Parenti d'Italia. Viaggio nella consanguineità di Fratelli d'Italia

Simone Canettieri

Tra romanticismo, endogamia  e comunità di destino. Così Giorgia Meloni ha creato un partito chiuso e unito, con  una fitta rete di legami extrapolitici e famigliari anche nelle istituzioni. Con alcuni limiti evidenti  

La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma forse di famiglia sì. Sorelle e cognati, mogli e mariti, figli e nipoti, compagne e fidanzati, cugini di ogni ordine e grado, padri e madri, nonni e zii, magari anche d’America. Sono i parenti d’Italia, ovvio. Risposta sanguigna, muscolare e sfacciata alla deplorata egemonia dell’“amichettismo” de sinistra. Mai nella storia della Repubblica così tanti presidenti del Consiglio, ministri, sottosegretari, parlamentari, eurodeputati, consiglieri e assessori regionali, finanche consiglieri comunali, si sono trovati tutti, nello stesso momento, al potere. Al centro come nelle periferie dell’impero. Tutti legati fra loro da un vincolo extrapolitico. Un romanzo popolare arcitaliano che regala ogni giorno un nuovo capitolo. E puntualmente rivendicato, mento all’insù, nel nome dell’ancestrale militanza che evidentemente deve essere meglio della misticanza. “Embè?”. Risulta così quasi beffardo, profetico e gioioso il nome del partito in cui tutto questo è norma e fluidità, luogo comune e punto di forza: Fratelli d’Italia.

Una selezione della classe dirigente che può trasformare l’albero genealogico in quello della cuccagna. Il riconoscimento di una vita di sacrifici, ma anche il “premio fedeltà”, come la trasmissione di Radio Deejay. La storia – meglio: la cronaca – sono loro.

A mettere insieme prime donne, protagonisti, secondi attori, comparse e maschere sono tanti, tantissimi. Un clan – nell’accezione politica del termine – senza eguali. E vincente, per quanto anomalo.

Succede da sempre in questa ultradecennale ramificata “comunità di destino”, solo che ora fa notizia o comunque è un notevole dettaglio del tempo. Hai voglia tutte le volte a tirare fuori la famiglia Franceschini, il senatore (ministro ad honorem) Dario e la moglie deputata Michela Di Biase del Pd (nata e cresciuta politicamente però nel quartiere periferico romano dell’Alessandrino). O quella di Sinistra italiana, mini condominio abitato nell’attico dall’onorevole coppia Fratoianni & Piccolotti (l’operazione Salis pare sia nata nel loro tinello, dicono ridendo da Si, mentre “Nick il rosso” lavava i piatti, facendo strame del patriarcato). O ancora: ci sarebbero pure i grillini Riccardo Ricciardi e Gilda Sportiello, compagni in due Camere, dei deputati e del soggiorno, con tanto di pargolo. Senza affondare gli stivali nel Ventennio, storie e vite simili ci sono sempre state. Con casi ben più famosi e “scandalosi” per l’epoca, si dirà. Il fatto è che qui, questa volta, sono davvero assai. Razza padrona.

Dalle parti della “Fiamma magica”, che governa e prospera nel paese, si registra una certa sistematicità di questo fenomeno. Sembra quasi una regola tribale d’ingaggio. A Roma, compound meloniano, la mettono così: semo cresciuti insieme. Un’endogamia nelle istituzioni che parte e si rispecchia nel partito, avanti e indietro come un elastico.  La prima forza d’Italia anche con l’ultima tornata di congressi locali ha perpetrato logiche un po’ di vassallaggio e molto di appartenenza senza mai aprirsi – nonostante il boom di iscritti  – a nuove culture politiche nei ruoli che contano. Sempre loro, solo loro. D’altronde, aggiungerebbe Corrado Guzzanti: “Aborigeno, io e te ma che se dovemo di’?”. 

