mercato e televisione

Oggi privatizzare la Rai non vuol più dire ammazzare la tv commerciale. Che si aspetta?

Giuliano Ferrara

Fosse vero che Meloni vuole privatizzare la Rai sarebbe la migliore delle notizie politiche, civili, di costume, economiche

La Rai andrebbe privatizzata. Non c’è altro modo per evitare l’eterno ritorno dell’identico, la “lottizzazione” partitica aziendale, formula coniata da Alberto Ronchey per definire le manacce della sottopolitica sugli studi televisivi pubblici. La questione è solo in parte relativa alla libertà di informazione, che ha resistito a tutte le lottizzazioni e resisterebbe anche a questa, piuttosto scollacciata, segnata dalla fame atavica degli eterni esclusi. E non è vero che una buona e responsabile privatizzazione segnerebbe la fine del delicato sistema di convivenza tra pubblico e privato, specie nel mercato pubblicitario, che ha attraversato l’età del berlusconismo e della fondazione della tv commerciale, forte elemento di modernizzazione e pluralismo, sopravvivendo al fondatore e alle trame per distruggerlo.

 

Fosse vero che Meloni, fin qui sicura di poter governare con un orizzonte politico e parlamentare di forte stabilità, nonostante analisi opposte neghino questa prospettiva, vuole procedere a privatizzare, sarebbe la migliore delle notizie politiche, civili, di costume, economiche. Ma è vero? Si tratta di annunci depistanti ufficiosi, destinati al cestino delle politiche autentiche, o di qualcosa di potenzialmente nuovo e credibile? In molti al governo hanno fatto come si dice “ammuina” in passato, senza che poi ne nascesse anche solo un barlume di ristrutturazione della macchina culturale e di informazione rispetto ai meccanismi di mercato libero.

 

D’altra parte, altri modi di scollare dalla gestione piccolo politica la Rai non esistono, da noi “no, non è la Bbc” è un glorioso ritornello televisivo di quel genio di Gianni Boncompagni, una filastrocca perfetta perché mostra come l’idea di una governance indipendente ha sempre fatto sorridere coloro che sanno, cioè che conoscono la differenza d’impronta che separa il costume delle Authority dalla presa di possesso politico-parlamentare delle leve aziendali o di potere.

 

Da ministro nel primo governo Berlusconi, quando si doveva dare una svolta al dibattito fanatico e fazioso sul conflitto di interessi del presidente del Consiglio, scrissi personalmente un codicillo di riforma della Rai che attribuiva non più al Parlamento, che era stata la riforma partitocratica e garantista per tutti intestata a Giorgio Napolitano, ma all’Iri, in via di scioglimento e privatizzazione, la titolarità pubblica della azienda radiotelevisiva. Con l’aiuto di un insigne giurista e per la spinta di un principe della vecchia e canonica politica fininvestiana, il codicillo diabolico e privatizzatore fu cancellato con cura poche ore dopo essere stato varato, e non con mia grande sorpresa.

 

Le cose sono cambiate. La famiglia Berlusconi ha una posizione diversa da quella originaria nel mercato e nella dialettica politica. Il partito che fu di Berlusconi è un’altra creatura, fragile ma vivente, rispetto all’armata che prese il potere nel 1994, e cerca una decente collocazione euroliberale e europopolare. 

 

Anche il mercato si è trasformato radicalmente. Oggi privatizzare la Rai, almeno in parte, come segno di orientamento strategico, non vuol più dire ammazzare la tv commerciale. Esistono, veri o potenziali, nuovi poli televisivi in emersione, c’è forte libertà oggettiva e mobilità, come mostrano le incursioni di Cairo (La7) e Disney nell’accaparramento degli ascolti. Ci sono le condizioni per decisioni di legge condivise, che alleggeriscano la pressione dei partiti sul sistema fin qui perfettamente funzionante, emerso dalla rivoluzione berlusconiana contro il monopolio di stato, e ora, anche per trascuratezza di Meloni, arrivato agli sgoccioli della piccola e piccolissima disamministrazione. E allora, per questa che sarebbe una storica e grande riforma, che cosa aspettano?

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.