(foto Ansa)

Un saggio

Contro i nuovi populismi. Perché il conflitto esasperato fra destra e sinistra danneggia l'Italia

Michele Salvati

Una riforma costituzionale è necessaria, ma solo se condivisa può spianare la strada a rapporti meno antagonistici tra le forze politiche e alle riforme che servono al paese. E i centristi? A loro serve una nuova strategia. Manifesto per un bipolarismo temperato

Vorrei iniziare con un piccolo ragionamento – così l’avrebbe definito Ciriaco De Mita – sui risultati ottenuti nelle elezioni europee dalle liste di Stati Uniti d’Europa (Renzi/Bonino) e Azione (Calenda). Proseguirei con considerazioni più generali sullo stato del bipolarismo tra coalizioni come viene praticato in Italia, il bi-populismo, lo chiama Christian Rocca. Concluderei con un appello a ripensare le categorie di destra e sinistra, oggi usate per giustificare una contrapposizione bipolare estrema e dannosa tra una destra e una sinistra che poco hanno a che fare con quelle che sarebbero necessarie nel nostro paese.

 

La somma dei voti ottenuti da Renzi-Bonino e Calenda è un po’ di più di un milione e seicentomila, il 7,11 per cento del totale dei votanti, leggermente di più dell’Alleanza Verdi-Sinistra (Avs), sul versante opposto di ciò che passa per sinistra oggi in Italia. Ma mentre Bonelli e Fratoianni si presentavano in una lista sola, che ha facilmente superato il 4 per cento necessario per essere rappresentati nel Parlamento europeo, Renzi-Bonino e Calenda marciavano divisi, con il rischio che i voti dell’una o dell’altra o di entrambe le liste svanissero nel nulla. Ed è quello che è successo, e per entrambe le loro liste. C’è qualche motivo, relativo ai programmi e agli elettorati cui si rivolgevano, che giustifichi razionalmente una scelta così diversa da quella di Avs? Di primo acchito vedo una maggior distanza tra un partito ambientalista e un partito di sinistra tradizionale che tra Azione e Italia Viva, lasciando per ora da parte i radicali di Emma Bonino. A me, questi due partiti sembrano varianti piuttosto simili di una posizione liberaldemocratica propria di una sinistra realistica e di governo, che può benissimo convivere in un unico partito con poche ragioni di attrito ideologico o programmatico. Si tratta di impressioni soggettive, perché non sono a conoscenza di ricerche sociologiche serie sugli elettorati dei due partiti, su chi sono (per livello di istruzione, reddito, professione, esperienze politiche, visione ideologica…) i tanti cittadini italiani che hanno votato per le liste di Stati Uniti d’Europa e Calenda. E che, in precedenza, erano membri di, o simpatizzanti per, uno dei partiti che a quelle liste hanno dato origine.


In un contesto bipolare, non credo che ci siano spazi per partiti che non prendono posizione sull’asse destra/sinistra e diano agli elettori l’impressione di potersi alleare per convenienza organizzativa sia a destra che a sinistra