Eppure, mercoledì scorso, sul Corriere in un editoriale adamantino, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che Meloni dovrebbe aprirsi agli  indipendenti di destra e che sostituire l’amichettismo di sinistra con il proprio circoletto non serve a costruire un’egemonia politica. Anzi, a volte può avere esiti disastrosi (si pensi alla Rai dove l’amichettismo de destra, eccetto rari casi, sta facendo danni con la pala).

Figurarsi legittimare minoranze interne che da statuto sembrano non essere contemplate: niente si può scalare, mettere in discussione, ma solo continuare.

E comunque si può sempre fare un gioco: cercate e contate le interviste in disaccordo o lievemente critiche con la linea del partito, dunque del governo, uscite sui media in questa legislatura. Spoiler: zero. Nemmeno le mezze frasi rubacchiate nei corridoi del Transatlantico dai cronisti più svelti: nisba. Al massimo sono stati carpiti eccessi fantozziani di zelo. D’altronde, la storia di dove lavare i panni sporchi è nota.

 

Arianna Meloni è al vertice di FdI. Il suo cellulare è tra i più influenti d’Italia. La premier: “Potevo metterla in una partecipata di stato, l’ho messa a lavorare nel partito mio”

 

E dunque la sera uscivamo a Colle Oppio, culla-cripta del tutto meloniano con vista sul Colosseo? Sì certo, va bene, ma non solo. La storia, ripetuta tutte le volte con più o meno convinzione e con sbalzi di epos e pathos, è sempre la stessa: eravamo giovanissimi, poi una piccola corrente di An, non contavamo un’acca, vivevamo di politica e manifesti affissi dalla mattina alla sera con coraggio e visione, emarginati nelle università e fuori dai salotti, ma alla fine la sera non si poteva vivere solo di politica…

Logiche normali in una polisportiva, ma di sicuro inedite nel panorama italiano. Che diventano prassi, e sì, modus vivendi, in una formazione che ormai è conclamata e acclamata forza di governo dall’ottobre del 2022. Ed è subito la “mejo gioventù”. Quella dei campi base, quella del romanticismo e, certo, di Tolkien.

Senza scandali né furori luciferini è solo un dato di fatto su cui ragionare. Si dirà: non che siano state migliori le manciate di clic in rete servite a miracolare sconosciuti scappati di casa, ovvio. O finire in Parlamento cooptati dal Sultano, chiaro. Così come le secolari logiche da “Terrazza” o da sacrestia. Si scrisse di quelli, si registrano questi. Qual è il problema?

E comunque qui si sta alla finestra a osservare una grande saga italiana: Dio, patria e (molta) famiglia (a cui tenere, aggiungono i birichini). Una circostanza ormai talmente stressata dalle minute cronache paraparlamentari da diventare un meme politico e un grande “embè? Si sa! Perché riscrivere questa storia? Si vede che è estate, eh”. In queste risposte annoiate finite nel taccuino ci sono l’accettazione, la giustificazione e l’ammissione di una pratica ormai consolidata, dopo due anni di governo e svariate elezioni – amministrative, regionali ed europee e ancora amministrative – alle spalle.  Basta però aspettare e un nuovo grano si aggiunge al rosario. Sempre.

Dicono quelli bravi che “l’origine” è una vecchia ossessione di tutte le destre sovraniste europee. Un modo per essere sospettosi, per principio, verso “lo straniero” o colui che viene dall’esterno (Marine Le Pen è la figlia di Jean Marie, ha una nipote in politica con la quale si è ricongiunta, Marion Maréchal sposata con l’ex eurodeputato di FdI Vincenzo Sofo, ha candidato la sorella Marie Caroline alle politiche e perfino l’enfant prodige del Rassemblement national Jordan Bardella è stato fidanzato con una delle sue nipoti per diversi anni). Non a caso, una delle frasi più ricorrenti della premier italiana, forse anche a ragione, è: “Sì, ok è bravo, ma non lo conosco: mi posso fidare?”.

