L'intervista

"TeleMeloni è solo Teleservi. Privatizzarla è la sconfitta della premier". Parla l'ex dg Rai, Celli

Carmelo Caruso

"Sono stato il primo a dire privatizziamola ma non è la soluzione. Serve un authority. Sempre si è spartito ma oggi non c'è più vergogna. In Rai Meloni ha scelto servi e servono male". I pensieri del manager

È Meloni il problema di Meloni. Va in Cina ma attacca l’Europa, spedisce lettere a von der Leyen per lamentarsi dei giornali italiani “portatori d’interessi”, dice che non ha bisogno di una Rai Tele Meloni, e infatti non smentisce che la sua idea nascosta, rivelata dal Foglio, da Claudio Cerasa, sia liberarsene, privatizzarla, che è un’idea di Pier Luigi Celli, ex dg Rai, manager  in Eni, Enel, Olivetti, 82 anni, “ma guardi che lavoro ancora”. Celli, esiste Tele Meloni? “A me sembra che esista solo  Teleservi, Teleservitù”. Qual è la cifra di Teleservitù? “Dipendere dai partiti invece che dal talento,  piegarsi anziché dire ‘questo non si può fare’. È una tv che non sa stare con la schiena dritta. Il mondo si può dividere  in uomini dalla schiena dritta e maggiordomi stupidi. Oggi abbondano i secondi. È una Rai che non lascia spazio ai bravi, i bravi che ci sono, e mi creda, ci sono. Non sono somari, non sono tutti ciucci”. E chi sarebbero i bravi? “Il dg Giampaolo Rossi lo ricordo come un uomo di qualità, e come lui altri”. E poi cosa è accaduto? “Quello che accade in Rai, una tv che dovrebbe essere governata da un’authority, una fondazione. Si comincia ad avere paura di perdere il ruolo, si comincia ad assecondare qualsiasi richiesta. Il potere piace ma va mantenuto. Si comincia a guardare il telefono, a guardare se il ministro ti ha chiamato. Si inizia ad abbassare la schiena”. Da dg è vero che voleva privatizzarla? “Proposi la privatizzazione della Rai perché il debito era spaventoso”. Oggi non lo è? “Esistono debiti spaventosi ma anche i debiti spaventosi si possono coprire se c’è fiducia, armonia. Ricordo ancora l’anno in cui la Rai non riuscì a  pagare  le tredicesime. Mi presentavo alle banche ma nessuno voleva farci credito. Presi l’impegno, di fronte ai dipendenti, di pagare appena possibile. Si fidarono. Ce l’abbiamo fatta. Sa cosa significa non pagare le tredicesime? Già nei miei anni, a inizio Novanta, la Rai era a un passo dal portare i libri in tribunale”. Non la salvò Ciampi con il decreto Salva Rai? “La salvarono anche i dipendenti, i bravi”. Meloni crede che la Rai sia la sua sciagura. Meglio   venderla? “Io proponevo di vendere Rai Due e una radio”. Si può ancora fare? “Farlo adesso  è  la prova che Meloni fugge la complessità. Secondo me anche lei  ha capito di aver commesso un  errore. I servitori che ha scelto in Rai sono più servitori di quanto pensava e servono pure male”. 

Celli, i suoi anni da direttore generale Rai? “Dal 1998 al 2001”. Chi la scelse? “Venni indicato da Marini e D’Alema. Mi cercò la sinistra”. Anche lei ha dunque nominato gli “amichetti” di sinistra come ricompensa? “Nominammo Agostino Saccà, direttore di Rai 1”. Saccà? “Era il più bravo. Che idea politica avesse non ci interessava. Come vicedirettore del Tg1 nominammo un giornalista di An, Mauro Mazza”. Riceveva le telefonate di Marini e D’Alema? “Non solo non le ricevevo, neppure li conoscevo. Ovviamente ricevevo le telefonate dei politici o meglio ci provarono”. Quale partito? “I Ds”. E cosa le chiedevano? “Spazi, posizioni. Gli risposi semplicemente che non ero un maggiordomo e non avrei cominciato da quel momento”. E poi? “Non si sono più fatti sentire”. E le nomine? “Ricordo il metodo utilizzato nel 1993 quando ero direttore del personale Rai. La Rai era libera come non mai. C’era stata Tangentopoli, i partiti avevano perso il controllo, il cda era composto da cinque membri, i famigerati ‘professori’. Passarono sei mesi dall’insediamento e si doveva procedere alle nomine dei direttori di tg. Si decise di andare  a Firenze, in convento”. Servono i monaci per la Rai? “Serve spegnere il telefonino. In quell’occasione fu stabilito che durante la riunione, il processo di nomina, si sarebbero tenuti i telefonini fuori dalla stanza. Le nomine passarono all’unanimità”. Da Pechino, Meloni ha dichiarato che serve il nuovo cda, ci “metterà la testa”, dice, nelle prossime settimane. La Rai ha una testa? “Attenzione, parlare di Rai, da fuori, è semplice. Io sono stato fortunato. In passato c’era ancora un’intercapedine”. Non è mai andato a Palazzo Chigi a parlare con i premier? “Non andavo. Il mio interlocutore era l’Iri. Ero avvantaggiato”. Nulla infastidisce Meloni quanto questa televisione, l’accusa di averne fatto uno sgabuzzino di Colle Oppio. Perché  soffre le critiche sulla sua Rai? “Perché qui misura i limiti della sua comunità. Si accorge che in Rai la qualità si misura dalla gente che metti dentro. Devi valere per quello che vali altrimenti  alla lunga si vede che non vali”. Basta cambiare la governance Rai, come si dice pronta a fare Meloni? “La spartizione non è una novità”. E allora cosa è cambiato? “La vergogna”. La vergogna? “Una volta si aveva un senso della vergogna maggiore. Si spartiva ma non si esibiva, si davano trasmissioni ma senza la sfacciataggine di oggi. Non si esibiva il beneficio”. Simona Agnes diventerà la prossima  presidente Rai come vuole Tajani? “Temo che possa finire in un gioco incrociato di fuoco amico e non farcela. Siamo qui a discutere dei voti della Lega anziché chiederci ma Agnes farebbe bene la presidente? Io penso di sì. Vede, torniamo sempre ai modi. C’è modo e modo. C’è modo e modo di comunicare, spartire e poi ci sono i bravi a cui si deve lasciare spazio, senza discriminare”. Meloni è illiberale? La sua furia contro i giornali italiani è il nuovo editto, “l’editto di Pechino”? “Meloni non è illiberale ed è la prima a sapere che alla fine serviranno i bravi”. Raccontano che una volta abbia detto “mi parlate di bravi, ma dove stanno questi bravi”? “Ci sono ma sono i suoi che li coprono, che non glieli lasciano vedere. Una buona televisione, una buona idea nasce se si ha tempo di pensare, di leggere, senza rispondere al telefono, di perdere anche tempo, se serve”. La Rai la perderemo? “Per non perdere la Rai dobbiamo ritrovare la vergogna. Quando si proverà vergogna, vergogna di servire, vergogna di assecondare, allora sì che si può tornare a fare una buona televisione”.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio