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Un mondo appeso all'asterisco. Reportage dalla Festa dell'Unità, pardon, dell'Unit*

Andrea Minuz

A Caracalla si cerca l’inclusività, ma si respira tanta nostalgia. Tra Berlinguer e Murgia. I giovani? Pochini, ma friggono indefessi. E’ la gastrocrazia, bellezza!

Siamo qui, nell’afa romana di luglio che non ti molla neanche alle nove di sera, intrappolati alla Festa dell’Unità con l’asterisco. C’è stato un problema di appuntamenti sbagliati, anticipi, ritardi e tanto valeva entrare, farsi un giro, vedere com’è questa nuova Festa, “con una veste completamente rinnovata”, la seconda dell’èra Schlein, la prima senza l’ultima vocale. Un programma succulento di eventi, dibattiti, dj set, cover band: “Un anno di Pd a Roma”; “Come la destra divide il paese”; “Salute mentale in un mondo ineguale”; “Contro lo strapotere del premierato”; “La medicina di genere”; “Una società giusta è possibile”; e poi il libro sugli “ecofascisti”, gli scritti su Gramsci di Mario Tronti, l’omaggio a Rino Gaetano, gli immancabili “forum periferie” e “lotta alle mafie”, un corto su Giacomo Matteotti, le partite dell’Italia finite però in anticipo, la proiezione dell’inchiesta di Fanpage sulla gioventù meloniana per apprezzarla anche su maxischermo, e la round-table “Roma Smart City ecosostenibile”, che suona un po’ come “Teheran città inclusiva”, ma è sempre giusto provarci. Questo asterisco però si è preso tutta la scena. Quindi polemiche, sfottò, meme, Salvini e Libero scatenati. “C’è l’asterisco ma anche l’accento”, dicono quelli del Pd romano, rincarando la dose, “e un accento sopra un asterisco rappresenta la massima inclusività sin qui immaginabile”, insomma una cosa che non s’era mai vista, altro che articoli su Rep. con la schwa. 


Questo asterisco si è preso tutta la scena. Polemiche, sfottò, meme. “C’è l’asterisco ma anche l’accento”, dicono dal Pd romano, rincarando la dose


L’anno scorso alla Festa dell’Unità di Bologna c’era lo stand “Barbie”, intesa come film con Margot Robbie, “simbolo di liberazione femminile, lotta al patriarcato, gender equality”, che nella Festa si traduceva in un bar gestito dai “giovani democratici reggiani” che facevano cocktail a tema. “Il film ha fatto riflettere molto sulle difficoltà delle donne nell’affrontare il mondo attuale”, diceva la segretaria Laura Arduini, “ci sembrava giusto lanciare questo messaggio con un bar dedicato”. Ma con l’asterisco si vola più alti. Volendo fare i guastafeste, l’asterisco su “unità” suona un po’ come l’asterisco su “popolo”, non è una cosa che arriva subito, si sente la forzatura, le unghie che grattano sulla lavagna dei diritti. Ma ci assicurano che l’inclusività ci guadagna. La Festa attira i giovani, i fluidi, i disamorati della politica, si smarca dal truce patriarcato meloniano e sintonizza il partito sulle culture war che contano. Anche “La condizione uman*” di Malraux, per dire, potrebbe con un asterisco finalmente parlare a chi si sente rettiliano, albero, concrezione di galassie, ruscello di montagna, cervo a primavera, supereroe Marvel. Però questo asterisco viola della Festa, ora che ce lo troviamo davanti, fa venire in mente più che altro la “primula” di Boeri, brand dei fatidici, costosissimi hub per le vaccinazioni coi pannelli fotovoltaici sul tetto, perché “bellezza ed emergenza devono coincidere”, diceva l’archistar. Stessa grafica, stessi colori: “L’Italia rinasce con un fiore”, la Festa dell’Unità con un asterisco alle Terme di Caracalla. 

 