Il risultato dell’ordalia è quasi sempre scontato. E si ritorna al dilemma amletico esplicitato da Salvatore Merlo su questo giornale: “Meloni deve passare dalla fase ‘è un cretino ma è mio amico’ alla fase ‘è un amico ma è un cretino’”.

Piccolo prologo, ma anche apologo. Lo scorso 4 gennaio a Roma si celebrò l’ultima conferenza stampa della premier e presidente di FdI, Meloni, la capa. Da quel giorno, siamo a luglio inoltrato, la presidente del Consiglio non ha più organizzato un evento simile con i giornalisti italiani, nemmeno dopo fatali Consigli dei ministri. Eccezion fatta per i rapidi “mischioni” – tecnicamente si chiamano doorstep – a Bruxelles a margine dei Consigli europei o a Washington per il vertice Nato  (in cui, di norma, risponde a chi vuole, assalita da una selva eccitata di voci e telecamere che la reclama) e per quella canonica alla fine del G7, in Puglia, con i cronisti di tutto il mondo. Bene, in quell’occasione di sei mesi fa, negli annali del 2024, il Foglio domandò letterale: “Buongiorno, presidente, il caso Pozzolo (il deputato che si presentò con una pistola a un veglione di Capodanno e da cui partì un colpo che ferì una persona) mette in luce un problema di classe dirigente nel suo partito che, nonostante ottimi sondaggi, sembra ancora conservare la struttura di quando era al 4 per cento, quasi a conduzione familiare: in prospettiva, crede sia necessario allargare il suo partito alle forze migliori del paese e magari di archiviare la Fiamma dal simbolo dopo le europee?”. Passi per la coda della seconda domanda evasa, Meloni ammise di voler rappresentare sempre più cittadini e di voler allargare la sua classe dirigente. E alla fine si disse “stufa” delle accuse di familismo. Dunque portò un esempio, a suo dire, fattuale. Era una domanda che si aspettava, dopo i minuziosi carotaggi dello staff nei giorni precedenti nelle redazioni. Così rispose la premier, tutta d’un fiato: “Nell’attuale legislatura ci sono due coppie di coniugi, entrambe a sinistra: nel Pd e in Sinistra italiana. In quest’ultimo partito c’è un gruppo di otto persone e quindi queste due persone fanno circa il 25 per cento del gruppo. Non ho mai sentito l’accusa di familismo nei loro confronti. E sarebbe sbagliata. Perché chi milita, chi fa politica spesso sa che diventa tanto altro e che le persone che fanno politica con te diventano anche i tuoi amici, i tuoi fidanzati, tuo marito e tua moglie. Ma questo non può togliere il valore di un militante politico. E, come è normale per le persone di cui sto parlando, non accetto che si faccia con me. Mia sorella è una militante, da trent’anni lavora in Fratelli d’Italia. Ha ragione – rispose rivolta al cronista con un tono che preludeva la stoccata – forse potevo metterla in una partecipata, ma non me la sono sentita e l’ho messa a lavorare nel partito mio”.

Rewind, ultima frase: l’ho messa a lavorare nel partito mio, proprio così disse Meloni. Basta riascoltare, si ritrova tutto su YouTube. E allora, senza mettere in discussione l’assoluta capacità di tutti i quadri di FdI che hanno solo la “colpa” di aver marciato insieme, uniti come una testuggine, in questi anni duri e tempestosi di opposizione e ghetto, eccone una rapida carrellata. Che tanto rapida, nomi e cognomi alla mano, non è. 

