L'editoriale del direttore
I paragoni che in Italia non reggono quando si dice Trump
Parallelismi spericolati, a destra e a sinistra, tra la parabola dell’ex presidente americano e quella di Giorgia Meloni. Per una seria ricerca dell’alternativa, al Pd converrebbe piuttosto abbracciare un campione di realtà chiamato Starmer
L’America è lontana, per fortuna, e non solo per il numero di proiettili che volano nell’aria. Le immagini del Trump ferito, sfuggito per un nulla a una pallottola potenzialmente letale, hanno spinto la destra italiana a manifestare solidarietà all’ex presidente americano attraverso l’utilizzo di un parallelismo spericolato. Il parallelismo è grossomodo questo: vedete, cari nemici, cosa succede quando demonizzate gli avversari? Succede che poi dalle parole si passa ai fatti. Il parallelismo utilizzato da alcuni ministri italiani offre l’occasione per riflettere attorno a un tema che va al di là della demonizzazione e che tocca punti interessanti. C’entra qualcosa la parabola di Donald Trump con quella di Giorgia Meloni? E ancora: è davvero una buona idea per la destra italiana suggerire questo parallelismo? E poi: può avere senso per l’opposizione italiana credere a questo parallelismo e provare a costruire un’alternativa alla destra italiana pensando che la destra italiana sia davvero una copia sbiadita della destra americana, modello Trump, e della destra francese, modello Le Pen?
E ancora: siamo sicuri che non ci sia per la sinistra italiana una strada diversa da quella della creazione di un muro politico ottuso, vuoto, fondato poco sulle idee e molto sull’algebra per creare un’alternativa al modello Meloni? Per provare a rispondere a questa domanda occorre spostarsi dagli Stati Uniti e sbarcare tra Londra e Parigi e occorre provare a mettere a fuoco quello che è successo nei giorni precedenti all’attentato americano. Sono passati pochi giorni dalla favolosa vittoria ottenuta da Keir Starmer alle elezioni inglesi e, nonostante la presenza in Europa di una sinistra clamorosamente vincente, l’attenzione dedicata al caso inglese da parte della poco vincente sinistra italiana è stata drammaticamente prossima allo zero.
Starmer imbarazza, naturalmente, perché indica una via, per il successo, che è più o meno opposta rispetto a quella suggerita dalla sinistra italiana, che vede Trump e Le Pen ovunque, anche dove non ci sono, e che a differenza di Starmer fa fatica a dirsi pienamente a favore di Kyiv, costi quel che costi, e che a differenza di Starmer fa fatica a considerare i voti moderati, o anche quelli di destra, come un bacino a cui guardare, forti di una convinzione inossidabile che suona grosso modo così: non perdiamo tempo a parlare agli elettori non di sinistra, non sporchiamoci le mani, e ricordiamoci che l’unico modo per vincere è trasformare gli avversari in demoni (Trump e Le Pen ovunque) e cercare di offrire agli elettori un muro per fermarli. Meglio l’algebra, stiamo tutti unite, che le idee: che fare? E dunque meglio il fronte anti Le Pen che il modello Starmer.
Certo, lo sappiamo, forse non si può chiedere al Pd di Elly Schlein di trasformare Starmer nel proprio modello politico. Ma si può provare a indicare a Schlein, nella stagione delle grandi isterie politiche, una strada nuova per provare a conquistare consenso senza dover necessariamente demonizzare gli avversari, senza puntare tutto sull’essere diversi rispetto ai propri nemici, senza dover seguire necessariamente l’agenda Tafazzi. Nel caso specifico, per quanto riguarda l’Italia, per quanto riguarda la sinistra, l’agenda Tafazzi è costituita da un insieme di battaglie politiche che il Pd ha scelto rocambolescamente di combattere negli ultimi mesi andando a fare a cazzotti contro la propria storia e in parte contro la propria identità. Cercare un elemento di discontinuità rispetto al passato del partito che si guida è naturale quando si cerca di incarnare una qualche forma di leadership innovativa. Ma farlo in modo pressoché sistematico alla lunga può rivelarsi autolesionista. Tafazziano, appunto. Piccoli esempi, prima di ritornare al filo rosso della demonizzazione.
