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Buttate i telecomandi

Tra Erba e le Iene. E poi Calenda. Il caso Tarfusser è il manifesto della giustizia modello spaghetti western

Salvatore Merlo

L'eccesso di protagonismo del sostituto procuratore generale di Milano sul caso Erba si collega alla candidatura nelle liste di Azione. Ma la buona amministrazione dovrebbe curarsi soltanto della civile prosa del mondo, non della televisione 

Tiri troppo la corda civile e ti viene fuori la corda pazza. Forse perché guarda molto la televisione, Cuno Tarfusser, sostituto procuratore generale di Milano, si era convinto dell’innocenza di Rosa e Olindo, gli stragisti di Erba. Le sue fonti di ispirazione, le suggestive sei ore di puntata innocentista delle “Iene” in prima serata su Italia 1. Come un manuale della verità alternativa che va benissimo alle Iene, ma che in un’aula di tribunale assume presto la dimensione di tragica patacca. Con la corda pazza stretta intorno alla corda civile, Tarfusser sfidava appunto il Csm e il suo stesso ufficio – imperversava in tv e scavalcava il procuratore generale, il suo capo – e incorreva anche per questo in una censura disciplinare. Ai colleghi che gli rimproveravano un eccesso di protagonismo e di aver violato princìpi di correttezza e d’imparzialità, opponeva – insofferente – una scrollata di spalle: “Ho dovuto prendere atto che il successo non mi è perdonato e che il merito non mi è riconosciuto”.

E tutto questo egli lo diceva sostanzialmente a una donna, un magistrato, Francesca Nanni, il procuratore generale di Milano, il suo capo ufficio, che è colei la quale senza protagonismo, senza tv e senza riflettori puntati, aveva fatto splendere il buon nome della giustizia italiana riaprendo il caso di Beniamo Zuncheddu, il pastore sardo che s’era fatto 33 anni di prigione. Ed era davvero innocente. Ma Rosa e Olindo, condannati oltre ogni ragionevole dubbio, innocenti invece non lo sono, ha stabilito ancora una volta la Corte senza sorpresa di alcuno. Sicché di tutta questa vicenda  resta lo spelacchiamento di quel principio  dello stato di diritto che recita così: “Meglio un colpevole fuori che un innocente dentro”. Per sapienza del destino, Tarfusser s’è poi candidato alle elezioni europee con Carlo Calenda (perdendole: 2.200 voti, decimo nella lista di Azione). “Io vado con chi mi merita”. Ecco. Calenda, appunto. Che a sua volta è un compulsivo del telecomando tv, e infatti mesi fa aveva scoperto il caso Emanuela Orlandi proprio guardando una  docu-fiction su Netflix. Ne venne fuori una campagna politica, una mezza crisi con il Vaticano e la nascita della trecentesima commissione parlamentare d’inchiesta che sta lì a confermare, assieme al caso Tarfusser, come l’Italia sia ancora il paese del melodramma e degli organetti di barberia. Il rivoluzionario vero, in Italia – e lo diceva Gianni Brera – è chi va in ufficio la mattina alle 8.30 e fa tutto intero il suo dovere per il resto della giornata. E voleva dire che un certo modo di essere rivoluzionari all’italiana sa molto di operistico, come lo “spaghetti western”. Alla buona amministrazione – a maggior ragione alla giustizia – compete ben altra ispirazione: la civile prosa del mondo. Non certo quella pazza della tivù.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.