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(dis)abitazioni

Occupazioni e diritto alla (proprietà della) casa. Il caso italiano

Maurizio Stefanini

Le dichiarazioni di Ilaria Salis sull'occupazione abusiva di un'abitazione hanno riaperto il tema della politica sulle case popolari in Italia. Tra realtà e percezione

La neo-euronorevole Ilaria Salis insiste. “Chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket e ai palazzinari”. “Vivere in una casa occupata non è da furbetti, è logorante”. Un mucchio di gente colpita da notizie come quella dell’86enne romano cui occuparono casa a Don Bosco mentre si trovava all’ospedale si arrabbia ancora di più, e in effetti non è la Confedilizia ma la Cisl Pensionati a mettere on line una guida “Casa occupata da estranei: cosa fare secondo la legge italiana” in uno spazio dal nome espressivo: “Pillole di diritto per i nonni”. 

Altri ancora ricordano però che in effetti la politica sulle case popolari in Italia è latitante da anni: e sarebbe allora da citare Antonio Polito col suo recente libro “Il costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici di oggi”. Nello spiegare la terza, “il rigore serve per la crescita, la crescita fornisce le risorse per le riforme sociali”, raccontava appunto di essere nato in una casa popolare costruita grazie ai programmi di aiuto ai poveri che c’erano all’epoca. D’altra parte, è opinione corrente che gli italiani siano un popolo di proprietari di case in proporzione superiore ad altre democrazie industriali proprio perché la scarsa tutela della proprietà non incentiva a offrire abitazioni in affitto, se non a soggetti di cui è sicuro che dopo un po’ se ne andranno. Tipicamente, gli studenti. Da cui altre conseguenze a catena, come in particolare la scarsa mobilità dell’offerta di lavoro. 

Cosa di ciò è percezione e cosa è realtà? In effetti, nel 2019 ci fu l’International Property Right Index che presentò un Case Study riguardante appunto “The Problem of Squatting in Italy: a New Approach by the Court”, in cui si cercava di esaminare il problema con rigore. Testo in inglese, ma autore l’italianissimo Giuseppe Portonera, dell’Istituto Bruno Leoni. E lo studio spiegava appunto come l’Italia sia il paese sviluppato in cui queste occupazioni più avvengono: dato oggettivo, rispetto al quale il chiedersi se la gente occupa perché non si trovano case in affitto o se non si trovano case in affitto perché la gente occupa è in fondo addirittura superfluo. E’ vero che in addirittura un miliardo vi veniva quantificato l’ammontare dei fenomeni di “squatting” a livello mondiale nel 2004. E la previsione era che entro il 2030 si sarebbe arrivati a 2 miliardi e entro il 2050 a 3 miliardi

La gran parte, nei paesi più poveri. Però in Italia se ne contavano ben 50 mila: 7 mila a Roma, 3 mila a Palermo, 200 a Genova, 100 a Catania, 1.000 a Reggio Calabria, 24 a Torino, 19 a Venezia… Come ricordava lo studio, in teoria l’occupazione di proprietà altrui è punita dall’articolo 633 del codice penale italiano, con pene fino a quattro anni di reclusione e a 2.064 euro di multa. Anche l’articolo 42 della Costituzione tutela la proprietà, e l’indicazione che essa deve avere una “funzione sociale” non dà affatto la libertà di esproprio unilaterale da parte di privati. L’articolo 54 dello stesso codice penale, però, prevede che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. La Corte di Cassazione ha sempre ripetuto che questo “stato di necessità” va individuato in modo rigoroso, ma di fatto i tribunali italiani l’hanno usato per sancire una sorta di diritto a occupare. 

Tra 2017 e 2018, infine, sia il Tribunale di Roma sia la Corte di Cassazione avevano condannato lo stato a risarcire il danno a un proprietario a cui non si era riusciti a restituire la proprietà. Un passo avanti in teoria importante, ma che finiva per scaricare il problema su un contribuente già gravato da un livello di tassazione pari al 42,4 per cento del pil.  

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