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Riflessioni

Vaccini utili per l'Italia per difendere il capitalismo democratico

Salvatore Rossi

Da un lato, le imprese che combattono contro i loro concorrenti per accaparrarsi il cliente non vorrebbero l’impaccio burocratico. Dall’altro, l’interesse pubblico richiede che regole articolate disciplinino la vita delle società, a vantaggio di tutti gli azionisti e dell’intero sistema economico. Il problema è conciliare le due cose 

Che vuol dire capitalismo democratico? Vuol dire compresenza di democrazia politica e capitalismo (o economia) di mercato. Queste due modalità di organizzazione di una comunità nazionale non vanno necessariamente insieme: mentre nella storia del novecento, da che la democrazia si è sviluppata in un numero crescente di paesi, non si è data democrazia senza libero mercato, il contrario non è stato sempre vero. Per di più lo stesso legame da democrazia a mercato è precario. “Il matrimonio fragile tra democrazia liberale e capitalismo impone di mantenere un equilibrio difficile tra dimensione individuale e dimensione comunitaria, sfera privata e sfera pubblica, libertà e responsabilità, economia e politica, denaro ed etica, élite e popolo, cittadini e non cittadini, ambito nazionale e ambito globale” scrive Martin Wolfe nel suo libro La crisi del capitalismo democratico (Einaudi, 2024). Viviamo anni di apparente declino delle forme liberali di democrazia e di crescente aggressività di forme illiberali o di vera e propria tirannia, attuale o potenziale, anche all’interno di paesi di antica tradizione democratica. Le recenti elezioni in Europa hanno dato qualche segnale inquietante, perfino in Inghilterra con il successo relativo del partito di Nigel Farage, anche se il sistema elettorale di quel paese non ha tradotto i suoi milioni di voti in seggi.

Si percorre un terreno di confine fra democrazia politica ed economia di mercato quando si applicano per legge i principi democratici al funzionamento delle imprese di mercato, in particolare al governo delle imprese costituite in forma di società per azioni e quotate in una borsa valori. Da un lato, imprese che combattono istante per istante contro i loro concorrenti per accaparrarsi il cliente marginale non vorrebbero l’impaccio di regole, lacci e lacciuoli. Dall’altro, l’interesse pubblico richiede invece che regole articolate disciplinino la vita delle società, a vantaggio di tutti gli azionisti e dell’intero sistema economico.

Il problema è come. Per meglio dire, il problema è dove tirare la linea fra bene privato e bene comune all’interno di ciascuna delle coppie di opposti citate da Wolfe. Come conciliare lo sviluppo della libera capacità di prosperare delle imprese produttive con l’esigenza, ad esempio, di evitare in ciascuna impresa soprusi della maggioranza degli azionisti a danno della minoranza, che impedisca artatamente a quest’ultima di divenire essa stessa maggioranza. Nei sistemi di impostazione angloamericana la linea è stata tracciata piuttosto a favore della dimensione privata, individuale, privilegiando, per restare in quell’esempio, la governabilità e la libertà di manovra di un’impresa e di chi la guida pro tempore rispetto alla tutela della minoranza degli azionisti. Viceversa, nei sistemi di impostazione latina si è badato di più alle tutele dei (presunti) deboli. Il caso italiano è davvero speciale, perché in questa seconda categoria l’Italia ha scelto di collocarsi all’estremo.

​Le regole di corporate governance sono stabilite in Europa dalle istituzioni comunitarie, che però lasciano sempre a ciascun paese la possibilità di adattarle alla specifica realtà nazionale, purché entro limiti stringenti. Negli ultimi vent’anni in Italia governi e maggioranze parlamentari di ogni colore politico, nel recepire nel nostro ordinamento le direttive europee in materia, le hanno sempre rivestite di uno spesso strato d’inasprimenti e cautele di sapore pubblicistico (fenomeno noto come gold plating), andando spesso al di là del consentito. Ha giocato la tradizionale sospettosità del sistema politico italiano di quasi ogni orientamento nei confronti del libero mercato.

​Nel suo recente contributo alla riforma del Testo unico della finanza (Tuf), a cui il governo sta in questi mesi lavorando, l’associazione fra le società italiane per azioni (Assonime) ha ricordato numerosi, financo scandalosi, casi di gold plating. Ha notato come, rispetto al 1998 quando il testo originario di quella legge fu varato, il numero di articoli del Tuf che disciplinano le società quotate è quasi raddoppiato e la dimensione complessiva delle regole (tra Tuf e Regolamenti della Consob) è quasi quintuplicata! Il peso degli oneri burocratici ed economici a carico delle società che vogliono approdare alla Borsa o restarci è quindi cresciuto mostruosamente. Il risultato è che il divario fra la capitalizzazione in Borsa delle imprese quotate italiane rispetto al Pil e quella delle imprese olandesi, già ampio alla fine degli anni 90, è aumentato a tre volte e mezza, il divario con le imprese francesi, inizialmente non amplissimo, è esploso. La capitalizzazione delle imprese italiane è anche molto più bassa di quella delle imprese inglesi, tedesche e spagnole.  

​La Borsa è il luogo in cui il sistema capitalistico di un’economia avanzata dovrebbe dare il meglio di sé. Se è asfittica perché soffocata da troppo regole di malintesa democrazia l’economia si sviluppa meno di quanto potrebbe e la democrazia vera diviene meno stabile.

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