Il governo guidato da Giorgia Meloni è al decimo posto nella classifica dei più longevi della storia repubblicana (Ansa) 

Meloni, ancora uno sforzo. Cosa pensano i lettori di 650 giorni di governo

Il nervoso che sale a discutere del passato della destra, i dubbi sulla classe dirigente, sulle politiche migratorie ed economiche, il plauso per aver rinnegato gli estremismi di ieri

Sabato 3 agosto il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha spiegato qui quali sono i cinque principali peccati del governo Meloni e i suoi cinque principali punti di forza, arrivati a circa un terzo del naturale svolgimento della legislatura. Il Foglio ha deciso di ospitare i commenti dei lettori: la prima tornata di lettere era in edicola ieri con il titolo “Il governo alla cattedra”, ora disponibile online.


     

  

Al direttore - Si dice che il presidente Meloni manchi di alcune qualità ma non di coraggio. Non sono sicuro sia vero. Si può dire che la posizione atlantista sia qualcosa di diverso da una naturale alleanza storica? Non credo. Si può ipotizzare che il sostegno all’Ucraina e a Israele sia una scelta in controtendenza? Sarebbe vero il contrario. Si considera positivo l’avvicinamento a Von der Leyen, dimenticando gli effetti concreti ottenuti (non toccare palla nelle nomine dei top job europei e rivitalizzare il populismo di Salvini) da queste mosse? Penso di no. Meloni non è inciampata in politica estera, ma non ha nemmeno lasciato il segno che i suoi elettori speravano lasciasse. In politica interna il bello deve venire: premierato, autonomia, la tanto agognata riforma della Giustizia, la riforma elettorale, la crisi migratoria… se la metà di queste riforme venisse approvata entro il prossimo terzo di legislatura, sarei soddisfatto. Mancano all’appello politiche concrete per la natalità, un avanzamento serio nello stato dei lavori del Pnrr e l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Prossimo giro, con più coraggio.
Giacomo Bonini,
Consigliere comunale lista civica a Rio Saliceto (RE)

  
Al direttore - Io, da antifascista di tradizione familiare, vorrei dare alla presidente del Consiglio, di cui apprezzo la politica estera e buona parte di quella economica, un’idea che possa darle il turbo e spiazzare l’opposizione. Sia lei a lanciare il progetto di “riconciliazione nazionale”. Come Togliatti, che subito dopo la fine della guerra, amnistiò i fascisti in galera, sia lei a lanciare un appello agli italiani perché sia superata la divisione fascismo/antifascismo di cui sinceramente non sentiamo più il bisogno.
Il paese versa in condizioni gravissime sul piano del debito, dell’assenza di prospettive per i giovani e di distacco sempre maggiore tra nord e sud. Serve rinnovare le ragioni dello stare assieme in un paese uno e forte. 
Serve un nuovo Risorgimento, una nuova chiamata agli ideali dell’Unità nazionale. Se la Meloni dà fiato a questo grande piano epocale, potrebbe davvero restare sui libri di storia per sempre.

Francesco Cuppone
Imprenditore

  
Al direttore - Chi si aspettava che Meloni sarebbe stata la nostra Thatcher ha preso una cantonata. Genuflessione alle corporazioni, punitivismo, crociate contro le partorienti per altri (la pratica più capitalistica che ci sia): questa destra di lib-lib ha combinato ben poco. D’altronde, se i conservatori anglosassoni di ieri esaltavano l’individuo, la globalizzazione, l’interventismo “missionario”, quelli di oggi predicano la comunità, la (piccola) patria, il realismo multipolare. Da Reagan a Trump, dalla Thatcher a Farage. E allora ok, lo Zeitgeist è quello che è, Meloni non leggerà Friedman o Von Hayek, ma almeno al trucismo nazional-populista preferisce un placido conservatorismo italico, a tratti merkeliano: ha accettato di buon grado il vincolo esterno, non ha spezzato le reni alle Ong, ha messo una pezza al Superbonus, s’è intestata una scelta impopolare sul reddito di cittadinanza, non ha sfasciato il welfare, ha chiuso l’annoso dossier Ita, ha mostrato senso dello stato (vedi Caivano). Che dire? Chapeau.
Francesco Calcinari
Studente di Giurisprudenza all’Università di Macerata

 
Al direttore - Da gay-europeista-ambientalista quale sono, il governo attuale è il contrario di quello che vorrei – ma avevo sospeso il (pre)giudizio sperando in tre punti che dovevano essere di forza per Meloni: demografia, riforma fiscale e riduzione del debito, e riforma istituzionale. Sono stato purtroppo deluso. Sulla demografia: ci vorrebbe il congedo di paternità di (almeno!) tre mesi, qualche centinaio di euro al mese per il secondo figlio, e invece solo parole e pochissimi denari. Sulla riforma fiscale: bene Leo, ma si tratta di aggiustamenti minimali, nessuna rivoluzione sulle tax expenditures né sull’erosione della base imponibile Irpef. Meritevole il taglio al taglio delle accise sui carburanti, ma è ormai storia vecchia. Sulla riforma istituzionale: tra tutti i sistemi alternativi (presidenziale, semi-presidenziale, cancellierato) ci viene proposto un obbrobrio disfunzionale mai visto prima; e pensare che “bastava” accordarsi col Pd per un rafforzamento alla tedesca (sfiducia costruttiva più potere di revoca dei ministri al premier), magari mettendoci quel pizzico di riforma del referendum per aggrappare anche il M5s. Sarebbe passata alla storia.
Valerio Verdecchia
Ingengere

