L'editoriale del direttore
Le convergenze speciali tra Draghi e Meloni, due anni dopo
Era il 14 luglio 2022 quando l’ex premier scelse di dimettersi. Che fine ha fatto la sua agenda? Sorprendentemente chi ha più punti di contatto con Draghi è proprio l’unico partito che in quel governo non c’era. Undici convergenze clamorose, spiegate con un acronimo speciale
Era il 14 luglio del 2022 quando Mario Draghi si presentò al suo ultimo Consiglio dei ministri annunciando le sue dimissioni, poi confermate ufficialmente in serata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Due anni dopo, la figura dell’ex presidente del Consiglio ha perso la sua centralità nel mondo della politica ma l’eredità della sua bistrattata agenda è ancora oggi – e contro ogni pronostico, specie quello di noi vedove draghiane – al centro dell’azione politica del governo che doveva incarnare una totale discontinuità dal suo predecessore. E se si ha la pazienza di mettere insieme alcuni puntini si capirà senza troppa fatica che due anni dopo gli unici a non rinnegare il draghismo sono proprio coloro che per due anni sono stati all’opposizione del governo Draghi.
Abbiamo provato a mettere insieme alcuni elementi utili che possono aiutarci a ragionare attorno a questo tema e alla fine abbiamo individuato undici terreni di gioco sui quali le intersezioni tra il governo guidato da Giorgia Meloni e quello guidato dal suo predecessore sono evidenti senza possibilità di appello. E per semplificarci la vita abbiamo provato a far rientrare gli elementi di continuità all’interno di un acronimo facilmente ricordabile: m.a.r.i.o. d.r.a.g.h.i.
La prima lettera, la “m”, sta per mercato ed è una lettera che indica una sorpresa vera dei quasi due anni di governo Meloni. Le principali operazioni di mercato che il governo Draghi aveva provato ad avviare sono state completate dal governo Meloni. E la particolarità di questa continuità speciale è significativa non solo per la bontà delle scelte fatte ma anche per la discontinuità mostrata da Meloni rispetto alle sue idee del passato. Due temi su tutti, che riguardano il presente, e due sfide sul futuro, che restano sullo sfondo.
Per il presente, la continuità riguarda le partite di Ita e di Tim, dove il governo Meloni è riuscito a fare meglio del governo Draghi. Su Ita, Draghi cedette sciaguratamente al suo ministro dell’Economia, Daniele Franco, e al direttore generale del Mef Alessandro Rivera, che fecero di tutto per boicottare l’unica strada possibile per Ita, ovvero Lufthansa: all’epoca si preferì Air France, con pessimi risultati. Su Tim, la vendita della rete a Kkr venne valutata dal governo (e dal Mef) ma fu di fatto poi rallentata al punto da essere affossata. Il governo Meloni, che attraverso Cdp ha una quota vicino al dieci per cento in Tim, ha invece ripreso in mano il dossier e gli ha dato continuità. Detto tra parentesi: su Tim, i meloniani avevano un’idea diversa da quella attuale, volevano nazionalizzarla. Mentre su Ita, i meloniani avevano un’idea diversa da quella attuale: volevano farla restare italiana, non vendendola a Lufthansa. O tempora, o mores.
Per quanto riguarda il futuro, le partite sulle quali andrà verificata la continuità tra il governo Draghi e quello Meloni sono tre e riguardano la vendita di Mps (controllata al momento dal Mef), la privatizzazione delle Ferrovie dello stato (annunciata dal governo Meloni, sostenuta dal governo Draghi) e la cessione di una quota sostanziale di Poste (con lo stato che resterebbe sopra al 51 per cento). In tutti e tre i casi, il nazionalismo statalista modello Meloni dovrà dare prova di maturità e dimostrare che le privatizzazioni devono essere fatte per ragioni strategiche e non per ragioni contabili come avvenuto con Eni, per esempio, di cui il Mef ha venduto il 2,8 per cento della sua partecipazione (1,5 miliardi) senza altro obiettivo che fare cassa.
La seconda lettera del nostro acronimo è la “a”, come accise, e su questo terreno si è registrata un’altra marcia indietro importante di Meloni: appena un mese dopo il suo insediamento, il suo governo ha dovuto gestire la fine degli sconti sulle accise introdotti dal governo Draghi, durante il boom dei prezzi dei carburanti, e nonostante il taglio delle accise fosse una storica battaglia di Fratelli d’Italia Meloni ha fatto il contrario rispetto a ciò che aveva promesso e non ha rinnovato uno sconto che costava circa 10 miliardi all’anno. Il non rinnovo delle accise conta per il fatto in sé ma conta anche per la direzione mostrata dal governo. E se tra il nome e il cognome di Mario Draghi ci fosse anche una “p”, potremmo usarla per sintetizzare un altro elemento di continuità tra i due: “p” come prudenza.
La terza lettera è la “r”, come Reddito di cittadinanza, e qui Meloni ha compiuto una scelta che Draghi avrebbe probabilmente fatto se il suo governo fosse arrivato fino alla fine del 2022. “Il Reddito di cittadinanza è una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”, disse l’ex premier nel suo ultimo discorso al Senato (22 luglio 2022).