Tafazziano è il caso, per esempio, del Jobs Act, una delle riforme più importanti e più di successo portate a termine nel passato dal Pd, che oggi il nuovo Pd vorrebbe abolire attraverso il referendum. Tafazziano è il caso, per esempio, del premierato, che per molti anni è stato una bandiera della sinistra riformista e che oggi la sinistra osteggia senza essere riuscita a trovare solidi argomenti per spiegarne il motivo. Tafazziano, ancora, è il caso dei provvedimenti sulla giustizia promossi, annunciati ed evocati da Carlo Nordio, molti dei quali coincidono con battaglie politiche promosse dal Pd nel passato: pensate alla separazione delle carriere, al centro persino di una mozione congressuale del Pd nel 2019, e pensate anche alla riforma dell’abuso d’ufficio, che è stata chiesta a Nordio da molti sindaci del Pd.
L’elenco delle riforme di sinistra regalate dalla sinistra alla destra potrebbe essere ancora molto più lungo, e a tutto questo si potrebbe aggiungere il modo incredibile con cui la sinistra antifascista ha regalato alla destra postfascista una clamorosa battaglia antifascista come è quella della difesa dell’Ucraina dalla minaccia della Russia fascista. Ma più che gigioneggiare con le contraddizioni del Pd di Schlein, ciò che è utile evidenziare è il numero di battaglie politiche potenzialmente di successo che la sinistra italiana avrebbe di fronte su terreni che la leader del Pd finora ha scelto misteriosamente di non presidiare, finendo per regalare alla destra meloniana le occasioni utili per consolidare ulteriormente il suo consenso. Battaglie non solo di perfetto buon senso, ma anche incredibilmente trasversali, con le quali il Pd, senza dover necessariamente copiare Starmer, potrebbe tentare un’operazione che a Starmer è riuscita benissimo: provare a conquistare anche gli elettori non di sinistra senza correre il rischio di snaturarsi e senza passare le proprie giornate a inseguire fantasmi che in Italia, a differenza che in Francia e in America, per fortuna non ci sono.
E’ persino ovvio dire che la sinistra avrebbe di fronte a sé uno spazio d’azione incredibile sul tema della giustizia, sul tema della difesa del garantismo, sul tema della tutela dello stato di diritto, sul tema della lotta contro il populismo penale. Ma per ragioni misteriose, spiegabili solo con la volontà da parte di Schlein di non indispettire la sinistra grillina, il Pd ha scelto di trasformare il garantismo in una battaglia di destra, e così facendo ha scelto di spingere lontano dal Pd un pezzo di elettorato che considera la battaglia per una giustizia giusta la madre di ogni battaglia politica. Sulla giustizia, il Pd, senza snaturarsi, avrebbe una prateria, basterebbe chiedere sul tema una consulenza gratuita all’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Ma una prateria il Pd l’avrebbe anche andando a presidiare altri temi su cui la destra semplicemente non riesce a toccare palla.
Piuttosto che ricordare ogni giorno quanto l’Italia, con Meloni, sarebbe caduta nel buco nero del fascismo, o del trumpismo, se invochi il lupo quando il lupo non c’è il giorno in cui arriverà il lupo nessuno ti crederà più, il Pd potrebbe tentare di sfidare Meloni in alcune grandi battaglie che riguardano il nostro futuro, rimproverando per esempio la presidente del Consiglio per la timidezza (eufemismo) con cui il governo si muove sull’innovazione, sulla concorrenza, sulla produttività, sul consolidamento del sistema industriale. La sinistra modello Schlein, purtroppo, tende a occuparsi della redistribuzione della torta senza pensare alla creazione della torta. Ma l’esempio di Starmer è lì a dirci che la sinistra può provare a conquistare voti anche investendo forte su una parola al momento tabù nel vocabolario di Schlein: crescita.