   

Arianna Meloni con il compagno Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura. In prima pagina, Giorgia Meloni nel 2003, quand’era dirigente nazionale di Azione Giovani (foto Ansa)
     

Prima gli elefanti nella stanza. Arianna Meloni, la sorella d’Italia. Nata sotto il segno dei Gemelli, 49 anni, due più di Giorgia, accompagnati da cinque centimetri in più che la fanno svettare. Dallo scorso agosto è responsabile della segreteria politica di FdI, oltre che del tesseramento. Potente, ma con un tocco pop-schietto-rivendicativo che la rende empatica come la sorella underdog. Arianna ha un filo: tiene sempre con sé, legato con un cordino tricolore, uno dei cellulari più influenti del paese. Da quello smartphone passa tutto o quasi: nomine, lamentele interne, soluzioni nel partito e nel governo, ricerche di protezione, la ristrutturazione della sede di via della Scrofa, piccole vendette e grandi sospetti, oltre a una serie sterminata, quando l’affare si ingrossa, di “ne parlerò con Giorgia, ho capito, baci”.

   

Il familismo come vanto: risposta all’amichettismo Arianna Meloni è la compagna di Lollobrigida, “nato parente”. Il fratello del ministro Ciriani  è stato candidato alle europee. Così come il nipote di Guido Crosetto. Ignazio La Russa è un albero genealogico che va dall’Aci al Pirellone fino alla Camera e al Senato

         

Arianna Meloni, che spesso occupa la stanza della sorella-presidente che fu di Giorgio Almirante ai tempi del Msi e di Gianfranco Fini in quelli di An prima della bancarotta politica, da oltre vent’anni è la compagna – “con normali alti e bassi”, raccontano dalla corte dove si vive anche di sapidi pettegolezzi – di Francesco Lollobrigida. Attenzione: Lollo è Lollo. E’ il ministro della Sovranità alimentare e capo delegazione di FdI al governo. Scaltro, sfacciato, agile, stratega, polemista con licenza di gaffe, guascone. Insostituibile a prima vista. Ha iniziato facendo il consigliere provinciale con Giorgia Meloni. La coppia ha due figlie: Rachele e Vittoria. Si conobbero alle “feste dei rioni” organizzate dalla sezione di Colle Oppio, quando davvero la fiamma ardeva – gratis – la passione politica di questi ragazzi.

Bene, bastano loro tre a far cadere il governo, decidere un rimpasto, nominare l’ad di un’azienda di stato. Giorgia, Ari e Lollo. Questa è la piramide. Così nota da passare ormai per noiosa. Quando la si racconta a un parlamentare la risposta è sempre: “Embè?. E allora il Pd? A proposito: devo rispondere ad Ari”.

Tuttavia, anche la squadra di governo può dare soddisfazioni.

Il ministro per i Rapporti con il Parlamento è Luca Ciriani da Pordenone, già capogruppo in Senato nella passata legislatura, prima di aver ricoperto anche l’incarico di consigliere regionale e di vicepresidente della regione Friuli Venezia Giulia. Gavetta a destra, dal Msi a salire, di curva in curva, con le piccole svolte, evitando le buche più dure. Il ministro Ciriani, uomo di lettere con voce piana, ha un fratello di tre anni più piccolo. Si chiama Alessandro: è stato presidente della provincia di Pordenone poi sindaco di Pordenone per otto anni fino allo scorso giugno. Quando Ciriani jr è stato eletto europarlamentare di Fratelli d’Italia nella circoscrizione nord-est con 43.965 preferenze.

Un fratello chiama un nipote come nel caso di Giovanni Crosetto, classe 1990, eletto a Strasburgo un mese fa (indovinate con quale partito) con una dote personale di 33.964 voti. Già capogruppo di FdI nel Comune di Torino (1002 preferenze) è il nipote di Guido, ministro della Difesa, cofondatore di FdI, anima liberal e non intruppata di un partito un po’ caserma e animato da un pensiero magico. Pare che gli stia un po’ sul gozzo l’area - non chiamatela corrente - vicina a Giovanni Donzelli, capo dell’organizzazione di FdI, homus totus machina.  Guido è l’unico - raccontano cronache a cui fare la tara in questo pissi pissi - in grado di sostenere liti accese con “il presidente” del Consiglio senza finire su un aereo per le Filippine con un biglietto di sola andata. E’ l’unico a dirle e a scriverle, in privato, “cara Giorgia, ti stai sbagliando”. 

