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L'intervista

Marattin: “Il gol Renzi-Schlein? Non esiste, come il campo largo”

Francesco Gottardi

“Matteo ci aveva promesso il congresso: questo è un dietrofront alla Calenda”, il deputato di Italia viva risponde al suo leader dopo l’apertura al campo largo. “Se sarà ribadita in assemblea, pronti a valutare ogni opzione”. Anche la rottura

Roma. E’ stato un fulmine a Matteo sereno. “Senza alcun preavviso o comunicazione”, conferma Luigi Marattin. “Credevo che il cambio repentino di opinioni fosse prerogativa solo di Calenda”. E invece. Ha fregato tutti, Renzi. Pure il Foglio. A cui nemmeno due settimane fa diceva di voler “soltanto accompagnare il dibattito sul futuro del centro riformista: o Margherita 2.0, o polo autonomo. Le mie idee le tengo per me. L’importante è tenere aperta la discussione”. Ieri l’ha chiusa lui stesso al Corriere, così de botto, tendendo la mano a Schlein e a Conte. “Dopo le elezioni europee ci aveva assicurato un congresso per eleggere un nuovo presidente nazionale e scegliere la nostra linea politica”, insiste il deputato di Italia viva. “Avevo parlato con Renzi, anche in queste ultime ore. Di tutt’altre cose. Poi sui giornali trovo un ribaltamento completo. Nei termini e nella sostanza”. Rassegna stampa indigesta. Marattin si sfoga su X, cerca di capire. Traccia il limite: “Il prossimo 28 settembre, data dell’assemblea nazionale. Se anche allora dovesse emergere una decisione unilaterale, sarebbe un gesto molto grave. E a quel punto saranno sul tavolo tutte le opzioni”. Pure la rottura con Italia viva? “Tutte”.

 

Non lo dice a cuor leggero, Marattin. “So quel che la comunità politica pensa di Matteo”, dei suoi trabocchetti, del suo trasformismo spregiudicato. “Ma lui con me è sempre stato leale, in dodici anni di lavoro. Anche per questo ritengo che siamo di fronte a un momento cruciale”. L’ennesima prova esistenziale di un centro che fatica a esistere. “Una questione identitaria così importante dovrebbe essere demandata agli iscritti di Italia viva, in modo del tutto sereno, su queste due mozioni legittime: campo largo o partito unitario liberaldemocratico”, repetita iuvant. “Come sapete, la mia posizione è la seconda. Non c’è sistema elettorale che spinge al voto utile più di quello inglese, eppure lì il centro ha preso il 12 per cento. In Francia c’è un’altra legge fortemente maggioritaria, eppure il centro ha preso più del 20 – un risultato che tra l’altro viene descritto come una mezza sconfitta. Allora non capisco perché in Italia, con una legge elettorale per due terzi proporzionale, non ci possa essere un soggetto politico centrale con visioni radicalmente diverse da questa destra e da questa sinistra”. E’ da qui che nasce la lettera scritta a quattro mani con Enrico Costa, deputato di Azione. “Lui fa parte di un altro partito, ma condividiamo il merito della questione. Da anni siamo spettatori di un gioco che ha ben poco di politico: se domani Renzi fa il romanista, Calenda si dichiara laziale. Siamo per il loro superamento. E da soli non ce la si fa. Spero ci venga data l’opportunità di mettere questo appello a giudizio della nostra comunità”.

Da sempre la politica italiana è farcita di pittoresche intese: sardine, crostate, Nazareni. Ebbene. Se dovesse effettivamente rinsaldarsi l’asse Renzi-Schlein, come si dovrà chiamare stavolta? Patto del gol? “Contesto la prospettiva della cosa pubblica ridotta a sfida fra curve ultrà, la sconvenienza delle decisioni strategiche maturate nelle partite di calcio. Purtroppo si vede che è proprio così”. All’ormai mitologica Partita del cuore, questa settimana all’Aquila, c’era anche Marattin. “In campo proprio nel momento clou”. Secondo tempo. Matteo s’inventa un passaggio filtrante, Elly aggancia e scarica in rete. “Ma quel gol era in fuorigioco. È stato annullato. Se devo stare alle metafore, non esiste. Come non esiste il campo largo”.

Eppure l’assist (al Corriere della Sera) l’ha servito proprio quell’abbraccio inopinato fra i due leader, così lontani fino al giorno prima. Visivamente un macigno. “Non avevo alcun sentore di un’intervista del genere”, ribadisce Marattin. “Ero rimasto anch’io al ‘Renzi uno’ che aveva parlato al Foglio: quello a me piaceva. Ma d’accordo, ce ne faremo una ragione”. Cioè? “Già c’era molto consenso attorno al nostro progetto liberaldemocratico: da ieri mattina ancora di più. Ce lo mostrano i social, i messaggi via Whatsapp. Sarà anche un dato da prendere con le pinze, ma è un dato in forte crescita. Dunque, per tutte le prossime settimane fino a quel giorno di fine settembre, non smetterò di chiedere ciò che il primo Matteo aveva proposto: dimissioni del presidente nazionale e congresso. (Ben inteso, le prime sarebbero soltanto un passaggio tecnico necessario per avere il secondo. Non ne faccio in alcun modo una valutazione politica)”.

Vi siete tornati a confrontare, con Renzi e gli altri di Italia viva? “C’è grande fermento, ne discuteremo. Confido ancora in una soluzione condivisa. Ma posso dirvi una cosa?” Prego. “Se Matteo vuole tornare nel centrosinistra, dovrebbe prendere esempio da certe esperienze positive di quel tempo. E dovrebbe ricordarsele bene: Bersani, nel 2012, per permettere a Renzi di candidarsi alle primarie arrivò a cambiare lo statuto del Partito democratico (e tra l’altro vinse comunque). Quindi non vedo cosa ci sia di male”.

Li uomini salgono da una ambizione a un’altra, scriveva Niccolò Machiavelli. “Andrebbe recuperato in chiave positiva”, si augurava del filosofo Matteo Renzi. A quella parte della nostra intervista, se non altro, il senatore è rimasto fedele. Per la delusione di Marattin, di tutti i sognatori libdem.

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