Il coraggio che manca a Meloni, 650 giorni dopo
Il governo arriva oggi a un terzo del suo percorso e un bilancio è possibile. Cinque punti a favore e cinque a sfavore. Il dramma meloniano? Il mollismo, non il fascismo. Guida ai peccati di una stagione, dopo la normalizzazione
Il direttore del Foglio in questa pagina ha spiegato quali sono i principali peccati del governo Meloni e i principali punti di forza. E voi cosa ne pensate? Il Foglio ha deciso di ospitare i commenti dei lettori, per dare un giudizio sul governo Meloni, dopo i primi 650 giorni. Inviate il vostro commento, di mille battute, a [email protected]. Con nome, cognome, professione o corso di studio. I migliori testi saranno pubblicati.
L’obiettivo di questo articolo è molto complicato ed è quello di provare a rispondere a una domanda utile anche per le chiacchiere sotto l’ombrellone: ma il governo Meloni, esattamente, come sta andando, cosa sta facendo, cosa sta sbagliando e cosa dovrebbe fare che invece non fa? L’urgenza della domanda è legata alla presenza di una data simbolica che coincide grosso modo con il superamento del primo terzo della legislatura. Oggi si celebrano, per così dire, i 650 giorni passati da Meloni al governo (è già il decimo più longevo della storia). Se si considera come termine naturale della legislatura il settembre del 2027 siamo circa a un terzo del percorso. Se si considerano come durata massima del governo i 1.412 giorni del secondo governo Berlusconi siamo quasi a metà del giro.
In ogni caso, calcoli a parte, 650 giorni sono più che sufficienti per provare a ragionare, senza divagare, intorno a ciò che è stato fatto e intorno a ciò che non è stato fatto. Il primo problema che si pone di fronte a un giudizio sul governo Meloni è la difficoltà nel districarsi tra ciò che costituisce il rumore di fondo del governo, ovvero il ronzio, e ciò che costituisce l’azione di governo, ovvero la concretezza. Il rumore di fondo del governo è composto da annunci roboanti sulle riforme, posture anti europeiste, dichiarazioni al limite della xenofobia, promesse spericolate sulle tasse. Ma l’azione del governo, spesso, mostra una direzione che va all’opposto rispetto all’agenda delle chiacchiere. E se si osserva la traiettoria dell’esecutivo, senza pregiudizi, si avrà la netta impressione di ritrovarsi di fronte a un’immagine di questo tipo: un’imbarcazione senza motore, che galleggia trascinata dalla corrente, che va nella giusta direzione ma con una certa fatica, e che spesso perde occasioni per andare più veloce senza preoccuparsi di prendere rotte spesso inutilmente complicate.
Fuori dalla metafora. La direzione del governo, sui grandi temi, è quella giusta – e non è poco – e la capacità di non aver sbagliato nulla o quasi sui grandi temi permette ancora oggi a Meloni di avere a sua disposizione molte assoluzioni da diversi peccati. Non si può rimproverare nulla a Meloni, in questi primi 650 giorni di governo, su cinque temi importanti e per nulla scontati.
Primo: il posizionamento sull’Ucraina e l’atlantismo di fondo del governo, nonostante la presenza di un alleato desideroso di spostare il baricentro verso un’altra direzione (la Lega).
Secondo: l’attenzione al debito pubblico, nonostante la presenza di due alleati desiderosi di spostare il baricentro verso un’altra direzione (Lega e Forza Italia).
Terzo: l’europeismo di fondo del governo, voto su Ursula a parte, nonostante la presenza di un alleato desideroso di spostare il baricentro verso un’altra direzione (la Lega con i suoi pericolosi amici patrioti).
Quarto: il decreto “Flussi”, il più importante della storia della nostra repubblica, nonostante una certa predisposizione da parte di due partiti del governo a considerare ogni immigrato come un furfante fino a prova contraria (Fratelli d’Italia e Lega).
