Il caso
Ballottaggi: la fuga dalla realtà di Meloni, La Russa e Donzelli. E scoppia la grana Europa
Il risultato nelle città conferma i limiti di Fratelli d'Italia. Ma i big pensano ad altro. Intanto l'accelerazione sui top jobs a Bruxelles spinge Meloni verso l'astensione al Consiglio europeo
Rimozione aritmetica, trucchetti di distrazione di massa e impuntature del tipo: perdo, allora mi porto il via il pallone, basta ballottaggi. Il giorno dopo le amministrative dentro Fratelli d’Italia i più realisti le leggono à la Bersani d’antan (“abbiamo non vinto”), il resto del partito – i vertici – sembra preferire fuggire dalla realtà. Giorgia Meloni di prima mattina con un video sui social parla di autonomia differenziata. E alla fine infila due frasi abbastanza impegnative: “Pensate che alla Camera dei deputati una parlamentare dei 5 stelle ha evocato per noi Piazzale Loreto. In pratica io dovrei essere massacrata e appesa a testa in giù”. E ancora: “Dalle opposizioni toni irresponsabili da guerra civile”. La fine del fascismo e gli anni di piombo. Nemmeno una parolina su Bari, Firenze e Perugia.
Tutto rientra in un film già visto nella decennale storia di Fratelli d’Italia. Si può chiamare michettismo, dal carneade Enrico scelto per il Campidoglio. Ovvero la sindrome del candidato sbagliato che non allarga la coalizione, che ha un retrogusto esotico, che viene imposto alla coalizione o che viene accettato dal primo partito d’Italia. Il candidato mapo. “Va sicuramente fatta una riflessione su come incidere nei grandi centri, visto che governiamo il paese e le zone fuori dalle città, diciamo per semplicità le province”, dice Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, tra i fondatori del partito e voce libera, ma non eretica, di Via della Scrofa. Dunque dopo Michetti a Roma, Truzzu (detto Trux) in Sardegna, adesso un tedesco già direttore degli Uffizi a Firenze, un consigliere comunale della Lega a Bari, un’assessora uscente di FdI a Perugia dove per dieci anni aveva governato un agile moderato di Forza Italia stimato anche a sinistra, e così via. Sconfitta assicurata.
La classe dirigente, il partito chiuso a doppia mandata, la gestione famigliare, la difficoltà di spalancare le finestre a chi proviene da differenti culture politiche (“mi posso fidare?”, è il tormentone della leader). Una storia che si ripete nonostante il partito abbia toccato, grazie alla candidatura di Meloni come capolista, il 28,8 per cento alle ultime europee. Tuttavia questi sono argomenti tabù. Di cui nessuno parla. Meglio fuggire dalla realtà. Ieri prima di aprire i social per ascoltare il duro e forse esagerato sfogo della premier, bastava aprire il Corriere della Sera. Intervista a Giovanni Donzelli, capo dell’organizzazione di FdI e regista del ko fiorentino. Testuale: “Il centrodestra ha strappato quattro capoluoghi di provincia al centrosinistra, mentre il centrosinistra soltanto tre. Quindi alla fine il centrodestra aumenta i capoluoghi amministrati e il centrosinistra ne perde uno”. Per Donzelli le amministrative hanno confermato “una crescita importante” del partito. A dire il vero i capoluoghi andati al voto erano 29 di cui tredici guidati dalla sinistra e 12 dalla destra. Ora 17 sono guidati dalla sinistra e dieci dalla destra.
Per fuggire dalla realtà ci si può anche attaccare, a spoglio appena terminato e poco fortunato, alle regole che non funzionano, che vanno cambiate, senza interrogarsi su come aumentare, allargare ed essere attrattivi. Le parole della seconda carica dello stato Ignazio La Russa e big della real casa sui ballottaggi da eliminare se un candidato al primo turno supera il 40 per cento vanno in questa direzione. Un ragionamento dal tempismo non proprio felice, quasi ritorsivo per una logica di causa effetto. E che sembra rientrare nell’alveo della reazione muscolare ed emotiva più che in quello della politica e dell’analisi. Senza ragionare sul perché il partito della nazione, che punta e benedice il ritrovato bipolarismo, non riesca a imbroccare il nome giusto nelle città che contano. E non c’entrano la ztl e l’amichettismo de sinistra. Dunque Meloni cita Piazza Loreto e il clima da guerra civile, Donzelli dichiara che è stato un successo, La Russa vuole abolire i ballottaggi. Gli altri, questa è la parola d’ordine, restano in silenzio. Acquattati. A crogiolarsi al sole della leader. La quale, chissà se sempre per il solito discorso di non toccare l’esistente, fa sapere che non ha intenzione di varare un rimpasto. L’opportunità potrebbe presentarsi con la nomina di Raffaele Fitto a commissario europeo. Il super ministro lascerebbe deleghe pesanti (Affari europei, Pnrr, Coesione e Sud) che la premier non sembra intenzionata a spacchettare con altri ministeri. Al massimo nominando un sottosegretario a Palazzo Chigi (da seguire la deputata Ylenja Lucaselli) da inserire fra l’asse Mantovano-Fazzolari. Dettagli quasi secondari davanti all’accelerazione sui “Top jobs” avvenuta ieri. Meloni dopo averla scongiurata l’ha subita, gli è stata comunicata al telefono dal premier greco, e mediatore per il Ppe, Mitsotakis. Non l’ha presa benissimo. Andrà a Bruxelles per cercare di incassare almeno un portafoglio di prestigio per il suo commissario, anche se nel frattempo, mossa dalla rabbia, sta valutando l’astensione in Consiglio europeo.