Ecco, Meloni voleva candidarlo alle europee, per poi proporlo, magari, come commissario alla Difesa. Lei glielo chiese, lui ci pensò e alla fine disse di no. Il sostituto vagheggiato in quelle ore fu Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, ma al di là della qualità del ripiego tutta da testare, la mossa non avrebbe entusiasmato il Quirinale: non è prassi. E così, si può immaginare il piano B andato in gol: c’è mio nipote, è bravo, sveglio, fa già politica, è laureato in Economia e commercio, e si chiama come me. Preso. In questo turbinio di “Mariti e mogli”, tipo film di Woody Allen, appena si formò il governo uscì fuori la storia che il silente (dote non banale) ministro della Sanità Orazio Schillaci, già rettore dell’Università di Tor Vergata, fosse il cugino di seconda grado acquisito di Lollobrigida, e cioè del politico “nato parente” (come ebbe a dire egli stesso a questo giornale con una fulminante battuta ricordando il cognome che lo legava alla Lollo nazionale, la star Gina da poco scomparsa, nipote del fratello del suo bisnonno). Fu una di quelle notizie ritenute verosimili. Siamo andati a cercare conferme: “Tendiamo a escluderlo, ma possiamo informarci, questa però non l’abbiamo mai sentita”, dicono i dirigenti del ministero con la curiosità di chi fa gli album delle figurine Panini: “Ah, questa ci manca”. Come, restando sempre nello spettro del governo, in tanti segnalano la presenza (è una minuzia) nel gabinetto di Palazzo Chigi, via Ente nazionale del turismo, di Silvia Cavallari, figlia della ministra della Famiglia (giustamente) Eugenia Roccella, personalità poliedrica con storia e pedigree fuori dall’ordinario da raccontare e contenuto nel bel libro "Una famiglia radicale”. Poi, certo, c’è la famiglia missina. Quella della seconda carica dello stato, all’anagrafe Ignazio Benito Maria La Russa. Lo zio di FdI. Tutto abbastanza noto: è figlio dell’avvocato e parlamentare Antonino da Regalna (Paternò) trapiantato poi a Milano. Una gens che ha attraversato, con un armamentario ideologico-fattuale abbastanza appuntino per offendere e difendersi, tutto il Novecento: dal Pnf, al Msi, poi Fiuggi, An, Pdl e FdI. La Russa appare nel 1972 in “Sbatti il mostro in prima pagina” nella Milano di falci, martelli, spranghe, rasoi e un sacco di botte con tanti ragazzi rimasti per terra senza più rialzarsi. E’ il presidente spettinato del Senato. Ha un fratello, Romano (come il saluto che ogni tanto gli scappa: ops): dal 2022 è assessore regionale alla Sicurezza in Lombardia, regno politico della famiglia di avvocati. La figlia di Romano e nipote di Ignazio, Mariacristina La Russa, è sposata con Marco Osnato, deputato di FdI alla seconda legislatura, quindi da considerarsi influente. Attualmente è presidente della commissione Finanze della Camera. Uno dei figli del presidente del Senato, invece, è  Geronimo Antonino. E’ il presidente dell’Aci di Milano, nominato da questo governo (dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: niente fischi, please) nel cda del teatro Piccolo di Milano, fondato il 14 maggio 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi con “il desiderio di dare vita a un teatro inteso come servizio pubblico: un’istituzione necessaria e a vantaggio di tutta la cittadinanza”, si legge nel sito del Piccolo. Geronimo, che l’altro giorno stava al ristorante di Palazzo Madama in compagnia del fiero papà, riverito dai commensali e dai camerieri come fosse un ministro, lo fa a titolo gratuito. Giorgia Meloni a domanda sull’opportunità di questa nomina, a margine di un’iniziativa, rispose così alle telecamere di “Piazzapulita”: “Non conosco la vicenda e il modo con cui questa è accaduta: conosco Geronimo per aver fatto diverse cose nella sua vita e tendenzialmente non per indicazione del padre. Dopodiché capisco che possa generare delle polemiche, ma penso anche che le persone debbano avere delle possibilità indipendentemente dal cognome che portano. Altrimenti tutti quelli che hanno un cognome affine a un politico e magari lavorano nelle partecipate statali sono arrivate in quei posti per raccomandazione, no?”. Tiè, prendi, incarta e porta a casa. Forse è anche complicato darle torto visti i cartellini fuori dalle stanze degli uffici di Leonardo, Eni, Enel, Fincantieri… Ma certi andazzi non dovevano finire?