Quinto: le riforme sulla giustizia, alcune solo annunciate altre invece avviate, al centro delle quali vi è una saggia volontà di riequilibrare il rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo e di combattere quella stessa cultura della gogna in passato alimentata, foraggiata e coccolata dagli stessi partiti che oggi cercano con credibilità traballante di porsi sulla scena come i nuovi garantisti (Fratelli d’Italia e Lega, partiti garantisti solo quando si trovano al governo, e quindi fintamente garantisti).
I cinque punti elencati, ai quali si potrebbero aggiungere altri fattori positivi (come la partita di Ita), sono importanti. Sono quelli che in questi mesi hanno fatto tirare sospiri di sollievo anche ai non amanti del governo Meloni (noi compresi). Sono quelli che in questi mesi hanno spinto gli investitori a osservare con interesse il nostro paese (e la normalizzazione di una destra un tempo molto pericolosa). E sono quelli che in questi mesi hanno permesso al governo di presentarsi sulla scena internazionale con un profilo molto meno minaccioso rispetto alle attese (ma un conto è costruirsi un credito, un altro è saperlo sfruttare).
La capacità di avere a disposizione alcuni temi in grado di mettere in secondo piano i peccati del governo non è però così accecante da rendere i peccati del tutto invisibili. E in questi primi 650 giorni di governo non si può dire che i peccati non si siano visti. Ne abbiamo individuati, anche qui, cinque.
Il problema principale del governo, oggi, coincide anche con il suo più grande punto di forza: il Pnrr. Senza i soldi del Pnrr, la crescita italiana non sarebbe al livello in cui si trova oggi, l’occupazione italiana non sarebbe al livello in cui si trova oggi, ma nonostante questo l’attenzione del governo sembra essere tutta orientata più sull’ottenere i soldi dall’Europa nei tempi prestabiliti che sullo spendere quei soldi nei tempi fissati. Risultato: al momento, lo sappiamo, i soldi del Pnrr spesi ammontano ad appena il 25 per cento dei soldi ricevuti.
Il secondo grave problema che riguarda il governo Meloni ha a che fare con la drammaticità in cui versa la sua classe dirigente. In 650 giorni di governo, Meloni non è riuscita a combattere il complottismo che non le permette di fidarsi di tutti quelli che provengono da una storia diversa dalla sua. E il risultato, finora, è stato duplice. Da un lato, le uniche nomine che funzionano sono quelle che Meloni ha ereditato dal passato. Dall’altro lato, le nomine che rispondono invece a criteri legati all’appartenenza si rivelano un disastro. L’ultima della serie: Rosanna Natoli, del Csm. Ma l’elenco sarebbe molto lungo e comprende anche importanti cariche dello stato (ogni volta che Ignazio La Russa apre bocca, per Meloni è un problema), comprende alcuni importanti vertici delle partecipate (Terna) e comprende alcuni ministri che Meloni stessa vorrebbe sostituire ma non ha la forza di farlo (Urso). Una novità in vista c’è, però, e coincide con la scelta di nominare al vertice della Ragioneria dello stato, al posto di Biagio Mazzotta, una non meloniana che viene da un percorso diverso rispetto a quello del centrodestra: Daria Perrotta (leggere Carmelo Caruso oggi).
Il terzo problema, forse il più grave, con cui si ritrova a fare i conti il governo Meloni riguarda l’innovazione e l’incapacità assoluta da parte di questa maggioranza di combattere il suo luddismo di fondo. Da Uber alla carne coltivata passando per l’intelligenza artificiale, l’automazione industriale, la promozione della cultura del rischio e la valorizzazione di un made in Italy diversa dalla semplice declamazione della cultura culinaria italiana (mai sentito parlare di robotica, cara Meloni?) è semplicemente un disastro. E il risultato è questo. Un paese che non innova è un paese che non guarda al futuro e un paese che non guarda al futuro è un paese incapace di combattere tutto ciò che mette in fuga i migliori talenti del nostro paese: lo status quo, le rendite di posizione, la dittatura morbida delle corporazioni.