Se questa mia impressione è fondata, si tratta di un piccolo popolo piuttosto omogeneo di liberaldemocratici di sinistra, e la divisione dei loro consensi tra due partiti è prevalentemente il frutto delle circostanze storiche e dei fenomeni di offerta politica che conducono al successo partiti “personali” in questa fase delle democrazie occidentali. Si tratta di circostanze e fenomeni che possono creare notevoli difficoltà se si vuole saldare la domanda dei cittadini e l’offerta dei politici al fine di creare un unico partito: l’offerta che potrebbe corrispondere alla domanda è nata divisa in due o più partiti che pescano nello stesso bacino di consensi ed è difficile unificarla. Lascerei queste difficoltà a chi le conosce meglio e le deve affrontare. Prima, però, vorrei far notare un altro aspetto dei risultati europei delle due liste elettorali che stiamo considerando. Se si confrontano i voti ottenuti dai nostri tre partiti nelle elezioni politiche del ‘22 con quelli delle due liste con le quali si sono presentati alle elezioni europee del ’24 – una parziale alleanza tra Bonino e Renzi c’è stata – si nota un vero e proprio crollo, da quasi tre milioni di voti a poco più di un milione e seicentomila. In buona parte la flessione può essere spiegata dall’abnorme astensionismo che ha afflitto le elezioni europee e ha ridotto la partecipazione al voto dal 72,9 per cento (elezioni Camera) al 48,3 (elezioni europee). Ma perché, allora, l’Alleanza Verdi/Sinistra di Bonelli e Fratoianni ha addirittura accresciuto i propri voti rispetto alle elezioni politiche?  E perché l’unico partito nel quale si registra un crollo analogo, nell’ambito di ciò che passa per sinistra nel nostro paese, è il Movimento 5 stelle?
Ho fatto allora un piccolo esperimento mentale in corpore vili…: il mio. Quali sono i motivi che mi hanno indotto a votare per il Pd nelle elezioni europee, nonostante sia più vicino alle indicazioni programmatiche di Renzi e Calenda che a quelle sostenute attualmente del Partito democratico? Per tre motivi, in sostanza. (a) Perché ho sempre creduto in questo partito sperando che evolva in una liberaldemocrazia di sinistra a vocazione maggioritaria: le concezioni ideologico/programmatiche e le segreterie del partito possono cambiare – il Labour Party ne è un esempio – ma il partito deve restare unito. (b) Perché nella mia circoscrizione elettorale si presentavano, insieme ad altri/e che non avrei votato, eccellenti candidati/e che conoscevo personalmente e le cui capacità e orientamento politico sarebbero stati utili nel Parlamento europeo: e questo non mi risultava per altri partiti. (c) Perché, in un contesto bipolare, non credo che ci siano spazi per partiti che non prendono posizione sull’asse destra/sinistra e diano agli elettori l’impressione di potersi alleare per convenienza organizzativa sia a destra che a sinistra: e questa impressione Renzi e Calenda l’hanno data. Insomma, non c’è spazio per partiti “centristi”. Il motivo più importante è il terzo: il primo riguarda soprattutto chi ha avuto la mia storia politica, ma chi ne ha avuto una diversa può considerarlo una pia illusione. Il secondo dipende da conoscenze personali e può essere vero in una circoscrizione ma non in altre. Il terzo dipende invece da considerazioni di rilievo assai maggiore, l’una ricavabile dall’intera storia dell’Occidente liberale e capitalistico, l’altra dalla recente storia del nostro paese.


Tra i grandi paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale,  Germania, Giappone e Italia, il nostro è l’unico in cui rimasero in vita forti rappresentanze politiche del conflitto ideologico che aveva travagliato l’Europa tra le due guerre mondiali


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La divisione tra destra e sinistra è conseguenza diretta del Moderno e nasce nel crogiolo delle grandi rivoluzioni che al Moderno hanno dato origine, le rivoluzioni politiche francese e americana e la rivoluzione industriale e sociale ad esse coeva, una rivoluzione che si afferma inizialmente in Inghilterra per poi coinvolgere, nel lungo giro di due secoli, tutto il mondo. Insomma, nasce col capitalismo, in un involucro politico liberale. Nasce allora e permane sino ad oggi, con frequenti mutamenti sincronici e diacronici nei paesi che hanno sperimentato la tumultuosa vicenda del Moderno. E’ la resilienza della dicotomia ciò che maggiormente colpisce in una denominazione di natura puramente topografica, derivante dalla diversa collocazione, a destra o a sinistra rispetto alla presidenza, dei rappresentanti nell’Assemblea degli Stati generali nel 1789, all’inizio della Rivoluzione francese.  Si tratta di una storia molto nota: dopo la sconfitta dell’Ancien Régime, già a partire dalla prima metà dell’Ottocento, è la storia dell’espansione del capitalismo nel contesto politico di stati liberali. Da questa ho derivato la convinzione che il contrasto tra coloro che stanno dalla parte dell’espansione del capitalismo nelle sue incessanti trasformazioni e coloro che cercano di proteggere chi ne paga le conseguenze è ancora il principale motore del Moderno, della lunga fase storica nella quale siamo immersi. Destra e sinistra operano nel profondo, anche quando sembrano prevalere temi di conflitto diversi da quelli che si erano manifestati in passato, e proclamare che la rilevanza politica e euristica della dicotomia è finita mi sembra, avrebbe detto Mark Twain, piuttosto esagerato e sicuramente prematuro.
La seconda considerazione riguarda il nostro paese e il sistema politico che prese forma nel dopoguerra. Tra i grandi paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale – Germania, Giappone e Italia – il nostro è l’unico in cui rimasero in vita forti rappresentanze politiche del conflitto ideologico che aveva travagliato l’Europa tra le due guerre mondiali. L’unico nel quale lo scontro politico non assunse le forme più pacate di un contrasto tra liberaldemocratici di destra o di sinistra, vincolati entrambi dall’alleanza con gli Stati Uniti. L’unico nel quale la piena consapevolezza di questa situazione indusse i nostri padri costituenti a porre forti ostacoli alla capacità decisionale dei governi, nel timore che a vincere le elezioni fossero partiti antisistema (o i loro avversari: tale timore era infatti condiviso anche dai comunisti).



