L'intervento
La crescita demografica a Milano e i punti di forza da cui fare ripartire quella nel resto d'Italia
No, il nostro paese non diventerà mai spopolato come l’Arizona. Ma la politica deve trovare il suo senso, la sua capacità di progettazione, l’abilità di azione rispetto a una strategia sociale
Gent. mo direttore, lo spunto fornito dall’articolo del bravo Antonio Gurrado nella sua rubrica sul sito del Foglio, “Bandiera Bianca”, riportava come sommario: “Quando, fra trent’anni, in Italia ci saranno forse solo balle di fieno che rotolano, la popolazione di Milano sarà aumentata di sessantamila persone”. Che in una metropoli la popolazione aumenti sembrerebbe un dato scontato. Ma, al solito, i numeri spiegano fino a un certo punto. E’ compito di noi politici metterli in una prospettiva.
Non dico amministratori, dico proprio politici, avendo però chiaro che la politica non nasce nelle zone rurali o al mare o sulle montagne, nasce nella pòlis, che in greco è la città. E’ la pòlis al centro di un’arte del governo che ha segnato la storia della specie umana, cioè la politica. C’è un politico e celebre sindaco del passato, uno dei padri della Costituzione che non smetto di ammirare, il leggendario primo cittadino di Firenze Giorgio La Pira, che in un celebre discorso a Ginevra nel 1954 enunciò questa fondamentale verità: le città non possono morire. Ciò che sottintendeva era che gli stati variano i confini, si disgregano e si fondono, mutano estensione e si irrigidiscono in culture specifiche. Le città, no. Le città sono il luogo dell’aggregazione, dell’integrazione, dei diritti e delle regole. La democrazia nasce nelle città. La Repubblica stessa nasce nelle città.
Al centro di questo discorso sta ciò che evidenziava Gurrado nel suo fondo. Il punto è sicuramente demografico. Gli uffici statistici del comune di Milano hanno rilasciato un report sull’andamento demografico in Italia e nella metropoli milanese dal 2023 al 2039. In effetti le curve vanno drasticamente all’opposto: il calo nella nazione porta la popolazione a 56,6 milioni di abitanti, una perdita di quasi 3 milioni in pochi anni; Milano invece cresce in un range che potrebbe portarla a 1,6 milioni. Questo per quanto concerne i confini della città. Ma, si sa, dopo una certa soglia, la città fa il salto e diventa metropoli. E dire metropoli significa considerare parte attiva e inclusa nel territorio cittadino una fascia di comuni che allargano la popolazione in quantità, in necessità di servizi, in ricchezza e in problemi da gestire. La città metropolitana a Milano conta 3,3 milioni di abitanti. Molti dei quali sono city user, cioè entrano nei confini cittadini e lì lavorano e vivono parte della giornata – parliamo di quasi un milione di persone.
Più depresso sembrerebbe essere il panorama demografico italiano. Il che ci porta a due generi di considerazioni. Primo: se manca una politica demografica, è perché si sta avvertendo l’assenza di una visione strategica su cosa sia una politica del lavoro, una politica industriale e una politica del welfare a livello nazionale. Quando si protesta contro l’Europa perché impone un tappo di plastica che non si stacca dalla bottiglietta d’acqua, bisognerebbe ricordare che finora la vera strategia sociale e produttiva per le nazioni Ue è stata europea. Pur con tutte le sue mancanze, che sono in certi casi drammatiche.
Seconda considerazione: se uno va a Londra o Parigi si rende conto fino a che punto e in quale modo positivo le politiche di transizione ecologica e sociale possono funzionare. Noi in Italia abbiamo città pensate in modo diverso, il processo di rivoluzione green sarà più difficoltoso, ma è fatale che venga intrapreso e portato fino in fondo. In questo processo ci sta tutto. Per esempio, il pensiero e l’applicazione pratica di un’industria a piena sostenibilità (come si fa a berciare contro l’auto elettrica perché le batterie le produce in gran parte la Cina, anziché pianificare un distretto europeo o italiano di produzione in tal senso?). Ma non solo. La vita delle città, autentici soggetti trainanti della nostra contemporaneità, è ambiente, cultura, commercio, movimento (stiamo vedendo in questi giorni su Barcellona e Tokyo le proteste contro il turismo di massa nelle città), investimento e capacità di programmare su un piano che è allo stesso tempo cittadino, nazionale e internazionale.
Non è certo un tema riferibile soltanto al governo in carica, si tratta di mancanze storiche a livello nazionale. Però lo è in particolare, proprio perché è il governo in carica. Quello che il suo quotidiano, caro direttore, intendeva ieri nell’espressione “scaramucce” tra il premier Meloni e il sottoscritto, nasce anzitutto da questa domanda che mi pongo e pongo a tutti: quale futuro ha in mente per l’Italia il governo nazionale, in termini di politica industriale, di politiche del lavoro e di produzione di valore? E non si ritiene che Milano possa giocare un ruolo di primo piano in queste politiche? Non sono aduso a lamentarmi. E non mi lamento, infatti. Piuttosto, sono realista. Se esiste un luogo in una nazione, dove fondi italiani e stranieri intendono investire, dove le università si sviluppano costantemente, questo luogo è di norma parte di una strategia che riguarda la proposta della nazione stessa, la difesa degli interessi e, nel nostro caso, i processi avanzati di integrazione con il resto dell’Europa.
Chi governa o ambisce a governare le grandi città nella nostra epoca deve avere chiaro che esiste una vita delle metropoli, un’evoluzione che passa fasi critiche di crescita e che affronta emergenze ormai mondiali – qui faccio l’esempio del Covid: una pandemia planetaria che a Milano ha picchiato duro, facendo decrescere la popolazione e azzerando molti indici economici e produttivi, che abbiamo impiegato fino a oggi a recuperare a pieno. Chi governa o ambisce a governare una “città del secolo”, visto che siamo in quello che Bloomberg ora ex sindaco di New York ha chiamato “secolo delle città”, deve sapere che in questi centri di enorme aggregazione e di super-vita si gioca tutta la sfida dell’avvenire, che è poi quella del passaggio a una società integrata tecnologicamente e per questo necessariamente più umana. Ed è qui che si giocherà la sfida della sopravvivenza delle specie viventi: la lotta al cambiamento climatico viene pensata e comincia nelle città, che già ora sono aggregati in grado di produrre energia pulita, avendo l’obiettivo della neutralità climatica.
Ovviamente l’Italia, per configurazione e storia, non sarà mai simile ai paesaggi di un Arizona in cui rotolano cespi nel deserto. Il nostro paese ha un vantaggio clamoroso nei confronti delle altre nazioni: un numero altissimo di centri cittadini in uno spazio minimo. Una rete impressionante di competenze, interessi, capacità di protezione. E’ una chiave per l’avvenire che a mio parere sta venendo totalmente ignorata dalle strategie di chi governa.
Vorrei chiudere con un’ultima riflessione. In tutto l’orizzonte che si staglia a chi guardi il rapporto tra Milano e l’Italia e l’Europa (e va detto che questo terzo elemento è in realtà il primo e più indispensabile), la politica deve trovare il suo senso, la sua capacità di progettazione, l’abilità di azione rispetto a una strategia sociale. Il compito della politica deve essere inequivocabilmente quello di realizzare i valori sociali della Costituzione repubblicana, l’universalità di diritti e di doveri, nel tempo delle intelligenze artificiali. O la politica comprende che oggi è politica solo questo passaggio alla prosperità e all’affrontamento dei problemi nelle società dei big data – o rischia di non incidere in nulla, di non toccare proprio palla.