(meno) potere dei popoli

Questa fragile democrazia. Gli indici per misurarla, gli anticorpi per non disperare

Sabino Cassese

Diminuiscono, invece di aumentare, i paesi in cui si è affermata (esportarla è difficile). E là dove da tempo si è affermata, oggi è più debole. L'analisi sulla base di dati empirici

I regimi democratici diminuiscono, invece di aumentare. I paesi che sono ancora retti da governi democratici sono deboli e mostrano scarsa capacità politico-amministrativa. Il mondo, che aveva sperato, nel secondo dopoguerra, di diventare tutto democratico, grazie alla diffusione delle libertà e della scelta popolare dei governanti nelle singole nazioni, e che aveva coltivato l’idea che ai circa 200 regimi democratici così stabiliti si potesse sovrapporre una democrazia globale, retta da una costituzione universale, deve ora ricredersi circa la forza espansiva della democrazia ed accettare l’esistenza di regimi autoritari, e persino di governi totalitari? 

  
Si moltiplicano voci preoccupate sullo stato della democrazia nel mondo. In Francia, quella della grande sociologa Dominique Schnapper, che ha appena pubblicato una importante riflessione, significativamente intitolata “Les désillusions de la democratie” (Paris, Gallimard 2024), e si è chiesta se le democrazie non siano fragilizzate dalle loro stesse dinamiche, oltre a essere minacciate dalle guerre e dai regimi autoritari. In Italia, quella di uno dei maggiori economisti, che ha dedicato una buona parte della sua vita alla “cosa pubblica”, Mario Monti, autore di un libro significativamente intitolato “Demagonia. Dove porta la politica delle illusioni” (Milano, Solferino 2024), in cui lamenta che i governi abbiano inseguito il consenso immediato e facile, mettendo da parte problemi e scelte importanti e contando su cittadini- elettori poco consapevoli ed esigenti.

 

L’indice della democrazia

Esaminiamo qual è lo stato della democrazia nel mondo con l’aiuto del “Democracy Index” dell’Economist Intelligence Unit, che da un decennio fa la radiografia di 167 paesi (quindi la maggior parte dei paesi del mondo, perché sono 193 gli stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite-Onu) e che all’inizio del 2024 ha pubblicato i dati relativi al 2023. Questi sono stati poi oggetto di un’analisi compiuta dallo statistico dell’università di Roma La Sapienza Pierpaolo D’Urso presentata il 27-29 maggio 2024 alla riunione del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’università romana, intitolata “La statistica strumento di misura del processo democratico”. 

  

   
I dati così raccolti riguardano le elezioni, i governi, la partecipazione dei cittadini, la cultura politica e le libertà civili e sono fondati su opinioni di esperti e su sondaggi dell’opinione pubblica. Le statistiche consentono di classificare le democrazie in tre categorie, le democrazie complete, quelle imperfette e quelle ibride, che hanno solo alcuni elementi democratici. 

 
Ora, i dati aggregati sembrano indurre ad ottimismo perché nel 2023 ben 108 paesi, che raccolgono il 60,6 per cento della popolazione mondiale, erano governati da regimi o interamente o parzialmente democratici, o da democrazie ibride. Quindi, 59 paesi, che raccolgono il 39 per cento della popolazione mondiale, sono governati da regimi autoritari. 

 
Se si considerano, però, solo le democrazie complete e si esaminano gli andamenti nel tempo, il quadro muta. Nel 2023 solo 24 paesi, la cui popolazione costituisce il 7,8 per cento della popolazione mondiale complessiva, avevano governi interamente democratici e inoltre, dal 2008 al 2023 si registra una tendenza della democrazia verso la stagnazione e la regressione. Le zone del mondo che vanno peggio sono l’Asia e l’Africa del nord.

  

Democrazia in dati

  

I segni della regressione

I segni della regressione della democrazia sono di due tipi: vi sono quelli quantitativi, a cui si accompagnano quelli qualitativi. I secondi riguardano il funzionamento e l’efficacia delle democrazie e segnalano un arretramento dei paesi democratici. I primi riguardano la quantità di paesi e di abitanti del mondo che sono governati da regimi democratici e segnalano anch’essi un arretramento. Dunque, i fattori di crisi della democrazia operano dall’interno e dall’esterno. Esaminiamoli separatamente, cominciando dai fattori quantitativi - esterni.

  
Diminuiscono i paesi democratici

Gli stati democratici e le relative popolazioni sono in diminuzione. Questo dato quantitativo non va sopravvalutato perché anche nei regimi autoritari si insinuano elementi propri della democrazia, in quanto i paesi non possono vivere in isolamento, le frontiere sono porose, i trapianti di istituzioni sono frequenti. 