Si pensava che il sistema evolvesse verso forme in cui la dicotomia destra-sinistra restava centrale ma in una versione  compatibile con un sistema politico liberale e una economia capitalistica:  socialdemocratici contro liberal-conservatori



Ma queste caratteristiche del nostro sistema politico-istituzionale contribuiscono a spiegare perché – quando si giunse a una anomala Grosse Koalition tra democristiani e socialisti, costretta a pagare un prezzo elevato per assicurarsi la non-ostilità dei comunisti esclusi dal governo – il nostro paese non riuscì ad attuare le riforme che avrebbero consentito all’Italia di cogliere appieno, già nella Prima Repubblica, le occasioni di crescita che la favorevole situazione internazionale consentiva. E a spiegare perché esso non reagì con efficacia e lungimiranza quando le condizioni internazionali, a partire dalla metà degli anni Settanta, si fecero meno favorevoli. Inflazione e debito pubblico furono la conseguenza di questi conflitti interni alla coalizione di governo: l’inflazione fu domata, il debito continua a essere uno dei più gravi ostacoli alla crescita del nostro paese.
 Alla fine degli anni Ottanta nessuno però prevedeva una crisi economica e politica della gravità di quella che colpì l’Italia all’inizio del 1992. La situazione economica internazionale era stabile e in nessun altro grande paese europeo avvennero un collasso e una trasformazione così radicali del sistema politico. L’unico motivo per cui è improprio parlare di Seconda Repubblica per il periodo che fece seguito alla crisi è perché stiamo ancora aspettando la riforma costituzionale che dia una forma stabile e condivisa al grande mutamento di fatto che allora avvenne.  Poiché in quegli stessi anni stava crollando il regime sovietico e lo stesso Pci stava trasformandosi in un partito che non poteva più essere escluso da una coalizione di governo, erano in molti a ritenere possibile che il sistema economico-politico italiano evolvesse verso forme più simili a quelle degli altri grandi paesi europei. Forme nelle quali la dicotomia destra/sinistra restava centrale, ma nella versione moderata compatibile con un sistema politico liberale e una economia capitalistica: insomma, socialdemocratici contro liberal-conservatori.
Le cose andarono in modo diverso e mi devo affidare ai ricordi di chi ha vissuto l’esperienza politica degli ultimi trent’anni: Mani pulite, Lega, Berlusconi, Prodi, poi ancora Berlusconi e Prodi, fino al “governo tecnico” di Monti. Poi l’irruzione di Grillo e dei Cinque stelle nelle elezioni del 2013 e la rottura dello schema bipolare. Poi Renzi e il fallimento della sua riforma costituzionale. Poi le elezioni del 2018 e i due governi Conte, il primo con la Lega e il secondo con le sinistre, durante l’infuriare della pandemia. Poi un nuovo “governo tecnico”, Draghi, e infine le elezioni del 2022 e la vittoria della coalizione di destra-centro dovuta allo straordinario successo di Fratelli d’Italia. Un ritorno al bipolarismo? Certamente, ma anche a un conflitto destra/sinistra che è tanto più estremo ed esasperato quanto più è privo di giustificazioni ideologiche profonde, quali erano quelle che motivavano l’esclusione dei partiti antisistema. E quanto più è vuoto di realistiche proposte di policy volte a contrastare un declino economico e sociale che in questi trent’anni ha fatto passi da gigante.


