Il Presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera il 18 marzo 2024 (foto Mauro Scrobogna / LaPresse)  

C'è un giudice a Roma ed è lì per difendere lo stato di diritto

Claudio Cerasa

Più libertà, meno catene. Più mercato, meno corporativismo. Più concorrenza, meno rendite: anche in Italia è possibile. Perché, con le ultime sentenze, la Corte costituzionale ha rimesso al centro della vita pubblica alcuni princìpi cardine che in passato sono stati calpestati con disinvoltura

Più libertà, meno catene. Più mercato, meno corporativismo. Più concorrenza, meno rendite. Ma in Italia si può? La famosa espressione “esiste, dunque, un giudice a Berlino” è un’espressione mutuata da una grande opera di Bertolt Brecht all’interno della quale si narra la storia di un eroico mugnaio che lotta tenacemente contro l’imperatore per vedere riparato un abuso. Con grande tenacia, il mugnaio, alla fine, riesce a trovare un giudice onesto che lo aiuta a vincere la causa. In Italia, la frase di Brecht viene spesso utilizzata a sproposito, su casi piccoli, non importanti, marginali, ma c’è forse un ambito in cui la frase di Brecht, c’è un giudice a Berlino, potrebbe non risultare fuori luogo. Un ambito che in verità corrisponde a un luogo insieme fisico e istituzionale e che forse meriterebbe un plauso per tutto quello che negli ultimi mesi ha fatto per difendere alcuni princìpi cardine della nostra democrazia liberale spesso calpestati nell’indifferenza generale.

   

Il giudice a Berlino, in Italia, si trova a Roma, di fronte al Quirinale, e quel giudice coincide con il profilo della Corte costituzionale, guidata da Augusto Barbera, che negli ultimi mesi ha rimesso incredibilmente al centro della vita pubblica del nostro paese alcuni princìpi che in passato sono stati asfaltati con una certa disinvoltura. Cinque su tutti: difesa della concorrenza, difesa del garantismo, difesa del Parlamento, lotta contro la magistratura esondante, battaglia contro la paralisi della firma nella pubblica amministrazione.

 

I casi iniziano a essere molti. A luglio, due in particolare. Uno riguarda la risposta data al ricorso di Marco Cappato sul fine vita. La Corte ha scelto di non assecondare il desiderio popolare di trasformarsi in una supplente della politica, ha scelto di non assecondare il tentativo di alcuni pubblici ministeri di interpretare in modo estensivo le leggi esistenti, ha scelto di non accogliere in nessun modo il generico diritto alla morte, ha scelto di far riferimento nel suo dispositivo soltanto al diritto a rifiutare le cure, da sempre presente nell’ordinamento e che non ha niente a che vedere con l’eutanasia attiva. Sintesi del messaggio: la politica faccia il suo mestiere, i magistrati facciano il loro mestiere e se deve cambiare qualcosa su un tema così delicato non si può chiedere ai giudici di fare il mestiere della politica.

 

L’ultimo, in ordine di tempo, è un altro caso, ed è quello che ha visto la Consulta protagonista nel settore della concorrenza con una sentenza a suo modo storica. Sintesi: fare ostruzionismo contro il servizio di noleggio con conducente, creando cioè dei marchingegni burocratici che rendono impossibile rilasciare nuove autorizzazioni, è contro la Costituzione perché compromette gravemente “la possibilità di incrementare la già carente offerta degli autoservizi pubblici non di linea” e soprattutto ha consentito, per oltre cinque anni, “all’autorità amministrativa di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori”. Qualche settimana prima, a marzo, altra sentenza su un caso analogo. La regione Calabria aveva sollevato davanti alla Corte una questione semplice: se non fosse incostituzionale dare la possibilità alle regioni di offrire solo ai taxi la possibilità di riservare servizi innovativi, a livello tecnologico. La Consulta ha dato regione al governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, ha ribadito il fatto che divieti e oneri per gli ncc devono essere fondati su interessi pubblici e devono essere proporzionati, ha detto che gli ncc possono già da subito erogare servizi innovativi senza bisogno di autorizzazioni preventive, ha affermato il principio che l’innovazione deve essere il cuore del processo competitivo di un paese, ha detto che la regolazione pubblica potrà intervenire a posteriori se ci saranno esternalità negative e ha aiutato a far muovere l’Italia verso una direzione positiva: la creazione di unico mercato per taxi e ncc, all’interno del quale le regole sono uguali per tutti e all’interno del quale qualsiasi regolazione deve avere come obiettivo il benessere del consumatore e la sua libertà di scelta. Vedere una Corte costituzionale che considera le barriere all’ingresso nel mercato come un atto non costituzionale è come vedere improvvisamente una luce in fondo a un tunnel, un’oasi nel deserto, un piccolo miracolo in un paese che ha fatto della difesa della rendita la sua ragione d’essere.