Non c’è crescita duratura senza combattere con tutti i mezzi a disposizione per far uscire l’Italia dalla sua inerzia sulla ricerca e lo sviluppo (l’Italia dedica a questo comparto l’1,6 per cento del pil, la media europea è quasi di un punto superiore). Non c’è crescita duratura senza combattere le inefficienze del paese (e non si capisce come faccia la sinistra a non far sua la battaglia sulla concorrenza, dai taxi in giù, e non si capisce come faccia la sinistra a ignorare il fatto che il modo migliore per combattere le diseguaglianze è combattere le rendite di posizione). Non c’è crescita duratura senza martellare sull’incapacità del governo di occuparsi della crescita del capitale umano (gli investitori che osservano l’Italia con sospetto lo fanno anche perché quando guardano i dati Pisa, i dati sulle performance degli studenti italiani, si pongono domande legittime sulla qualità del capitale umano del nostro paese). Non c’è crescita duratura senza avere l’ossessione dei salari e dunque della produttività (si può chiedere quanto si vuole alle aziende e ai padroni di migliorare i salari ma non si può non capire che il modo più veloce per aumentare i salari è legarli all’aumento della produttività). E non c’è crescita duratura del paese (e anche dei salari) senza lavorare affinché la politica aiuti le aziende a internazionalizzarsi, a diventare più grandi, a trasformare la globalizzazione non in uno spauracchio ma in una grande opportunità per creare ricchezza, lavoro, benessere (i salari sono più alti nei paesi dove abbondano le grandi società, e per provare ad avere salari più alti occorrerebbe superare anche la retorica del piccolo è bello).
L’esempio di Starmer può trasmettere molti stimoli, può offrire molti spunti di riflessione, ma quello più interessante riguarda una scelta di campo che si pone per il Pd: provare a costruire un’alternativa di governo puntando solo sull’algebra (campo largo), puntando solo sui diritti (minacciati solo a parole), puntando solo sulla sanità (con idee molto confuse, con progetti molto costosi e con proposte fuori dalla realtà), puntando solo sulla minaccia fascista (senza pensare ai veri fascismi del presente), puntando solo sulla negazione di ciò che è stato il Pd nel passato (agenda Tafazzi), o provare a costruire un’alternativa vera, popolare, trasversale sfidando Meloni in una battaglia dove il governo soffre terribilmente, che è quella per avere un’Italia più giusta, più efficiente, più ricca, più innovativa, più competitiva, con meno barriere all’ingresso e dunque meno diseguale? L’America è lontana, per fortuna, ed è lontana anche la Francia. E se la sinistra italiana continuerà a trattare Meloni come se fosse una figlia di Trump o una cugina di Le Pen non farà altro che fare un regalo a chi vorrebbe combattere politicamente. E non farà altro che lavorare a un’alternativa politica che invece di essere ben piantata con i piedi nella realtà rischia di essere ben piantata con i piedi su Marte. L’America è lontana, per fortuna, e non solo per il numero di proiettili che volano nell’aria. Vale la pena ricordarlo a tutti. Sia a chi, dal governo, tenta di creare parallelismi ridicoli fra Trump e Meloni. Sia a chi, dall’opposizione, creando parallelismi altrettanti ridicoli fra Trump e Meloni non sta facendo altro che lavorare per garantire lunga vita politica all’avversario che si vorrebbe combattere.
E in attesa di capire chi sarà l’alternativa a Trump in America, in attesa di capire chi sarà l’alternativa a Le Pen in Francia, varrebbe la pena a sinistra scendere da Marte e abbracciare con fretta un campione che ha dimostrato come si possono conquistare voti senza rincorrere farfalle, senza demonizzare gli avversari, senza scappare dalla realtà. Viva Keir Starmer.