Toni e messaggi di Giorgia Meloni  sono cambiati da quando è al governo, ma è difficile tenere insieme due obiettivi incompatibili, una visione ideologica di destra radicale e una concezione politica liberaldemocratica



 In un paese il cui ceto politico è incapace di prendere decisioni efficaci a causa delle ripercussioni che si teme esse avrebbero sul consenso elettorale, governi di larghe intese promossi dal capo dello stato –tutt’altro che “tecnici”, dunque – diventano una necessità per superare le emergenze. Ma se permane una forte e diffusa insoddisfazione popolare, questi governi presentano anche un rischio per i partiti che alle larghe intese partecipano. Il successo elettorale di Fratelli d’Italia è dovuto infatti alla intuizione della sua leader di tenersene alla larga, di esasperare i toni e affidarsi a un messaggio esclusivamente polemico ed ideologico. Un messaggio ben presto ricambiato dai suoi oppositori, anch’essi in forti difficoltà se fossero scesi sul piano di concrete proposte di governo.
 Toni e messaggio sono cambiati da quando Giorgia Meloni è al governo, ma l’immagine che essa ha dato di Fratelli d’Italia, la sua stessa storia, non sono facili da sradicare. Partendo da dove è partita, è molto difficile per lei gestire la rivoluzione liberal-conservatrice cui sembra ambire, sia nel contesto italiano che in quello europeo, anche se la sua intenzione di costruire una destra liberale e democratica ha favorevolmente colpito molti commentatori. Probabilmente è una intenzione che non è destinata a realizzarsi perché cerca di tenere insieme due obiettivi incompatibili, una visione ideologica di destra radicale e una concezione politica liberaldemocratica. Queste difficoltà si sono manifestate con chiarezza in Europa, nelle reazioni immediatamente successive alle elezioni: le nomine a posizioni apicali sono state il frutto di una coalizione politica e la nostra premier, molto semplicemente, non ne faceva parte. In Italia esse rischiano di compromettere la riforma costituzionale cui Meloni ha affidato un grande ruolo nel suo progetto politico.
Per le ragioni cui ho fatto cenno più sopra, credo che una riforma costituzionale della nostra forma di governo sia necessaria. Credo anche, però, che a una buona riforma non si possa arrivare finché perdura una contrapposizione tra coalizione di governo e forze di opposizione così estrema come quella cui stiamo assistendo. Di questi aspetti estremi non è responsabile il bipolarismo – questa è la convinzione che non mi stanco di ripetere – ma le concezioni di destra e sinistra che si sono affermate nel nostro paese, e purtroppo non solo da noi. Concezioni che contrastano con gli assetti liberaldemocratici ai quali l’Occidente era pervenuto nei sessant’anni di straordinario sviluppo economico e sociale tra la fine della Seconda guerra mondiale e la grande crisi economico-finanziaria del 2007-2008. Dunque, in un clima politico internazionale che era passato, nei paesi liberali industrialmente avanzati, da un equilibrio di centrosinistra a uno di centrodestra, a dimostrazione del fatto che destra e sinistra, se rispettano i limiti che una concezione liberaldemocratica impone, sono entrambe compatibili con un continuo miglioramento delle condizioni di crescita economica, di benessere e di libertà.   
 Il riconoscimento che una riforma costituzionale della nostra forma di governo è nell’interesse dell’intero paese dovrebbe essere comune alle principali forze politiche e coinvolgerle nella sua definizione in un processo che dovrebbe avvenire in Parlamento: questo al fine di evitare un referendum confermativo, che sarebbe un puro plebiscito pro o contro il governo. Se non avvenisse così, a perdere sarebbe l’Italia, non una parte politica.  E a perdere sarebbe l’Italia quale che fosse l’esito del referendum confermativo che inevitabilmente sarebbe promosso. Ciò avverrebbe sia che il progetto del governo superi il referendum e modifichi la Costituzione, sia che non lo superi e la Costituzione resti invariata, così confermando il giudizio che la nostra Costituzione è irriformabile quando si tratta di riforme importanti. Solo una riforma condivisa spianerebbe la strada a rapporti meno antagonistici tra governo e opposizione e darebbe la possibilità ai governi futuri di affrontare le tante riforme di cui l’Italia ha bisogno per scongiurare un declino altrimenti inevitabile.

