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La riflessione

La Cgil politicizzata. La battaglia per l'Art. 18 non è da professionisti del sindacato, ma della politica

Francesco Rotondi

La magistratura del lavoro deve dirimere controversie, non colmare vuoti normativi. E le associazioni dei lavoratori non dovrebbero percorrere la via della contrapposizione, ma della coesione e della partecipazione

La prova che la “lotta” per il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è affatto sindacale, bensì politica, lo si apprezza guardando – da vicino – cosa è sempre accaduto nelle vertenze incardinate nei vari tribunali d’Italia. L’effetto reintegratorio dell’art. 18 è solo una delle conseguenze dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento ed è anche la meno percorsa. E quand’anche il tema fosse la precarietà, neanche la monetizzazione della “reintegrazione” dovrebbe essere ritenuta una cura.

 
Quindi occorre cambiare prospettiva per comprendere le ragioni che muovono la Cgil a erigere la battaglia –non contro il Jobs Act, che è anche altro e forse molto di più – per il ripristino della vecchia formula dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori quale fondamentale passo verso la lotta alla precarietà. Basterebbe osservare, ancora, come non vi sia stata un’impennata di licenziamenti dopo la riforma Renzi per comprendere che vi è una chiara manipolazione dell’informazione volta a focalizzare l’attenzione laddove a nessuno veramente interessa, ma dove vi è un grande patrimonio elettorale, un miscuglio di bisogno, infelicità, ignoranza,  voglia di riscatto che viene illusa da cattivi maestri. 

 

Non solo. Com’è possibile credere che una norma, anche la migliore delle norme, possa effettivamente essere causa e/o cura di un problema ben più ampio? Su questo equivoco si gioca gran parte delle battaglie politiche, è vero! Ma non dovrebbe essere un terreno solcato dal sindacato, che non è un partito. Allora la domanda è: ma l’art. 18 ha impedito i licenziamenti per motivi organizzativi ed economici? Ha impedito le riorganizzazioni e gli esuberi? Ha impedito l’utilizzo improprio e massiccio degli ammortizzatori sociali? In poche parole, l’art. 18 così come idealizzato dalla Cgil è stato un limite alle dismissioni industriali? E non è forse vero che il vero tema da affrontare è la causa della perdita di lavoro, non certo la norma che si applica a tale evenienza? Che la sanzione della reintegrazione, il più delle volte è irrogata per motivi “non giuridici”, “non di stretto diritto”?

 
Quando il diritto risponde alla  società civile con l’incertezza del giudicato non fa altro che ammettere che il vero problema non è più “il diritto”, che esso non può far nulla per mettere ordine in quella situazione poiché, che esso sia interpretato in un modo piuttosto che in un altro, la sentenza non “risolve” il problema, ma lo crea all’una o all’altra parte processuale. Se questo potrebbe andare bene in altri settori, di certo non va bene per il lavoro, per il mercato, per la Costituzione.  

 
La magistratura del lavoro deve dirimere controversie, non “correggere” le leggi, non colmare vuoti normativi (in questo settore), non orientare il mercato. Queste sono attività riservate al potere legislativo e/o politico e alle parti sociali, ai sindacati come li abbiamo conosciuti, quelli delle concertazioni, dei grandi accordi, degli accordi interconfederali. I momenti importanti del sindacato non sono quelli della contrapposizione, bensì quelli della coesione, della collaborazione, della partecipazione. Grandi maestri hanno più volte tentato di far comprendere che vi è un tempo per tutto e che la “lotta” per sé stessa non vale nulla, che occorre saper comprendere per “quali” diritti si sta agendo, in quale momento storico, con quali obiettivi finali e se essi sono veri, realizzabili o solo un modo per distrarre, per immaginare o, meglio, far immaginare soluzioni impercorribili e impraticabili.

 
Ecco, in questo contesto possiamo inserire la incomprensibile battaglia contro il Jobs Act, ammesso che di esso sia rimasto molto o, almeno, così tanto da dover essere un baluardo di una campagna che a me pare più “elettorale” che sindacale. E adesso la battaglia diventa la battaglia dei numeri, delle statistiche e intanto il mondo, quello vero, va avanti, i problemi si risolvono senza gli attori principali impegnati in altro. Di quanto la riforma del 2015 prevedeva in termini di accentramento/decentramento dei servizi dell’impiego, di politiche attive, di buona flessibilità, nessuno parla.

 
La conclusione è semplice: siamo di fronte a una mossa politica, da professionisti della politica, non vestiamola e non diamole dignità sindacale.

 

Francesco Rotondi. Consigliere esperto Cnel

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