Lo “zio Ignazio” è la seconda carica dello stato in quota FdI. La quinta tecnicamente è ricoperta da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera. Ex olimpionico di nuoto, ideologo e architetto del nucleo fondante romano e non solo, gabbiano maximum, da cui tutto è nato – o quasi – ha due sorelle. Una di queste, Manuela, è la moglie di Marco Scurria, lunga gavetta iniziata con gli universitari di destra, europarlamentare ai tempi del Pdl nel 2009 e ora senatore, da poco nominato vicepresidente del gruppo in virtù degli accordi raggiunti da Rampelli e Arianna Meloni durante il congresso di Roma (vinto senza avversari da Marco Perissa, onorevole, svelto nonché cocco della sorella della premier, dopo il ritiro del gabbiano Marco Milani, diventato vice di Donzelli all’organizzazione). Tutto parte da Colle Oppio, rifugio di esuli e prima sede del Msi, attualmente l’Ena italiana (sic). Insomma, non se ne esce.

     

Il Congresso nazionale di Fratelli d'Italia del 2017 (foto Ansa)
        

Altro che tessera di partito, servirebbero le analisi del sangue. Quando il governo Meloni decise di mettere le mani sull’Istituto superiore della sanità, sostituì Silvio Brusaferro con Rocco Bellantone, direttore del centro dipartimentale di chirurgia endocrina e dell’obesità del Gemelli e già preside della facoltà di medicina. Titoli in regola, lecito spoils system, ma spuntò fuori che era anche  il cugino di Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, genio della lampada del melonismo. Uomo centrale e ruvido, c’è chi dice geniale e c’è chi dice esiziale, del governo. “E’ mio cugino di terzo grado”, disse “Fazzo”. “L’avrò visto tre volte”, aggiunse il neo presidente dell’Iss. Più diretto - evviva la sincerità - è stato Edmondo Cirielli, ras del partito in Campania e viceministro degli Esteri, che non ha battuto ciglio quando un paio di settimane fa il Consiglio dei ministri ha nominato la compagna, Maria Rosaria Campitiello, a capo del dipartimento prevenzione ed emergenze sanitarie del ministero della Salute, guidato da Schillaci. E’ piccola, grande storia dell’ascesa di un’ottima ginecologa, con curriculum ineccepibile, dalla Asl di Salerno ai vertici della prevenzione sanitaria di un paese del G7 (in caso di ritorno di una pandemia, scongiuri ben accetti, le decisioni tecniche passerebbero da lei).

Altri sottosegretari in famiglia: la viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci ha un marito psicologo e da lungo tempo esperto di lotta alle tossicodipendenze: un’attività da far valere anche nel dipartimento tematico di Palazzo Chigi. I maligni dicono che la nomina governativa sia arrivata quando Bellucci ha lasciato l’area di Rampelli (non chiamatela corrente: vi aspetta sotto casa) per andare dannunzianamente “verso la vita”, cioè le sorelle Fiamma).

Andrea Del Mastro, sottosegretario alla Giustizia, figlio d’arte nonché generazione Atreju, ha una sorella: Francesca. E’ la sindaca di Rosazza, comune del Biellese, passato alle cronache per il veglione di Capodanno con Pozzolo. La moglie di Pozzolo, Martina Miazzone, è stata consigliere comunale di FdI nel comune di Vercelli.