 

Qualche giorno prima, la Corte è intervenuta anche su un altro terreno, più complesso ma non meno importante: il regime della responsabilità all’interno dell’amministrazione pubblica. Niente paura, niente di tecnico. Molto semplicemente, la Corte ha riconosciuto che la responsabilità amministrativa può essere un rischio paralizzante per l’Italia, ha ammesso che bloccare l’amministrazione pubblica ha l’effetto di ostacolare la crescita economica, ha affermato che ostacolare la crescita economica può indurre a comprimere la tutela dei diritti e per questo ha scelto di salvare la cosiddetta disciplina provvisoria che limitava la responsabilità dell’impiegato pubblico in caso di dolo. Nello specifico, la sentenza dice che la disciplina a regime non potrà limitare la responsabilità solo al dolo, perché sarebbe eccessivamente pregiudicata la sua funzione deterrente dei comportamenti macroscopicamente negligenti, e introduce un decalogo per il legislatore (la tipizzazione della colpa grave, un tetto all’entità del risarcimento, la differenziazione del regime di responsabilità a seconda della complessità dell’attività). Messaggio politico chiaro: incoraggiare l’immobilismo delle amministrazioni pubbliche, cavalcando il giustizialismo, è il modo peggiore possibile per provare a difendere la legalità in una grande democrazia.

 

Stesso discorso, se possibile, su un altro aspetto cruciale del nostro paese. Un aspetto che riguarda il mondo della giustizia. Un aspetto che riguarda la capacità del nostro sistema istituzionale, e anche politico, di garantire un principio non negoziabile di una democrazia liberale: la necessità di arginare la presenza di una magistratura desiderosa di utilizzare i pieni poteri per esondare, per uscire fuori dal proprio recinto e per violare alcuni princìpi non negoziabili dello stato di diritto.

 

I casi qui non sono isolati ma sono tre. Con la prima sentenza, siamo nel 2023, la Consulta aveva dato ragione a Matteo Renzi stabilendo che la procura di Firenze non poteva acquisire mail e Whatsapp dell’allora senatore senza preventiva autorizzazione del Senato. La seconda sentenza, siamo ancora nel 2023, è quella che ha dato ragione al Senato e torto alla procura di Torino nel conflitto di attribuzione sul caso dell’ex senatore del Pd Stefano Esposito, che venne intercettato illegalmente per 500 volte mentre era in carica e rinviato a giudizio sulla base di intercettazioni che secondo la Costituzione non dovevano essere effettuate, in quanto le conversazioni erano state ascoltate senza alcuna autorizzazione del Parlamento. A marzo del 2024, ecco un’altra sentenza clamorosa, la numero 41, in cui si dice che, contrariamente a un malcostume diffuso, partendo dal ricorso di un magistrato, quando il pm chiede l’archiviazione per prescrizione non può sputtanare la persona che ha indagato dicendo che è colpevole ma l’ha fatta franca grazie alla prescrizione, non può emettere un giudizio morale negativo senza contraddittorio e che un comportamento del genere da parte di un pm crea i presupposti per la valutazione della responsabilità civile e disciplinare del suddetto magistrato.  

  

Difesa della concorrenza, difesa del garantismo, difesa del Parlamento, lotta contro la magistratura esondante, battaglia contro la paralisi della firma nella pubblica amministrazione. C’è un giudice a Berlino. Si trova a Roma. Nel Palazzo della Consulta. E da mesi è lì che indica spesso alla politica una strada utile per difendere i valori non negoziabili di uno stato di diritto e di una democrazia liberale. Più libertà, meno catene. Più mercato, meno corporativismo. Più concorrenza, meno rendite. Forse in Italia si può.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.