La rotta può cambiare
Oltre ogni ragionevole dubbio. La giusta strada del ddl Nordio, spiegata a chi non la vuole capire
Lentezza dei processi e spettacolarizzazione mediatica determinano una torsione tutta italiana: così la riforma tenta di correggere un sistema che punisce anche gli innocenti
L’elemento centrale intorno a cui ruota tutto il sistema della giustizia è il tempo. Giorni, mesi, o anni fanno un enorme differenza per chi deve rispondere di un reato e difendersi, per chi è persona offesa, per chi svolge le indagini e dispone le accuse, per la stampa che racconta i fatti, per il cittadino che si informa. In un paese ideale le indagini sono coperte dal più assoluto riserbo, il processo pubblico si svolge a ridosso delle indagini, la sentenza definitiva giunge rapidamente, la stampa si interessa al dibattimento ben più che alle indagini e, nell’illustrare le accuse, tiene sempre conto della presunzione di innocenza. Così una persona che viene indagata e ne esce da innocente non subisce nessuna cicatrice indelebile per il sol fatto di essere entrata nel frullatore giudiziario.
Nel nostro paese accade tutto il contrario, perché il tempo tra le indagini e la sentenza definitiva è illimitato. E questo determina una torsione del sistema: poiché la sentenza definitiva arriverà dopo anni e anni i riflettori si accendono sulle indagini, vero perno del procedimento in luogo del dibattimento. Niente riserbo istruttorio, ma esibizione mediatica degli atti, perché non c’è tempo di aspettare Tribunale Appello o Cassazione, la stampa ha fame di notizie per riempire la pancia dei lettori, le procure usano i media per creare un legame con l’opinione pubblica che metta il giudice in posizione di debolezza, la politica sfrutta le indagini a proprio uso e consumo. Con il risultato che anche una assoluzione dopo anni lascia intatta la ferita subita con il processo mediatico, ed ogni errore giudiziario viene sanato dal trascorrere del tempo, e chi ha sbagliato non è mai chiamato a rispondere.
Direte, cosa c’entra questa premessa con il ddl Nordio? C’entra eccome perché faticosamente, tra un’infinità di deroghe, questa legge prova a invertire la rotta. Non è risolutiva, non è organica, riguarda norme isolate, ma lo sforzo va riconosciuto. L’abuso d’ufficio è il classico reato per favorire la scorciatoia giudiziaria nel colpire l’avversario di turno. Mandi una delibera in procura e il gioco è fatto: i Pm sono costretti ad aprire un fascicolo, a mandare la finanza in comune ad iscrivere il sindaco tra gli indagati. Dopo anni ci sarà l’archiviazione o l’assoluzione, ma intanto l’interessato è azzoppato, sputtanato, infangato. Solo lo zero virgola cinque per cento dei fascicoli si traduce in condanna definitiva.
Il combinato disposto vaghezza della norma-tempo eterno del procedimento è letale. L’interrogatorio prima dell’arresto, anche qui con tante deroghe, è norma sacrosanta, per provare a limitare le ingiuste detenzioni. L’indagato potrebbe chiarire e scongiurare un errore giudiziario. Oggi deve essere interrogato dopo tre o quattro giorni di carcere e anche se chiarisce e viene immediatamente scarcerato, quella cicatrice, dall’aver varcato la soglia della prigione, non si rimargina mai più. Stesso obiettivo per il giudice collegiale per gli arresti. Di fronte allo strapotere mediatico dei pm, meglio un Gip solitario o tre persone? Non dimentichiamo che non di rado l’ordinanza di arresto è di centinaia di pagine che vengono poi sbattute sui giornali. Un controllo puntuale e collegiale di sicuro va nella giusta direzione. Del tema delle intercettazioni ci sarebbe da scrivere molto.
Il ddl Nordio si occupa dei terzi non indagati, troppo spesso infilati nel frullatore con l’obiettivo di condire il profilo mediatico delle indagini. E’ un primo passo, anche se molto limitato. Infine l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. L’art. 533 del codice di procedura che ha come titolo “condanna dell’imputato”, prevede che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il codice stabilisce inoltre che il pm per mandare una persona a processo deve porsi una domanda: “C’è ragionevole probabilità di condanna?”. Ebbene se l’imputato viene assolto in primo grado significa che il pm ha sbagliato la prognosi e non ci sono più margini per dichiarare una colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
Enrico Costa, deputato di Azione