Le transizioni italiane uscite dalle urne europee
L’elettorato di centrodestra consegna Fratelli d'Italia al mainstream (e ora Meloni è attesa a un triplo salto mortale). Le illusioni del Pd
In attesa di conoscere i flussi esatti dei ballottaggi alle comunali, vale la pena spendere ancora qualche parola sui risultati delle elezioni europee, a maggior ragione adesso che ce le siamo lasciate alle spalle da qualche settimana.
Più di una persona su due, tra quelle che avevano diritto a votare per le europee, ha preferito non farlo o non ci è riuscita. Qualsiasi analisi non può che partire da un dato così macroscopico. E non è il solito commento moralistico di chi drammatizza l’astensione per sminuire risultati che non gli piacciono: qualsiasi forza politica che dovesse decidere di sottovalutare questo astensionismo di massa finirebbe per fare scelte sbagliate. Ci sono almeno tre elementi da valutare.
Il primo elemento è il passaggio di Fratelli d’Italia da partito “anti”, populista e di protesta, a partito mainstream, come quelli che fanno da architravi ai sistemi partitici, almeno stando agli orientamenti di voto. Di solito, infatti, l’astensionismo aiuta i partiti architrave, mentre fa perdere voti a quelli di protesta. Diversi studi mostrano il legame positivo tra partecipazione elettorale e voti ai populisti. Per l’Italia, per esempio, è stato mostrato che quando piove si vota di meno e, di conseguenza, i Cinque stelle prendono meno voti. Anche a questo giro la scarsa affluenza li ha puniti, nonostante fossero capitanati da un ex premier in doppiopetto. Il partito di Giorgia Meloni, invece, è andato bene anche grazie alla bassa partecipazione elettorale.
In altre parole: il M5s non ha compiuto quella transizione verso il mainstream che l’elettorato di centrodestra ha fatto fare a FdI. Transizione, però, che i dirigenti di FdI, tra pistole e busti di Mussolini, non hanno interiorizzato. Ora, Giorgia Meloni ha davanti un triplo salto mortale. Governare il paese, dando risposte a un elettorato variegato, con una classe dirigente inadeguata. Usare in Europa il capitale politico di unica premier uscita rafforzata dalle urne, senza farsi normalizzare dall’establishment di Bruxelles agli occhi dei suoi fan. Insomma: diventare architrave senza essere percepita come traditrice. Non sarà facile. Per ora, nelle trattative a Bruxelles, sembra determinata a giocarsi la partita, come mostrano la scelta di accogliere i sovranisti romeni invece che gli ungheresi di Orbán e il filo diretto con la von der Leyen.
Il secondo elemento riguarda il Pd, che partito architrave, forte o acciaccato che fosse, lo è sempre stato. L’astensionismo delle europee l’ha sempre favorito. E illuso. E’ successo col 40 per cento di Renzi, quando si pensò che quel ciclo sarebbe durato un decennio, e col 23 per cento di Zingaretti, quando si pensò che la risalita era iniziata e avrebbe presto prodotto altre vittorie elettorali. Entrambe si rivelarono profezie che si autodistruggono, provocando scelte politiche poco oculate. Rispetto ai precedenti, Schlein ha dalla sua il vantaggio di non governare. Potrà avvantaggiarsi sia della rendita di stare all’opposizione, sia della polarizzazione con Meloni. Ma ciò non toglie che il rischio di sovrastimare il successo delle europee ci sia.
Nel godersi l’indiscussa affermazione elettorale, sarebbe meglio se il Pd evitasse certi trionfalismi, del tipo: “Abbiamo riportato il partito tra la gente”. Forse qualcuno l’ha dimenticato, ma mentre Schlein militava in un partito non proprio di massa come Possibile, il Pd tra la gente c’era, ricevendone in cambio non solo voti ma entusiasmo. E attirando molti giovani all’impegno politico. Non è bastato. Oggi, la preoccupazione dovrebbe essere quella di costruire un finale diverso. E per costruire un finale diverso non basta dire “no” su tutto, accodarsi alla Cgil e alla magistratura, ripetere poche proposte identitarie, aspettando che il malcontento verso Meloni cresca fino a farle perdere il referendum istituzionale. Questa strategia può regalare ai dirigenti del Pd un altro giro di giostra al governo, ma difficilmente porterà a un nuovo ciclo di centrosinistra in grado di far bene al Paese.
Il terzo elemento è che l’astensionismo è solo uno dei segnali di un cambiamento nel rapporto tra eletti ed elettori. Dai leader siamo passati agli influencer. E anche qui non c’è niente di moralistico. Dopo aver perso fiducia in tutto, dai partiti ai movimenti, dai leader forti ai tecnici, c’è chi non vota e chi, invece, si affida a qualche influencer, cioè, per dirla con la Treccani, a “un personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguito dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”. Non c’è niente di male. Da sempre i broker sono importanti in politica, anche se una volta si muovevano all’interno di strutture organizzate, dai sindacati alle parrocchie, dalle associazioni di categoria al terzo settore. Oggi, si muovono da soli. E di fronte all’assenza di partiti, ideologie e leadership, c’è chi si affida a loro, perché sono dei “simboli” o perché hanno credibilità. E questo non vale solo, su barricate opposte, per Salis e Vannacci. Ma anche per i sindaci delle grandi città, che ormai – capita la mala parata – passano più tempo a produrre contenuti social che a coprire buche.
Non è detto che sia una male: dall’io si passa al noi, da leadership individualistiche si passa a leadership collettive e policentriche. In questo contesto, non è un caso il boom dell’Alleanza Verdi e Sinistra, che ha sempre usato una selezione politica “simbolica”. Non è un caso il successo di una leadership più inclusiva come quella della segretaria del Pd. E forse non è un caso che l’astensionismo sia salito meno tra i giovani, che sono più in sintonia con un rapporto fiduciario di questo tipo, temporaneo e policentrico. Ciò non vuol dire che altre dimensioni abbiano smesso di contare. Le leadership hanno pesato. Le appartenenze hanno pesato. Lo schema mental-mediatico in favore del bipolarismo ha pesato. Ma l’influencerismo ha avuto un suo ruolo, non solo perché c’erano le preferenze. Ora si tratterà di capire quanto è solida questa tendenza. E come faranno i partiti a produrre identità e proposte in un ambiente sempre più volatile e policentrico. Non sarà semplice.