  
Al direttore - Dissento in parte sul problema dell’immigrazione clandestina. E’ mai possibile spendere miliardi per un hub in Albania mentre con queste risorse si dovrebbe attuare un piano di alfabetizzazione, di conoscenza della lingua italiana, di acquisizione di competenze professionali di cui l’Italia ha estremo bisogno? L’immigrato non vuole partecipare a offerte di questo genere? Allora è giusto espellerlo dal nostro paese, perché di gente che vive di elemosine, di spaccio, di piccoli furti, di delinquenza non ne abbiamo bisogno. Abbiamo già i nostri che dobbiamo tenerci per forza. 
Cordialmente e con stima.

Giancarlo Maculotti
Ex sindaco di Cerveno (BS)

   
Al direttore - Buongiorno, mi chiamo Salvatore Spano, ho 50 anni e faccio l’autista. Al nostro presidente del Consiglio è venuto a mancare il coraggio che aveva paventato stando all’opposizione. Il coraggio di puntare i piedi per arginare le derive del peggior politico della storia italiana dopo “Giuseppi” Conte, Matteo Salvini. Il coraggio di fare le riforme seguendo uno schema liberale in materia di giustizia per arginare lo strapotere delle procure. Il coraggio delle vere liberalizzazioni e privatizzazioni senza dover sottostare alle varie lobby che tengono in ostaggio questo paese da troppo tempo. Il coraggio di non cadere nella trappola della stampa faziosa facendosi accusare anche di cose assurde, che parlino pure, sono i fatti a fare la differenza. Il coraggio di rompere definitivamente con i gruppi estremisti tipo Casapound dicendo che no, i loro voti non li vogliamo. Il coraggio di liberarsi di personaggi che stanno alla cultura e alla politica come io potrei stare alla fisica nucleare, i vari Lollobrigida Santanchè Sangiuliano ecc. Il premierato sarà un’arma a doppio taglio, meglio una Repubblica presidenziale. Il coraggio di parlare di una nuova Europa, con un esercito europeo, un presidente europeo eletto direttamente dal popolo, un’Europa dei popoli in grado di fare e gestire in accoglienza mirata a un’integrazione intelligente, con fondi europei gestiti in maniera che l’Italia e i paesi del Mediterraneo diventino il polmone di queste accoglienze per poi redistribuire queste persone nei vari paesi in base alle richieste. 
Per il resto va tutto bene. 
Buona lettura.

Salvatore Spano
Autista

 
Al direttore - Caro direttore, concordo su quasi tutto del suo articolo, salvo sulle vere motivazioni del perché di questi cinque peccati. Il vero motivo (che lei ha affrontato marginalmente, forse volutamente) è semplicemente l’assenza di capacità tecniche e politiche di questi governanti. Manca la Qualità, quella con la Q maiuscola. Dei ministri che, salvo pochissimi, siamo a livello dei governi grillini (i cosiddetti “scappati di casa”); dei viceministri che danno l’impressione di esser messi lì perché non c’era proprio di meglio; dei sottosegretari che sembrano presi al bar sotto casa; delle cariche dello stato e delle nomine ha già detto lei. La domanda è semplice: perché il governo galleggia? La risposta è anche: perché non ha le capacità di fare altro. 
Cordialmente.

Alessandro Baldi
Ingegnere

 
Al direttore - Mi limito ad aggiungere due punti a quelli brillantemente esposti dal direttore.
Economia: il declino italiano dipende soprattutto dalla bassa produttività, che principalmente deriva dal nanismo e dall’atomizzazione delle nostre aziende (solo un per cento con più di 250 dipendenti). Le grandi aziende investono in innovazione, evadono meno, sono più produttive. Ma la burocrazia italiana genera obblighi diversi tra piccole e grandi imprese, dissuadendo di fatto le concentrazioni. Meloni nulla fa e farà in questa direzione, perpetrando così sia la favola del “piccolo è bello”, sia il declino.
Cultura: il governo vuole riscrivere la storia mettendo in discussione valori fondanti della nostra Repubblica. Questo passa attraverso uno stillicidio quotidiano di dichiarazioni, percepite singolarmente come innocue, ma che nell’insieme portano verso una deriva oscurantista, una riduzione delle libertà personali (specie di alcune minoranze), sdogana comportamenti che si rifanno a ideologie antidemocratiche.