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Sono arrivato ad accennare alla principale riforma costituzionale promossa dal governo al solo scopo di illustrare il problema che intendo discutere: esiste ed è praticabile una versione del bipolarismo tra destra e sinistra che sia in grado di favorire governi riformatori efficaci, capaci di interrompere la tendenza al declino nella quale siamo immersi? La discussione è in corso, è molto complessa e non posso contribuirvi in queste note. Ci conviene allora, per concludere, riavvolgere il nastro e tornare al contrasto tra destra e sinistra non nell’ottica del sistema politico nazionale, come ho fatto sinora, ma in quella di una delle sue componenti, la sinistra italiana, e in particolare le forze che si auto-collocano tra la sinistra e il centro dello spettro politico.  Anche in questo caso valgono gli stessi argomenti che abbiamo usato riferendoci al sistema politico nazionale nel suo insieme, argomenti profondi e comuni a gran parte dei paesi che hanno vissuto la vicenda del Moderno, e argomenti “locali”, tipici di una delle tante vicende nazionali.
Gran parte delle mie convinzioni le ho anticipate commentando i risultati ottenuti dalle due liste – Stati Uniti d’Europa e Calenda – promosse da tre partiti, Italia viva e Radicali, la prima, e Azione, la seconda. Sia gli argomenti comuni e profondi sia quelli locali suggeriscono che è stato un errore non allearsi e presentarsi in due liste diverse, anche se i leader di questi partiti e gran parte dei loro aderenti e simpatizzanti non volevano confondersi coll’attuale Pd e con la linea politica da esso perseguita. Ora vorrei riprendere e concludere l’argomentazione a partire dall’affermazione apodittica che in Italia non c’è spazio per partiti centristi, che affermino e pratichino l’irrilevanza della distinzione tra destra e sinistra. Al di là degli argomenti prima definiti come “comuni e profondi”, sono quelli “locali”, derivanti dalla turbolenta storia italiana, a essere in discussione. E il primo fra di essi discende dalla constatazione che anche un leader di partito che si presenti come “centrista” e cerchi di comportarsi come tale, ma provenga da una storia personale che lo ha visto legato a uno dei due campi ideologico-politici in gioco, non in è grado di fare molti proseliti nel campo avverso. Renzi e Calenda hanno alle loro spalle una storia di centrosinistra: di conseguenza, in una situazione di forte polarizzazione, nessuno dei due è credibile come “vero” centrista. Tanto vale, allora, che essi si presentino all’interno di forze politiche, caratterizzate sì da un programma riformista e realistico, ma vicino agli ideali della sinistra. Così come, a destra, stanno facendo Tajani (Forza Italia), Lupi (Noi Moderati) e altri alleandosi a partiti estremisti con i quali essi hanno poco da spartire.