Una sede ormai storica, questa di Caracalla, srotolata su una fettuccia di prato tra le meraviglie dei ruderi, strappata dopo una trattativa coi runner che qui si allenano anche di sera, incastonata tra Circo Massimo e il villone di Alberto Sordi, ora casa-museo, che sorveglia dall’alto. All’ingresso c’è poca gente. Impossibile quindi scampare alla richiesta di sottoscrizione, naturalmente a nostro buon cuore. Con molta sottoscrizione ci scapperebbe pure una t-shirt con su scritto “dalla stessa arte”, segno di una creatività diffusa tra sottrazioni di vocali e consonanti, ma decliniamo, “no grazie, come avessimo accettato”. Ci spiegano che “quest’anno è tornato il ristorante del partito”. E si sente. L’aria è impregnata del fumo denso di grigliate, spadellate, friggitrici in ebollizione. L’asterisco non cancella le salsicce, simbolo, icona, pilastro di ogni Festa dell’Unità che si rispetti. L’inclusività vale anche per le vecchie braciolate. A Roma poi non c’è traccia della svolta bio e vegana delle ultime “feste” di Bologna, col villaggio “Veganok”. Ma Bologna è da sempre “il laboratorio della Festa”. Stasera si commentano in diretta i risultati del voto francese con Marianna Madia e Beatrice Lorenzin sul palco e un maxischermo sintonizzato sulla diretta Sky alle loro spalle. Grande soddisfazione per il Front Populaire e l’exploit di Mélenchon, “abbiamo fermato le destre”, “la sinistra unita vince”, insomma prove tecniche di campo largo o larghissimo. “Dobbiamo essere uniti contro il premierato e contrastare le riforme costituzionali, uno sfregio alla nostra democrazia”. Impariamo dai francesi. “Questo è un messaggio chiaro, e anche un ripensamento delle politiche liberiste”, dice il moderatore mettendoci anche molte “b”. Sfilano immagini di Place de la République, sventolano alte le bandiere con la mezzaluna, stacchi pubblicitari, Elettra Lamborghini sculetta nel suo nuovo tormentone estivo. Però è ancora presto per festeggiare. Come si farà questo governo anti-Le Pen? Soprattutto perché questa gran voglia di destra in giro? Parte il dibattito. “L’estrema destra esiste per le tante ragioni che sappiamo”… “le destre fanno leva sulla paura”… “e noi sulla paura della destra”, dice bisbigliando all’amica una signora seduta accanto a noi, chiudendo il cerchio con un’analisi impeccabile. 


Il fumo denso di grigliate, spadellate, friggitrici in ebollizione. A Roma non c’è traccia della svolta bio e vegana delle ultime “feste” di Bologna


Anche il ristorante del Pd fa campo largo con tanti altri gazebo mangerecci ma è lontano. Prima si passa dagli stand. Ecco l’immancabile banchetto sudamericano con bandieroni cubani, gadget e souvenir della revolución, chupito, rum da discount, piatti, stoviglie e bicchieri col “Che”, ma anche bottiglioni di limoncello, vessilli di Bob Marley e variopinte camicie hawaiane. Poi uno stand con aspirapolveri in bella mostra e venditore in completo blu tipo “Folletto”, poi un gazebo della Lavazza, segno che il mercato non va demonizzato, poi lo spazio “arte militante” ma dentro non c’è niente, forse è un’installazione o una provocazione, vai a capire. Poi un piccolo tendone misterioso, da cartomanzia zingaresca o teatro dei burattini con Mangiafuoco, ma che invece invita a “immergerci nella realtà aumentata”, inquadrando un QR code col telefono. Nessuno sembra interessato, anzi è tutto molto “cringe”, come dicono i miei studenti, anche se la “realtà aumentata” l’hanno piazzata davanti allo stand dell’Anpi, pure lui triste, solitario y final. La fauna della Festa che ha già abbastanza problemi con lo Spid non è lì per queste stregonerie tecnologiche. Al massimo si va a sentire il dibattito sull’Intelligenza Artificiale con Padre Paolo Benanti. 

 

Molto apprezzato invece il video-totem che manda in loop immagini di repertorio di Berlinguer alternate a Michela Murgia che ritira premi in qualche Festival culturale. C’è anche lo spettacolo di Luca Telese, “La scorta di Enrico. Quando i supereroi lavoravano per il Pci”, che racconta “la drammatica morte del leader tra i più amati e rimpianti d’Italia, e “la storia di un popolo, quello della sinistra, che è in un certo senso la storia stessa del nostro paese”, perché negli anni Settanta eravamo tutti un po’ comunisti, anche quelli che non lo sapevano. Murgia-Berlinguer è il doppio omaggio incrociato di questa edizione. Uno spazio di raccoglimento, quasi di preghiera, tra il trambusto delle cucine, le anticaglie, le bancarelle, i biliardini sfasciati, l’eco di “dibbattiti” sul “fallimento delle politiche libberali” col microfono che fischia, la musica salsa sparata a tutto volume anche se nessuno balla. Siamo sempre lì, alla vecchia definizione di Moravia: “I festival dell’Unità hanno il vantaggio di combinare in sé tre idee di base: quella della festa cattolica, quella dei Soviet e quella del mercato”. Un tempo c’erano padri e madri che trascinavano i figli alla Festa come alla messa la domenica. L’educazione comunista aveva il crisma di ogni educazione religiosa, i suoi dogmi, i suoi rituali, e la Festa dell’Unità era un appuntamento immancabile. 


