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l'editoriale del direttore

Prove meloniane di trumpismo europeo

Claudio Cerasa

Isolata e sconfitta. Il no a Ursula di Meloni è un’opportunità persa, ma non è ancora una tragedia politica

Per capire il governo Meloni, a volte, più che la politologia serve la filmografia, e nel caso specifico, per capire cosa è successo ieri al Parlamento europeo, un’occasione persa più che una tragedia, può essere utile ricordarsi una mitica frase di Mario Brega in un’indimenticabile scena di “Bianco rosso e Verdone”, e applicarla alla politica italiana. In sintesi: sta mano pò esse lotta o po’ esse governo, e oggi è stata lotta. Giorgia Meloni ieri ha scelto con poca lungimiranza, poco coraggio e poca creatività di votare contro la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Il governo Meloni è l’unico tra i grandi paesi europei a essersi sfilato dalla maggioranza Ursula (due partiti su tre hanno votato contro, Forza Italia, God bless, ha votato a favore). E’ il primo esecutivo italiano della storia moderna a essere all’opposizione della presidente della Commissione (persino il governo gialloverde, con Conte, aveva scelto di sostenere Ursula, nel 2019, ottenendo un commissario pesante, cosa che l’Italia oggi difficilmente avrà). E FdI è l’unico partito, insieme a quello di Marine Le Pen, ad aver ottenuto molti parlamentari alle elezioni europee e a non essere però riuscito a trasformarli in pedine utili per contare di più in Europa (zeru tituli).

All’indomani delle elezioni europee, Meloni, lo ricorderete, galvanizzata per l’ottimo risultato ottenuto dalla sua maggioranza, e anche del suo partito, aveva utilizzato un’espressione forte: “Il nostro governo”, ha detto, “è il più forte d’Europa”. Quaranta giorni dopo, il quadro europeo si presenta in modo molto diverso. Meloni avrebbe voluto giocare una partita da protagonista ma così non è andata e l’effetto finale è l’opposto di ciò che la premier avrebbe voluto dimostrare. Dopo le europee, Meloni aveva tutta l’intenzione di affermare il principio che l’Europa del futuro avrebbe dovuto fare ancora di più i conti con l’Italia. La nascita di una Commissione europea, sostenuta da tutti i principali partiti che si trovano al governo dell’Europa, tranne Fratelli d’Italia, ha dimostrato invece che l’Europa del futuro può fare anche a meno di Meloni, nelle partite che contano.

La mancanza di coraggio è stata evidente così come sono state evidenti le ragioni che hanno spinto Meloni a scegliere questa strada spericolata. La paura della concorrenza a destra. Il desiderio di non diventare una nemica dei patrioti europei. L’incapacità di lasciarsi alle spalle un pezzo del proprio passato. La volontà di non perdere il profilo di partito di governo e di lotta. E soprattutto la volontà di non mettersi contro il nuovo vento di destra che spira forte dalla Francia agli Stati Uniti. C’è molto Trump, naturalmente, nella scelta meloniana. Ma dire che la mossa di Meloni sia una svolta strategica, definitiva e risolutiva è prematuro. E fino a che l’Italia continuerà a essere a favore della difesa dell’Ucraina (anche se il trumpismo incombe), fino a che continuerà a essere fedele all’atlantismo (anche se il lepenismo incombe), fino a che continuerà a essere prudente sui conti pubblici (anche se il salvinismo incombe), fino a che continuerà a non essere una nemica del mercato (anche se il nazionalismo incombe), fino a che continuerà a essere rispettosa dei trattati europei (anche se il populismo incombe), difficilmente si potrà sostenere che il non voto a Ursula von der Leyen sia il sintomo di una svolta anti europeista dell’Italia.

Il pasticcio c’è, l’errore pure, l’irrilevanza anche, l’isolamento è un rischio concreto ma più che ragionare sulla tragedia politica, che c’è e non c’è, varrebbe la pena ragionare sulle opportunità perse. Meloni, con il voto a Ursula, avrebbe dimostrato di saper pesare in Europa, di saper contrattare bene a favore dell’Italia, di sapere come crescere, di sapere come guardare al futuro, di fare un passo in avanti per mostrare l’affidabilità e la stabilità dell’Italia. Sciaguratamente, ha fatto l’opposto, e tra la mano di lotta e quella di governo Meloni, in versione Mario Brega, ha scelto la mano di lotta, de fero. L’errore c’è, è evidente, ma la tragedia no. Il vento trumpiano si sente, ma la svolta anti europeista per fortuna è ancora molto lontana.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.