La quarta lettera è la “i”, come immigrazione, e per quanto possa sembrare incredibile anche su questo punto la sintonia tra i due governi è pressoché totale: il famoso Patto sui migranti che il governo ha approvato nel 2023 e che è stato ratificato al Parlamento europeo il 10 aprile 2024 è lo stesso che il governo Draghi, con il ministro Luciana Lamorgese, aveva validato nel 2021. All’epoca, Meloni fu molto dura con quell’accordo, convinta com’era la leader di Fratelli d’Italia che la via della solidarietà europea non fosse quella giusta per contrastare l’immigrazione (meglio il blocco navale). Nell’aprile del 2024, invece, il partito di Meloni è stato l’unico tra i partiti italiani a votare i principali punti di quel Patto. E a parte Forza Italia, tutti gli altri partiti che sostennero il governo Draghi (M5s, Pd, Lega) in Europa quel giorno votarono contro l’accordo promosso dal governo di cui fecero parte.
Dopo la “i” abbiamo la “o”, e non possiamo che riferirci all’ordine di bilancio, alla capacità avuta finora dal governo di agire con prudenza, appunto, e con attenzione per evitare di far esplodere il debito pubblico e per provare a contenere i guai contabili prodotti dal Superbonus, che Draghi durante i suoi due anni di governo ha più volte demonizzato, in particolare per la parte della cessione dei crediti, senza però riuscire a mettere un freno, cosa che il governo Meloni ha fatto.
Arriviamo ora alla “d”, che con una piccola forzatura ci porta a parlare di fisco, vedi alla voce delega fiscale. Su questo fronte, il governo ha fatto tesoro del lavoro fatto nella scorsa legislatura dalla commissione Bilancio guidata da Luigi Marattin e l’obiettivo dell’Irpef a tre aliquote, i testi unici, il riordino del magazzino fiscale sono eredità della legislatura precedente. Stessa cosa, a proposito di fisco, quando si parla di taglio al cuneo fiscale, su cui il governo Meloni è intervenuto limitandosi a confermare il taglio da 3,5 miliardi di euro necessario a prorogare lo sgravio contributivo del due per cento introdotto dal governo Draghi nel 2022 per i redditi inferiori a 35mila euro.
La lettera successiva, la “r”, ci porta a parlare di Russia, e il posizionamento sull’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, è ciò che forse caratterizza il tratto di continuità più importante tra i due governi.
Stessa cosa per la lettera successiva, la “a” di atlantismo, e nonostante la presenza in campagna elettorale di Donald Trump, vecchio punto di riferimento non solo di Matteo Salvini ma anche di Giorgia Meloni, l’atlantismo della premier l’ha portata in questi quasi due anni di governo a costruire un rapporto di fiducia e persino di complicità con il presidente democratico Joe Biden, con il quale, nel marzo del 2024, ha sottoscritto un comunicato congiunto fortemente anti trumpiano (su energia, ambiente, difesa dell’Ucraina).
Sulla giustizia, stessa storia. Il governo Draghi ha cercato di far fare passi in avanti al paese sul fronte del garantismo, e passi lontani dalla stagione dell’oscurantismo giustizialista del governo gialloverde, dj set del ministro Fofò Bonafede, e anche il governo Meloni in fondo sta andando verso quella direzione, specie nel tentativo di limitazione dei reati evanescenti (ma ovviamente su questo fronte il governo Meloni, che a differenza del governo Draghi non ha grillini in maggioranza, ha più margine di manovra, sul terreno della lotta contro il giustizialismo).
La “h”, ovviamente, non può che stare per human research, per selezione del personale, e non è un caso che almeno finora le nomine più azzeccate fatte dal governo Meloni siano quelle in maggiore continuità con il passato. Ernesto Ruffini all’Agenzia dell’entrate (confermato). Matteo Del Fante a Poste (confermato). Claudio Descalzi a Eni (confermato). Roberto Cingolani a Leonardo (ex ministro del governo Draghi). Alessandra Dal Verme al demanio (confermata). E, salvo sorprese, anche Dario Scannapieco dovrebbe essere confermato nello stesso posto dove lo aveva messo Draghi: alla guida di Cdp. La “i” finale è importante e sta per indipendenza energetica e anche qui la continuità tra Meloni e Draghi è totale. Nessun passo indietro nel processo di emancipazione dal gas russo, anche se il rigassificatore di Piombino qualche problema lo ha creato. Nessun passo indietro nel processo di apertura alle nuove tecnologie, compreso il nucleare. Le distanze tra Meloni e Draghi ovviamente ci sono, sono tante, e riguardano soprattutto la capacità del predecessore di Meloni di costruire in Europa alleanze utili per far pesare l’Italia, cosa che a Meloni riesce poco. Ma quando due anni fa il presidente del Consiglio rassegnò le sue dimissioni, facendo spaventare per qualche giorno gli investitori, chi non avrebbe firmato per arrivare due anni dopo ad avere un governo certamente imperfetto, certamente poco visionario, certamente poco efficiente sull’implementazione del Pnrr, certamente pasticcione sui diritti ma in continuità con il governo precedente sui valori non negoziabili di una democrazia liberale? Draghi e Meloni sono una coppia improbabile.
Ma due anni dopo sono una coppia che politicamente funziona ancora. E chissà se reggerà anche all’urto possibile dei due prossimi appuntamenti che contano: le nuove maggioranze europee (18 luglio) e le elezioni americane (5 novembre). Dita incrociate e speriamo in un po’ di popcorn, per noi inconsolabili vedove draghiane.