La combinazione di “tre idee di base: quella della festa cattolica, quella dei Soviet e quella del mercato”, diceva Alberto Moravia


Stasera qui di giovani se ne vedono pochini. L’età media è ampiamente sopra i cinquanta. Si vede che anche l’asterisco non basta. E anche quando alla Festa ci mettono le drag queen e “Discoinferno” c’è sempre qualcosa di vecchio e polveroso e anche un po’ triste che ci si appiccica sopra. Ma le Feste dell’Unità sono sopravvissute a tutto: all’invasione dell’Ungheria, alla primavera di Praga, al crollo del Muro, allo sgretolamento dell’Est, alla Bolognina, al Pds, a D’Alema, a Prodi, al Pd, al renzismo, alle Leopolde con Baricco e Jovanotti. Anzi fu proprio Renzi a rimetterle in moto col vecchio nome, dopo il tentativo di sostituirle con una “Festa del Partito democratico”, che suonava posticcia e la base la prese molto male, rispolverando pugni chiusi, canti partigiani, iconografie leniniste. Ma coi diritti Lgbtqia+ o senza, la Festa è ormai un luogo della memoria. Un viaggio nel tempo, come in quelle edizioni degli anni Novanta con gli stand della Ddr, i fumetti di Igort, le balalaike, i Cccp, la nostalgia sovietica, il mal di Russia. Una celebrazione di sentimenti perduti, cose passate, surclassata oramai dal Gay Pride. E infatti quei pochi giovani che si vedono sono per lo più volontari del Pd che lavorano negli stand. Così siamo pur sempre dentro una metafora del paese: pensionati che mangiano, giovani che lavorano gratis. 


La delusione tradita al “si può pagare con la carta?”. I volontari cantano l’Internazionale, ma francesi a festeggiare Mélenchon non ce ne sono


Nei miei sporadici ricordi di vecchie Feste dell’Unità frequentate per qualche triste concerto o chissà, c’erano molti stand con i libri. Nuovi, usati, discussi, presentati, naturalmente Einaudi, Editori Riuniti, Adelphi, il bestseller del momento messo accanto ai “Quaderni del carcere”. Le presentazioni di libri ci sono sempre, ma adesso il trip per il food domina su tutto il resto, in una nuova egemonia del fritto. Anche Berlinguer alla fine degli anni Settanta aveva capito il potenziale della ristorazione solidale, cinghia di trasmissione del partito: “Nelle nostre feste si mangia bene, si mangia sano, e a prezzi inferiori a quelli correnti”. Bisognava magari sorbirsi lo spettacolo di danzatori butoh, il teatro campesino, il collettivo teatrale ungherese, i canti di lotta e “tutto un discorso di riappropriazione e confronto critico con la produzione culturale più avanzata”, però si mangiava bene. Più di Masterchef, il Pci ha avuto quindi una funzione storica decisiva nella diffusione della gastrocrazia contemporanea, anche se Berlinguer non ci avrebbe mai messo lo stand col “wine tasting”. Scaturisce però dalle Feste dell’Unità l’ossessione per lo street-food, la sua rivisitazione glamour e fusion di piatti poveri, umili, il lirismo della frittura di calamari al cartoccio consumata sul tavolaccio di legno seduti sulle panchine solidali. Stasera però puntiamo su una più classica braciola. “Patate o cicoria?”, “patate, grazie”. Si può pagare con la carta? E su “carta” la ragazza alla cassa tradisce un po’ di delusione per me che sembravo una persona così a modo. Mi spiega che per pagare con la carta bisogna andare “dall’altra parte”, cioè negli altri stand. Così arriviamo in questo gazebo col pos, che è un’altra cucina dove si sfornano hamburger, hot-dog, patatine e grandi varietà di cocktail, con l’immancabile “Negroni sbagliato”. E’ uno stand gestito da ragazzi molto giovani, probabilmente volontari del Pd. Si muovono in pochi metri quadri senza mai scontrarsi. Non si trovano più i camerieri nelle pizzerie, ma il Pd riesce ancora a toccare le corde giuste e questi ragazzi accettano di friggere con un’afa pazzesca, si presume anche per una dedizione alla causa. E’ il loro piccolo contributo nella lotta contro le destre. Hanno comunque l’aria di divertirsi. Friggono con l’Internazionale in sottofondo. E mentre pago col pos qualcuno alza il volume, e i ragazzi, che indossano tutti una maglietta rossa con una scritta che non colgo, iniziano a cantare in coro, braccio in alto, pugno chiuso, hamburger sulla piastra, “l’ideale nostro al fine saràààà, l’internazionale futura umanitàààà...” mentre il pos invece non va, non subito almeno, ci mette un po’. E’ una scena che sembra collaudata. Non si sa con quanta autoironia spadellino i capitalistici hamburger e cantino l’Internazionale ma sono comunque ben sincronizzati. Forse è un numero che fanno tutte le sere, come i camerieri del “Crazy Pizza” di Briatore, che a un certo punto si bloccano tra i tavoli, fanno roteare le pizze in aria, e intonano in coro “Funiculì Funiculà”, come in preda all’anfetamina, e gli americani vanno in estasi. 

Alla Festa invece americani non se ne vedono. Siamo in pieno itinerario turistico romano (Caracalla, Circo Massimo, Massenzio) ma non ci sono stranieri. Neanche i francesi per festeggiare Mélenchon in diretta. Su un altro palco, ecco la cover band di Rino Gaetano che attacca gli strumenti. Tra chi suona e chi ascolta saranno in tutto venticinque persone. Del resto è anche tardi. Forse è meglio finirla qui, forse è meglio andare a casa a meditare un po’ sul campo largo.