Il Piemonte, così lontano dal Palazzo di Roma, è un caso da studiare. Per esempio, c’è il senatore novarese Gaetano Nastri che alle ultime regionali ha infilato nel listino bloccato la compagna Daniela Cameroni. Oppure, ecco il deputato e coordinatore regionale del partito Fabrizio Comba. Il quale, sempre alle regionali, ha messo in campo il secondogenito Emanuele, che però è rimasto fuori. Così come l’attuale capogruppo meloniano nel comune di Cuneo Massimo Garnero, fratello della ministra Daniela Santanchè: è stato in lizza fino all’ultimo per correre, ma è arrivato, pare, lo stop da Via della Scrofa. Open to famiglia? Quasi.

E’ stato eletto in consiglio, invece, Ravello Roberto detto Revello detto Ravallo: già assessore della giunta Cota, è il marito della senatrice Paola Ambrogio. Il Piemonte, specie Torino, è anche il regno di Augusta Montaruli, sottosegretaria per una manciata di giorni, membro della vigilanza Rai, cresciuta a pane e Atreju, classificata come donzelliana nell’entomologia maligna e minima di FdI ma in verità molto legata a Meloni dai tempi di Azione giovani. E’ l’ex moglie di Maurizio Marrone, incontrato ancora liceale durante un volantinaggio, solido dirigente locale e ora assessore regionale. Al loro matrimonio era presente anche Meloni: Augusta regalò a Giorgia una coppia di orecchini uguali a quelli indossati il giorno del fatidico sì. “Ancora li porta: sono tra i suoi preferiti”. E’ sottosegretaria con cognome di peso Isabella Rauti, figlia di Pino. Un giorno, per avere definito il padre ordinovista, Isabella ci inviò il seguente cortese ma dritto messaggio: “Fidati. Quando scrivi Pino Rauti basta il nome. La riduzione alla sola parola ‘ordinovista’ è giornalismo fazioso o disinformato. Ma per quest’ultimo c’è sempre Wikipedia…”. Al di là di una lunghissima militanza, è stata anche la moglie di Gianni Alemanno (ex sindaco di Roma, ex ministro, ex colonnello di An) la cui sorella, Gabriella, è stata nominata da questo governo commissario della Consob. La nuova moglie di Alemanno, la giornalista e avvocato Silvia Cirocchi, è la portavoce del ministro del Mare (di FdI) Nello Musumeci.

E’ nipote di Mirko – il primo ex repubblichino diventato ministro – Andrea Tremaglia, 37 anni, deputato al primo giro, e figlio d’arte. Il nonno, che tanto si spese per il riconoscimento dei diritti degli italiani all’estero senza mai rinnegare né voler restaurare, ebbe una vita densa e a tratti unica. Tanto da solleticare il genio di Federico Fellini quando lo conobbe: “Tremaglia, lei merita un film”.

E’ tutto un pissi pissi, è tutto un ma lo sai di chi è figlia? Qua e là, a volo d’uccello, fra gli scranni del Parlamento spunta così Lucrezia Mantovani, milanese, figlia di Mario Mantovani, già eurodeputato (due volte), già senatore (una volta) già assessore alla Sanità della Lombardia. Discorso identico per la deputata Marta Schifone, figlia di Luciano, uno storico esponente del Msi in Campania passato ad An e poi a FdI, più volte consigliere regionale, assessore regionale e per una legislatura anche parlamentare europeo. E figl so’ piezz’ ’e core. Ecco Sergio Rastrelli, erede Antonio, eletto deputato e sottosegretario, anche lui passato per An per diventare presidente della Regione Campania. Tutto si allarga, anche se a guardar bene si restringe.

