convinti che ne valga la pena (e magari, come fanno tutti gli esseri umani a cominciare da chi gioca al gratta e vinci, sovrastimando la propria fortuna). I commentatori “di sinistra” immaginano invece che a raggiungere le nostre coste siano solo i più derelitti fra i derelitti, spossessati da tre secoli di imperialismo europeo di ciò che sarebbe stato loro di diritto.
 
Ma molto spesso per potere persino contemplare la prospettiva del viaggio è necessario avere risorse, economiche e di forza personale, che purtroppo non sono disponibili ai più dannati degli abitanti della terra. Per queste ragioni, mentre “aiutarli a casa loro”, cioè incrementare scambi e presenza delle imprese italiane nei paesi in via di sviluppo, può essere vantaggioso per noi, che amplieremmo l’offerta di prodotti di cui beneficerebbero gli italiani, non è detto che serva a contenere i flussi. Come ha ricordato in un recente discorso pubblico il direttore generale della Banca d’Italia Federico Signorini, “al giorno d’oggi i migranti sono spesso selezionati positivamente per reddito e istruzione, caratteristiche socio-demografiche, propensione al rischio e all’adattamento”. Parimenti, “sembra inoltre che i maggiori paesi di provenienza siano quelli a medio reddito e non i più poveri”. Spiega de Haas che l’emigrazione “aumenta quando i paesi poveri diventano più ricchi e diminuisce soltanto quando lo status di questi paesi passa da paesi a medio reddito a paesi ad alto reddito”.
 

Sono ventidue i “miti” sull’immigrazione che How Migration Really Works si propone di smentire. Alcuni sono miti “di destra” (le nostre società stanno perdendo la loro identità, l’integrazione non funziona, etc), altri sono miti “di sinistra” (l’immigrazione è figlia della povertà, i confini si stanno richiudendo, etc). Il più importante è forse il primo, il mito-cornice nel quale s’inseriscono tutte le ansie e i catastrofismi. Anche coloro che sono meno avversi, o meno preoccupati, per l’immigrazione, restano convinti che non ci siano mai stati tanti immigrati quanto oggi. La parola “immigrati” qui è utilizzata nel senso corrente: persone che si stabiliscono in un paese diverso da quello in cui sono nate, per almeno sei mesi/un anno. La cosa, di nuovo, “suona bene”, sembra ragionevole. “A causa della globalizzazione, viaggiare è più facile di quanto non sia mai stato e lo stesso vale per l’essere connessi su lunga distanza. Dagli anni Novanta, la televisione via satellite, Internet e i telefoni cellulari hanno causato una rivoluzione nella connettività globale. Persino nei più piccoli villaggi in paesi come il Guatemala, l’Etiopia e l’Afghanistan, la gente ora può connettersi col resto del mondo. Ciò ha allargato gli orizzonti dei giovani in tutto il mondo. L’esposizione alle immagini di ricchezza e lusso in occidente sembra aver alimentato una febbre della migrazione fra i giovani che hanno il desiderio di assaggiare la vita nelle terre dove scorrono il latte e il miele”.
 

“I livelli correnti di migrazione internazionale non sono né eccezionalmente alti né in crescita”. Vale anche per i rifugiati


Peccato che “i livelli correnti di migrazione internazionale non sono né eccezionalmente alti né in crescita”. È semmai sorprendente che il numero dei migranti internazionali sia rimasto sostanzialmente costante negli anni, considerato in proporzione alla popolazione mondiale. “Secondo i dati della United Nations Population Division, nel 1960 c’erano circa 93 milioni di migranti internazionali nel mondo. Questo numero crebbe a 170 milioni nel 2000 ed è aumentato poi fino agli stimati 247 milioni del 2017. Di primo acchito, questo sembra un aumento sbalorditivo. Tuttavia, la popolazione mondiale è cresciuta grossomodo allo stesso ritmo, da 3 miliardi nel 1960 a 6,1 miliardi nel 2000 e a 7,6 miliardi nel 2017. Dunque, se esprimiamo il numero di migranti internazionali come quota della popolazione mondiale, vediamo che i livelli relativi di migrazione sono rimasti stabili intorno al 3 per cento”. Vale la pena sottolineare che, per quanti problemi possano esserci oggi con il registrare gli immigrati irregolari, quanto più andiamo indietro nel tempo e tanto più è probabile che le stime siano per difetto.
 

Neppure è cresciuto, come sentiamo dire spesso, il numero dei rifugiati. “Fra il 1985 e il 2021, la dimensione stimata della popolazione totale dei rifugiati internazionali era fra i 9 e i 21 milioni, che significa fra il 7 e il 12 per cento del numero complessivo dei migranti internazionali nel mondo”.
 

È evidente che i rifugiati internazionali possono aumentare repentinamente in condizioni particolari. Nello specifico, sono i conflitti degli ultimi anni, a cominciare dalle guerre civili in Libia, Yemen e Siria, che spiegano perché il numero di rifugiati “ha raggiunto i 21,3 milioni alla fine del 2021, e i 26,7 milioni nel 2022 (in gran parte a causa della guerra in Ucraina). Ma per quanto i numeri dei rifugiati siano cresciuti, i livelli attuali sono in realtà simili a quelli dei primi anni Novanta: nel 1992 i rifugiati contavano per lo 0,33 per cento della popolazione mondiale e questa percentuale era lo 0,25 nel 2021”.
  

Smentita l’idea per cui le opinioni pubbliche sarebbero sempre più avverse ai migranti. L’anti-immigrazione si vende all’ingrosso, non al dettaglio

   

Fra i miti che de Haas smentisce, c’è anche quello per cui le opinioni pubbliche sarebbero sempre più avverse ai migranti. I sondaggi Gallup, per esempio, mostrano che “la quota di americani favorevoli a livelli di immigrazione più elevati è rimasta stabile fra il 1966 e il 2002, attorno al 7 per cento, dopo di che è cominciata a salire fino a raggiungere il 34 per cento nel 2020”. Come sappiamo bene, l’anti-immigrazione si vende bene all’ingrosso (ci rubano il lavoro) ma non al dettaglio (la badante di mia madre è una santa). L’amara verità è che è quasi impossibile oggi avere una discussione che non venga dirottata da uno story telling né nazionalista né pietista. In questo, però, l’immigrazione non è diversa dagli altri temi al centro del dibattito. Anche se forse mai come quando se ne parla la prevalenza dell’appartenenza sul merito delle questioni riesce tanto sgradevole, tanto ipocrita, tanto crudele.