 

Insomma, anche i “centristi”, se non vogliono confluire nel partito egemone del loro campo ideologico (e possono avere motivi discutibili ma seri per non volerlo) dovrebbero dividersi in… centristi di sinistra e centristi di destra – due evidenti ossimori – al fine di meglio contribuire al successo della coalizione cui appartengono. Tutto questo dipende dalla legge elettorale in vigore e non sappiamo quale sarà quella che verrà adottata nelle prossime elezioni politiche. Quanto detto, ovviamente, vale nel caso in cui questa legge abbia una struttura maggioritaria che favorisca la formazione di un bipolarismo di coalizioni, e oggi tutto fa pensare che la legge elettorale che sarà in vigore nel 2027 sarà una legge di questo tipo. In tal caso un buon successo dei centristi di destra e di quelli di sinistra potrebbe favorire quella convergenza al centro del dibattito politico che in altre esperienze si manifestava anche in sistemi bipartitici, evitando il bi-populismo che ha caratterizzato la lunga fase apertasi con la crisi politica dei primi anni Novanta. Insomma, un “governo al centro”, come Tonini, riprendendo Duverger, l’ha recentemente definito.

 

Se sia Renzi che Calenda condividono questa valutazione politica e con essa gran parte dell’analisi sulle cause del declino del nostro paese, se pescano entrambi nello stesso bacino di elettori potenziali, che senso ha la divisione in due partiti? Non si tratta soltanto di evitare infortuni come quello delle recenti elezioni europee – un milione e seicentomila voti buttati al macero – ma di costruire un movimento politico che tenga insieme la gran parte di elettori orientati a sinistra e che però non votano volentieri per un partito in cui, dopo un congresso sul quale è meglio stendere un velo pietoso, ha vinto la sinistra dell’attuale segretaria. Certo, se la valutazione politica di più sopra è corretta, i voti che questo movimento politico otterrebbe non sarebbero strappati alla destra, ma al Pd e ad altri partiti minori della stessa coalizione di sinistra, e all’astensione, se va bene. Ma proprio questo è il punto: se ci fosse la sicurezza che questi voti, e qualcuno di più, ritornerebbero alla stessa coalizione alla quale sono stati sottratti, l’argomento del voto utile prederebbe gran parte della sua forza: perché votare turandosi il naso al solo fine di ostacolare il successo della coalizione avversa quando si può ottenere lo stesso risultato votando un partito che ci piace di più? E’ per questo che l’impegno dei “centristi di sinistra” a escludere di portare  voti a destra dev’essere sentito da loro e percepito nella comunità politica come serio e stabile.