   

A Viterbo, dove FdI ha preso il 42,5 per cento, è stata eletta a Strasburgo Antonella Sberna,  moglie del capogruppo in Regione Lazio Daniele Sabatini     

 

Prendete il piccolo, ma a suo modo storico, caso di Viterbo, Melonigrad. Qui il partito della nazione alle europee ha preso il 42,5 per cento, media più alta in Italia per la gioia del deputato Mauro Rotelli, un altro cresciuto ad Atreju. Qui a Viterbo, 20 anni fa esatti, una ragazza della Garbatella diventò presidente di Azione Giovani contro Carlo Fidanza, citando in chiusura, fra gli applausi, il Cirano di Francesco Guccini (Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali /  Tornate a casa nani, levatevi davanti / Per la mia rabbia enorme mi servono giganti / Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco / E al fin della licenza io non perdono e tocco). Insomma, nel capoluogo della Tuscia c’è stata Antonella Sberna, quarantenne da una vita in politica, che è riuscita ad acciuffare 44.9819 preferenze in tutto il centro Italia. Un astro nascente, forse, che divide la vita e tre figli con il solido Daniele Sabatini, capogruppo di FdI nella Regione Lazio di Francesco Rocca (dependance della sorella d’Italia, secondo Lega e Forza Italia) dove la vicegovernatrice è Roberta Angelilli. Dal Fronte della gioventù, approdò da ragazza a Bruxelles. E’ stata compagna di vita dello scomparso senatore Andrea Augello (fratello del consigliere capitolino Tony) una delle menti più brillanti della destra romana, che tanto manca quando va via la luce nel partito. Nella circoscrizione Italia centrale, dopo la premier, il più votato è stato l’eurodeputato uscente e copresidente dell’Ecr (i Conservatori) Nicola Procaccini, la cui mamma, Maria Buriani, è responsabile della Consulta del dialogo interreligioso in Via della Scrofa. Così come la sorella di Marco Marsilio, il Lungo governatore rieletto in Abruzzo. Dopo essere stata assessore della giunta Alemanno, ora si occupa di scuola per il partito romano, mentre  la compagna del presidente lavora alla Camera nella segreteria delle commissioni parlamentari. Così come la dolce metà dell’aspirante governatore del Veneto Luca De Carlo, senatore, la si può trovare negli uffici di Palazzo Madama. Ebbene sì, viene il mal di testa: la sorella consigliera regionale in Sicilia al posto del marito (Giusi Savarino e Giuseppe Catania), l’onorevole Luca Cannata, già sindaco di Avola, dove adesso governa la sorella Rossana. Da nord a sud, passando per ovest: il meloniano forte in Liguria è l’onorevole Gianni Berrino, marito di Manuela Sasso, sindaco di Molini di Triora e consigliere provinciale a Imperia. In questa ricerca senza fine spunta anche Caterina Funel, membro della segreteria congressi di FdI e di stanza in Senato, legata a Fabio Roscani, deputato “con la testa sulle spalle” e presidente di Gioventù nazionale, vivaio  finito nella polvere per via di certe planate sopra boschi di braccia tese scoperte da Fanpage. Sarà forse per tutti questi intrecci che il partito appare sì un monolite, ma anche bloccato dal punto di vista dell’ascensore sociale interno ora che è fucina di uomini per il governo e tutto il resto. Basta dare un’occhiata alla tornata di congressi, quella che si è celebrata a cavallo del nuovo anno, per capire come vanno le cose. Se tutto è consequenziale, anche gli staff non sono da meno: cognati, sorelle, mariti, nipoti albergano a Palazzo Chigi, nei ministeri e alla Camera, professionisti che non occupano ruoli politici, seppur pagatissimi. Logiche esplicative che restano però sotto la dicitura di un prezioso sottobosco non diverso da quelli del passato. E’ tutto un paradosso denso di normalità. “Embè?”. Al punto che la consigliera comunale di FdI, nonché la più votata a Roma, Rachele Mussolini, figlia di Romano e nipote di Lui, si è lamentata di non essere stata candidata alle europee per via del cognome. A questo punto è quasi il colmo, no?

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.