 
E’ grave, tuttavia, che i tentativi organici di esportazione della democrazia siano rimasti senza successo. Basti citare due esempi. L’Onu ha istituito da numerosi anni un “Democracy Fund” che serve a finanziare iniziative democratiche all’interno di singoli paesi. Un’analoga iniziativa è stata presa dell’Unione europea. I finanziamenti vengono dati direttamente a gruppi, istituzioni, comunità, all’interno di paesi non democratici, bypassando, quindi, i governi nazionali e, in un certo senso, cercando di correggerli dal basso. Ma iniziative di questo tipo, pure utili a livello episodico e capillare, non riescono a produrre la nascita di nuove democrazie nel mondo. Altrettanto grave che il fattore imitativo, che conduce più di ogni altro ai trapianti di istituzioni da un paese all’altro, non abbia funzionato a sufficienza per le istituzioni della democrazia.

  

Si indeboliscono le democrazie

Se si passa a esaminare gli aspetti qualitativi della crisi delle democrazie, si nota che, paradossalmente, un primo segno della loro debolezza è quello prodotto dal loro stesso successo. Esse, affermatesi da un secolo e più, hanno ascoltato la voce del popolo, e quindi riconosciuto come interessi pubblici molte esigenze delle comunità gestite. Sono state quindi adottate norme che tutelano il lavoro, l’impresa, l’occupazione, lo sviluppo, le banche, l’ambiente, la salute, la sicurezza, e così via. Ognuno di questi riconoscimenti ha comportato l’istituzione di organi di tutela. Ma questo ha reso difficile l’azione dei governi, che sono costretti a trarre armonie coerenti da tante esigenze tra di loro in contraddizione, che producono piuttosto cacofonie. Spesso, quindi, l’azione dei governi è bloccata. Altre volte è rallentata.  Altre volte è incoerente. La conseguenza è una crescente insoddisfazione della stessa cittadinanza che era all’origine di tutte le domande sociali che sono state soddisfatte dalle democrazie. Per soddisfare tanti interessi collettivi, la democrazia finisce per lasciare tutti insoddisfatti del funzionamento della macchina. Insomma, le democrazie non hanno imparato a gestire la complessità.
A questo fattore interno se ne aggiunge un altro, anch’esso interno, quello dello sviluppo della componente populista della democrazia. Questo porta al predominio dell’“arte del guadagnare voti” sull’“arte del governare”: sono le parole con cui Luigi Einaudi, un quarto di secolo fa, riassumeva, in una prefazione, l’idea di fondo del libro di John F. Kennedy, “Ritratti del coraggio” (Roma, Arion, 2001). Anche questo è un risultato della maturità della democrazia. Nella prima parte del suo sviluppo, infatti, le democrazie potevano contare sulla dialettica popolo-classe dirigente. Successivamente, si è sviluppata l’idea che chi governa debba operare per delega dei “rappresentati” e che quindi è suo compito mettersi quotidianamente al loro ascolto. Questo fenomeno, che chiamiamo populismo, rende incerto l’andamento della democrazia e annulla la dialettica tra presente e futuro che è propria della democrazia, quella tra chi cura prevalentemente interessi immediati e chi, invece, guardando più lontano, riesce a sacrificare questi a favore degli interessi di più lungo periodo delle collettività amministrate.

 

Le sorti della democrazia

Crisi esterna-quantitativa e crisi interna-qualitativa debbono indurre a pensare che la vita delle democrazie moderne, quelle che hanno la loro origine nella “Glorious Revolution” inglese del 1688 e con la Dichiarazione di indipendenza americana di un secolo successivo, stia nella fase discendente del suo ciclo di vita? La risposta a questa domanda deve tener conto di un elemento positivo della democrazia, che gli altri regimi politici, specialmente quelli autocratici, non hanno: la capacità di correggersi, per l’esistenza di anticorpi che le democrazie posseggono e di cui gli altri regimi non dispongono. Mi riferisco, per esempio, alla pluralità di centri (ogni regime democratico è composto di più organismi democratici, i comuni, le regioni, lo Stato) e alla pluralità di organismi superiori che agiscono da freni e da promotori (mi riferisco ai circa 2000 regimi regolatori globali). Questi operano dall’interno e dall’esterno come forze incentivanti e frenanti che riescono a riportare le democrazie sulla giusta strada. Questa azione moderatrice opera per le democrazie, non per i regimi autoritari.

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