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colmare il gap

Attrarre investitori in Italia. Il what ever it takes che manca a Meloni

Salvatore Rossi

Come si fa rendere attraente per un investitore straniero acquisire attività in Italia? Due aspetti che il governo dovrebbe considerare 

Il governo ha molte gatte da pelare, certo, e non vorremmo essere nei panni del Presidente del Consiglio o dei suoi ministri di punta. Ma c’è una questione ineludibile, sulla cui gestione nei prossimi mesi si gioca molto del suo capitale politico: come si fa rendere attraente per un investitore straniero acquisire cespiti in Italia. Questione antichissima e anche controversa nel suo significato e nella sua natura. Innanzitutto perché parliamo di soggetti e di oggetti diversissimi: i primi vanno dal pensionato dell’Oklahoma che vorrebbe acquistare un titolo pubblico europeo per diversificare il suo gruzzolo, alla grande multinazionale giapponese alla ricerca di un luogo nel mondo in cui situare un suo stabilimento; i secondi vanno dalle quote di un fondo d’investimento, alle azioni di una catena di supermercati. Poi c’è un interrogativo insidioso a minare l’intero esercizio: conviene davvero adoperarsi per rendere attraenti per acquirenti stranieri le nostre case o le nostre imprese? A rischio di vederci colonizzare? 

Cerchiamo dapprima di sventare l’insidia insita in questo interrogativo. Se parliamo di titoli obbligazionari emessi da soggetti italiani non c’è dubbio che convenga disporre di una platea di richiedenti la più ampia possibile, coincidente al limite con tutto il mondo. L’emittente principale è lo Stato italiano, che ha costantemente grande bisogno di collocare i suoi titoli data la dimensione del suo debito continuamente da rinnovare. Ma anche le grandi imprese private hanno bisogno di fondi a medio-lungo termine per i loro investimenti e quelle italiane fanno storicamente poco ricorso per questo al capitale di rischio. Se riescono a farsi prestare risorse anche da risparmiatori stranieri tanto di guadagnato. 
Un ragionamento più sottile occorre se si tratta di imprese estere che comprano imprese italiane. Valutare in astratto la convenienza per l’intera economia italiana di siffatte operazioni richiede dei distinguo. Se l’impresa italiana che fa da preda è altrimenti destinata alla scomparsa, perché una prolungata cattiva gestione o la semplice sfortuna l’hanno resa incapace di stare da sola sul mercato, allora il passaggio in mani estere va apprezzato perché consente di salvare posti di lavoro, capacità, marchio; è il caso di Ita-Lufthansa. Se, come nel caso Fiat-Peugeot, un gruppo italiano e uno estero si fondono, ma la maggior parte delle attività e delle risorse, materiali e intellettuali, prendono la via dell’estero, allora l’economia italiana subisce una perdita secca. In un libero mercato se quella è la volontà degli azionisti e non sono in ballo questioni di sicurezza nazionale non c’è nulla che un governo possa fare, se non esprimere il suo rammarico, ma certo l’operazione non può essere apprezzata da chi ha a cuore l’economia nel suo complesso.
    

Comunque è quasi sempre corretto che un governo cerchi di far sì che l’economia del proprio paese attragga capitali esteri, sotto qualunque forma. Anzi, non solo occorre attrarre capitali esteri, ma anche evitare che capitali italiani vadano all’estero. Un tempo questi ci andavano clandestinamente, per ragioni fiscali o di sicurezza personale. Oggi si va diffondendo il caso di imprenditori italiani che decidono di trasferire all’estero alla luce del sole baracca e burattini: sede legale, sede fiscale, sedi produttive.  
Ma che può fare il governo? Le scelte di chi investe capitali, piccoli o grandi, sono ovviamente private; esse sono tuttavia sensibili a due diversi ordini di considerazioni che coinvolgono in ogni caso le politiche pubbliche: il grado di comfort istituzionale, normativo, legale, culturale del paese ospitante; eventuali incentivi regolamentari, burocratici, economici. 
Il primo aspetto dipende dall’azione del governo in carica solo in parte e indirettamente. L’Italia agli occhi degli stranieri è quella che è, nel bene e nel male, ed è il risultato della sua collocazione geografica, della sua storia, in particolare dell’azione degli innumerevoli parlamenti e governi che si sono succeduti in età repubblicana. Il governo presente può prendere iniziative sui diversi fronti che contribuiscono a formare l’immagine che dell’Italia hanno gli stranieri e i suoi stessi cittadini, ma sovrappone il suo strato normativo ai tanti precedenti. Ciononostante può far molto, non foss’altro che per dare il segnale di un cambio di rotta. Un esempio è il cosiddetto ddl Nordio sulla giustizia da pochissimo tramutato in legge dello Stato. Il funzionamento della giustizia è molto importante nell’orientare le decisioni degli investitori, più la macchina giudiziaria è efficiente e razionale più è probabile che gli investitori si sentano tranquilli sulla buona riuscita dei loro investimenti. La legge Nordio è lungi dall’essere ottima, appare per alcuni versi timida, ma segna qualche passo avanti nella direzione di un moderno Stato di diritto, quale l’Italia non è forse mai stata. 
  

Il secondo aspetto ricade integralmente nella potestà del governo in carica. Gli investimenti esteri di cui trattiamo qui sono quelli definiti “diretti” dalla bilancia dei pagamenti, dunque costruzione ex novo di uno stabilimento nel territorio nazionale oppure acquisto di un’impresa già stabilita in Italia. Incentivi all’impresa estera che deve decidere se fare il suo investimento in Italia o altrove posso assumere diverse forme: finanziari (sussidi o riduzioni di tasse), regolamentari. Gli incentivi finanziari sono ovviamente importanti, entrano direttamente nelle analisi costi-benefici dell’investitore. Ma quelli regolamentari lo sono anche di più: ottenere tutte le autorizzazioni necessarie da tutti i soggetti pubblici interessati può richiedere poche settimane o alcuni anni, e nel secondo caso l’investitore fuggirà a gambe levate. 
Nelle classifiche internazionali di attrattività per investimenti esteri l’Italia ha scalato qualche posizione negli ultimi anni (si veda il sito del ministero degli Esteri). Il miglioramento non basta. Le cose da fare sono ancora tante, soprattutto sul piano delle procedure. Sono alla portata del governo, se non si fa distrarre da emergenze di altro tipo o fuorviare da malintesi riflessi sovranisti.