Il quarto terreno importante su cui Meloni ha mostrato finora il suo volto meno efficace è quello che riguarda la sua capacità di incidere nelle nomine che contano. L’elenco lo abbiamo già fatto ma può essere utile sintetizzarlo. Flop sulla candidatura di un italiano alla Bei, flop sulla candidatura all’Expo, flop sulla candidatura alla presidenza del Cnsiglio di vigilanza della Bce, flop sul membro italiano del Single Resolution Board, flop sull’assegnazione della futura Autorità europea per la lotta al riciclaggio, flop sul ruolo dell’inviato per il Fronte sud della Nato, flop nella partita per provare a essere l’ago della bilancia di Ursula von der Leyen e rischio flop nella partita per il commissario europeo (nota a margine: se Meloni otterrà un commissario forte, potrebbe aver ragione chi sostiene che nel segreto dell’urna, come ci ha detto ieri un importante esponente di Forza Italia, almeno dieci europarlamentari meloniani hanno votato Ursula, e questo Ursula lo sa). Anche qui, parlando di nomine europee, Meloni paga il prezzo di non avere una classe dirigente degna di questo nome, paga il prezzo di non avere una strategia in Europa, paga il prezzo di non essere né carne né pesce nelle famiglie europee, paga il prezzo di non aver saputo far propri i civil servants italiani che pure in Europa ci sono.
Il quinto tema, importante, anche se poco battuto, il quinto grave problema con cui si trova a fare i conti oggi la premier, per sua responsabilità, è quello di aver rinunciato a utilizzare i pochi soldi che il governo ha avuto finora a disposizione per provare a essere coerente con una promessa fatta dal governo in campagna elettorale: abbassare le tasse, frustare il cavallo dell’economia, alleggerire la pressione fiscale. Un governo coraggioso, cosa che il governo Meloni è solo in parte, avrebbe avuto il coraggio di intervenire sulla spesa pubblica per rendere più competitivo e attrattivo il paese. Un governo poco coraggioso, come questo, un governo il cui peccato più grande è quello di non avere una strategia di crescita economica, di campare alla giornata, di non riuscire a dare continuità a una politica industriale aperta al mercato, come è stato per esempio su Ita, il massimo che riesce a fare è stato confermare il taglio del cuneo fiscale annuale voluto dal governo Draghi.
Sono molti dunque i campi in cui vi è la sensazione, di fronte al governo Meloni, che si potesse fare molto di più ma pochi quelli in cui vi è la sensazione che non si sia fatto proprio nulla. Ma al netto di questo, 650 giorni dopo, non si può dire che Meloni sia un’estremista, non si può dire che il suo governo sia populista, non si può dire che la maggioranza di oggi abbia punti di contatto con la maggioranza gialloverde e non si può dire che vi siano temi economici seri di finanza pubblica su cui bocciarla.
Quel che si può dire, invece, è che più passa il tempo e più risulta evidente che la caratteristica del governo Meloni è quella di campare, galleggiare, senza fare danni, senza avere il coraggio di guardare al futuro, senza avere la forza di combattere lo status quo, e usando i pochi soldi che l’esecutivo ha a disposizione per accontentare prima di tutto le corporazioni. Il disastro non c’è, ma l’impressione che il governo viva su Marte, che campi di rendita, che abbia paura della sua stessa ombra, è forse qualcosa più di un’impressione: è il manifesto esplicito di un governo che avrebbe tutto per cambiare qualcosa dell’Italia ma che alla fine si preoccupa non di cambiare l’Italia ma di non cambiare i propri sondaggi. Più che il fascismo, cara opposizione, il problema di questo governo è il mollismo, l’immobilismo, a volte il cialtronismo, l’incapacità di guardare al futuro come un’occasione da sfruttare e non come un nemico da cui difendersi. La normalizzazione è in atto, nonostante tutto. E galleggiare, in fondo, significa non fare danni. Ma perdere occasioni significa perdere tempo. E 650 giorni dopo tirare un sospiro di sollievo per i pericoli evitati semplicemente non basta più.