Giovanni Nalesso
Dirigente d’azienda

  
Al direttore - Seguo l’analisi del direttore in cinque punti. Concordo sul galleggiamento, sull’inerzia prodotta da Draghi, inevitabile nel quadro Ue. Per fortuna tutte le sparate sovraniste sono rientrate. Ma: che cosa ha prodotto il governo per arginare o selezionare l’immigrazione selvaggia? Poco. Che cosa per rendere più dinamica e meno impastoiata l’economia del paese? Niente, a parte la riforma della Giustizia. Che cosa per potenziare due grandi risorse dell’Italia, agricoltura e turismo? Per l’agricoltura temo che Lollobrigida non sia la persona giusta, per il turismo, Santanchè men che meno. 
Come giudicare le persone al governo? O burocrati che parlano da burocrati (Piantedosi) o rancorosi che non vedevano l’ora di sfogare la repressione culturale subita dalla sinistra. Mezze frasi, frasi intere nostalgiche, niente dichiarazioni nette sul fascismo. Sarebbe così semplice: non ti chiedono di vergognarti del Msi, ti chiedono di condannare il fascismo.
Perciò io darei un voto di sufficienza alla Meloni con il consiglio di fare il premier con più distacco e con l’esortazione a cambiare parte della sua squadra di governo.
Saluti. 

Carlo A. Barbieri 
Ex dirigente d’azienda 

 
Al direttore - Giorgia Meloni dovrebbe decidere cosa fare da grande. Se vuole essere capo del suo partito o una statista. In tal caso, anche se molte cose le sta facendo per bene (Ucraina, Israele, collocazione atlantica, reddito di inclusione secondo il chi può lavorare deve lavorare) deve prendere di petto una serie di questioni essenziali, che poi sarebbero in consonanza con il comune sentire della gente che non sta dietro alle ideologie ma bada ai fatti.
In via preliminare, come questione sistematica, risolvere per l’intera legislatura il rapporto con la Schlein mettendola in mora: se vuole fare la leader del collettivo studentesco che va dietro a mille astruserie ed insistere continuamente ed insensatamente sulla pregiudiziale antifascista – già risolta dalla maggioranza degli elettori che ha votato la premier, che ad occhio non dovrebbero essere tutti nostalgici del ventennio – non ci può essere dialogo.
Nel merito, in primo luogo mettere mano alla Pubblica amministrazione. Vera palla al piede del paese, afflitta da inefficienze sbalorditive, con i dipendenti che se la cantano e se la suonano senza rispondere a nessuno. Cogestita dalle organizzazioni sindacali, che decidono le carriere interne, dovrebbe essere rifondata da provvedimenti che introducano meccanismi obiettivi di merito, attendibili carichi di lavoro, che rendano flessibili le mansioni (nella scuola, il bidello non può cambiare una lampadina perché non gli compete e va fatto un appalto; si riscrivano pertanto i profili di reclutamento), che responsabilizzino per i risultati  (per non stare dietro alle insegnanti che si considerano  delle deportate), che rendano omogenei i livelli retributivi a parità di prestazioni lavorative (le differenze stipendiali tra enti pubblici, enti territoriali e vari comparti sono arbitrarie per non parlare del pozzo nero degli emolumenti accessori per progetti, perizie, collaborazioni e indennità di risultati che nessuno controlla).
In secondo luogo, rimettere mano alla giustizia e al suo sistema carcerario neo-borbonico. Introdurre senza patemi d’animo la misura elementare della preselezione psicoattitudinale. Sarebbe un grande passo riformatore. Non tutti, per profilo psicologico, possono fare il magistrato. Salvo a non pensare che psichiatria e psicologia non abbiano lo statuto della scienza. Rivedere il sistema penale, espungendo la miriade di figure di reato non gravi e non caratterizzate dall’uso della violenza. Per tutti gli altri illeciti, valorizzare le funzioni dell’autorità di pubblica sicurezza munendola di poteri sanzionatori e cautelari nell’immediatezza dei fatti, posto che l’autorità giudiziaria non può che agire tardi e lentamente.
Per terzo, ripensare in radice il regionalismo, peraltro secondo l’ispirazione nazionalistica del suo stesso partito. Com’è noto, l’autonomia regionale ha fatto esplodere la spesa pubblica e creato delle sotto repubbliche da operetta. Domani avremo l’ambasciatore del Molise all’Onu? Non ci sono più ragioni perché si continui in questa follia. Una volta poteva giustificarsi con la distanza materiale e metaforica del centro dalle periferie. Oggi, con le distanze fisiche abbattute e l’informatica, Roma, dove accentrare competenza amministrativa e decisioni di visione nazionale, può sapere tutto anche del più piccolo comune d’Italia e interloquire per il meglio. Creare, in questa prospettiva, una camera istituzionale di mediazione regionale non richiederebbe molto sforzo.
Quello che dico, però, richiederebbe coraggio e visione. Ne ha, la Meloni? 

Pasquale Manzo
Ex dirigente di Polizia

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