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Ma non è solo per questo. La posizione politica che il nostro ossimoro (“centristi di sinistra”) rappresenta è la traduzione nel contesto politico attuale del nostro paese di una concezione liberaldemocratica di sinistra molto diffusa nei paesi capitalistici più avanzati e trova le sue migliori giustificazioni teoriche nelle discussioni sulla teoria della giustizia e in John Rawls in particolare, ma anche in Amartya Sen e tanti altri. Partecipare a pieno titolo a un importante dibattito filosofico-ideologico internazionale è assai più utile che cercare precedenti italiani che speriamo siano stati superati, come quelli che videro contrapposte le forze di origine democristiana e di ispirazione cattolica cui faceva riferimento Margherita ai tempi del primo Ulivo, in contrasto con quelle di origine comunista. Non vogliamo chiudere una volta per tutte questa prima fase della costruzione del Partito democratico? Non potrebbero, Renzi, Calenda e tanti altri, dentro e fuori il Pd, contribuire alla costruzione di un vero “campo largo” in cui una posizione liberale di sinistra fosse fortemente rappresentata?   
Per ragioni di storia politica personale continuo a credere che il first best sarebbe la somma di queste posizioni della sinistra, insieme ad altre in cui l’ingrediente liberale è meno presente (per usare un eufemismo) all’interno di un unico partito, come avviene nel Labour Party. Ma un accettabile second best – e ne ho appena spiegato le ragioni – potrebbe essere costituito da una stabile configurazione federale, da una coalizione che si presenta unita agli appuntamenti elettorali. Se questo avvenisse in entrambe le coalizioni, sia nel centrodestra che nel centrosinistra, il bi-populismo estremo che stiamo vivendo potrebbe forse trasformarsi in un bipolarismo più vicino a quello che ha assicurato, nei paesi capitalistici avanzati nel contesto di regimi liberali, lo sviluppo, il benessere e le libertà individuali dal dopoguerra sino all’inizio di questo secolo. Nell’attuale situazione internazionale, con le “grandi trasformazioni” tecnologiche e geopolitiche in corso, con venti di guerra che soffiano intensamente, questo è un sogno a occhi aperti: ciò che avviene in un paese che ora conta meno di quanto potrebbe a livello europeo, e in una Europa che conta poco a livello internazionale, è frutto di eventi in larga misura incontrollabili. Resta il fatto che dotarsi di un governo efficace, che riacquisti prestigio in Europa, e dotarsi di una politica europea che consenta all’Unione di contare di più nel mondo, mi sembra l’unica strategia ragionevole che un governo italiano potrebbe perseguire.
Le forze riformiste e liberaldemocratiche di sinistra sono divise in Italia tra quelle presenti all’interno del Pd e quelle organizzate in altri partiti, e questa è una divisione inevitabile se una parte di esse non si sente riconosciuta dall’attuale direzione del Partito democratico. Come ho già detto, ciò che trovo incomprensibile – o meglio, comprensibile, ma un vero spreco di risorse scarse – è la divisione ulteriore tra i liberaldemocratici di sinistra esterni al Pd. Renzi e Calenda hanno entrambi notevoli doti come uomini politici e di governo, ma il loro conflitto personale credo non sia compreso neppure da buona parte di coloro che pur aderiscono ai loro partiti personali. E ancor meno da coloro che aderirebbero a un partito con una visione ideologica e un programma assai vicini a quelli di Italia viva e Azione, se solo venissero chiarite le residue ambiguità sul loro “centrismo” e, soprattutto, se smettessero di polemizzare fra loro. Perseguendo in questa condotta, credo che Renzi o Calenda si siano danneggiati a vicenda e non debbano più rivestire il ruolo di leader di un partito personale. Un partito che organizzi quei liberaldemocratici i quali, sino a quando dura una politica di ostracismo del Pd nei confronti della loro versione di sinistra, ritengono opportuna una organizzazione separata per meglio affermare le proprie idee, dovrebbe avere un leader diverso da loro.
Mi sembra che questa convinzione cominci a farsi strada anche all’interno di Italia viva (… Azione non è ancora pervenuta, che sappia). Quel che vorrei fosse chiaro è che risorse come Renzi a Calenda non dovrebbero andare perdute, anche se essi non ricopriranno ruoli di leader di partito. C’è bisogno di loro e delle loro capacità, perché il compito che deve affrontare un orientamento politico riformista è di gande difficoltà. Sia una sinistra che una destra riformiste e realistiche dovrebbero convincere una parte maggioritaria dei loro elettori che uscire da una traiettoria di declino comporta uno sforzo collettivo grande e protratto a lungo. Che risultati tangibili non saranno evidenti nel breve periodo, nel quale dovranno essere prese decisioni strategiche e si dovranno ridurre quanto è possibile le aree di maggiore sofferenza sociale. E tutto ciò dovrebbe avvenire mentre le due coalizioni avverse si confrontano su programmi il cui merito per un comune cittadino è assai difficile comprendere. Evitare che in questa situazione, pur di prevalere, l’una o l’altra o entrambe facciano ricorso a promesse demagogiche o comunque irrealizzabili, che si inasprisca la polarizzazione tra loro e una cooperazione per il bene del paese risulti compromessa, può sembrare una Mission Impossible alla luce dell’esperienza di questi ultimi anni. Sicuramente è difficilissima. Ed è proprio per questo che la presenza, il ruolo e la forza dei nostri due ossimori, i centristi di destra e i centristi di sinistra, possono giocare un ruolo importante. Certo, insufficiente a eliminare il rischio della polarizzazione e della demagogia. Ma forse sufficiente a ridurlo a un livello affrontabile anche dal ceto politico che abbiamo, se ispirato da un obiettivo e di salvezza nazionale. E soprattutto pressato dall’evidenza sempre più minacciosa che trascinare a lungo l’attuale situazione non fa che peggiorarla e renderla irreversibile.

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