(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Il giusto sciopero che (purtroppo) Landini non fa

Claudio Cerasa

Jobs Act, autonomia, fascismo, referendum. Il segretario della Cgil parla di tutto, tranne che dei salari. Ma ci sono diversi motivi per cui il sindacato ignora deliberatamente il tema dei temi. Altro che balneari

Ci sono scioperi senza senso, come quello di ieri dei balneari, e ci sono scioperi che avrebbero senso, e che i sindacati non hanno il coraggio di organizzare. Prendete per credere la storia di un sindacalista in particolare, uno famoso, uno noto, uno riconoscibile. Un sindacalista sempre sulla cresta dell’onda ma che incredibilmente pur occupandosi di lavoratori non si occupa dei loro diritti. Pensateci. Questo sindacalista, un po’ speciale, non si occupa del futuro dell’automotive, non si occupa del destino dei lavoratori, non si occupa del domani dell’industria, non si occupa dei risparmi dei pensionati, non si occupa dei contratti decentrati, non si occupa di crescita del paese, non si occupa dei risultati dell’occupazione e pur trovando molto tempo per occuparsi di politica, di referendum, di premierato, di autonomia, di Jobs Act, di fascismo, di 25 aprile, di derive autoritarie ha scelto, va detto in modo coerente, di non occuparsi della prima vera emergenza degli italiani, che pure dovrebbe interessare i lavoratori che finge di rappresentare: i salari. Uno sciopero sui salari, perché no?

 

I dati li conoscete. A luglio, l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha assegnato la cosiddetta maglia nera al nostro paese proprio sui salari. E i numeri sono spietati. Nonostante il livello di occupazione negli stati dell’area Ocse sia ai massimi storici, il nostro paese nel 2023 ha registrato un calo del 6,9 per cento rispetto al 2019. Stessa storia sui salari reali, che tra il 1991 e il 2023 sono cresciuti solo dell’1 per cento contro il 32,5 per cento della media dei paesi dell’Ocse. In complesso nel periodo 2022-23 la crescita del costo orario del lavoro nel settore privato non agricolo, come ha scritto Giuliano Cazzola sul nostro giornale, è stata in media inferiore al 2 per cento all’anno, risultando significativamente meno marcata di quella dei prezzi al consumo. Ne è derivata per i lavoratori dipendenti una perdita netta del potere d’acquisto dei redditi orari, di circa il 10 per cento nel biennio. I salari, in Italia, sono un problema, lo ha ricordato anche il governatore Fabio Panetta, che nelle sue considerazioni di fine anno, a maggio, ha ricordato un dato importante, questo: “I redditi orari dei lavoratori dipendenti sono oggi inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania. In termini pro capite, il reddito reale disponibile delle famiglie è fermo al 2000, mentre in Francia e in Germania da allora è aumentato di oltre un quinto”. Di fronte a questi dati ci si potrebbe aspettare di vedere il segretario del sindacato più grande, più importante e più influente d’Italia impegnato a dedicare ogni sua energia a questo tema, a questa emergenza, a questa priorità. E invece, misteriosamente, il segretario della Cgil sembra essere interessato a combattere su molti temi ma non su questo. Si impegna contro il Jobs Act, ma non parla di salari. Si impegna contro il fascismo, ma non parla di stipendi. Si impegna contro l’autonomia, ma non parla di ciò che dovrebbe fare il suo sindacato per combattere una battaglia che, oltre a essere giusta, sarebbe anche popolare, necessaria, doverosa, e permetterebbe per una volta di far coincidere l’interesse del sindacato con quello del paese. Ci sono varie ragioni per cui l’interesse di Landini, per i salari, è presente solo nel mondo delle chiacchiere e non nel mondo dei fatti. Il primo punto riguarda il modo in cui è fatta la Cgil e non ci vuole molto a capire che un sindacato composto per il 50 per cento di pensionati è naturalmente interessato a occuparsi più di chi non lavora che di chi lavora ancora.

 

Il secondo punto riguarda un problema strutturale della proposta dei sindacati quando si parla di salari. Per anni, Landini ha sostenuto che il modo migliore per occuparsi del tema fosse ridurre il cuneo fiscale. La Cgil ha fissato l’asticella della riduzione dei contributi a carico dei lavoratori con redditi più bassi al 5 per cento. Il governo Draghi prima e il governo Meloni poi hanno fatto più di quello che aveva chiesto Landini, portando la riduzione dei contributi a carico dei lavoratori dal 2 al 7 per cento per i redditi fino a 25 mila euro, e dal 2 al 6 per cento per i redditi fino a 35 mila euro. E di conseguenza anche l’unica parziale battaglia combattuta in questi anni da Landini per i salari è stata superata dai fatti, con il paradosso che il segretario della Cgil, di fronte a due governi che hanno seguìto sui salari l’agenda Landini, ha rimproverato i governi per non aver fatto abbastanza. Ma il terzo punto, forse, è quello più interessante e riguarda l’incapacità del leader della Cgil di prendere di petto il tema dei salari ragionando sul tema dei temi, l’unico in grado di aiutare i lavoratori a migliorare i propri stipendi: la contrattazione decentrata. Landini, in questi anni, ha scelto di puntare sul tema del salario minimo, per parlare di salari, e non di contrattazione decentrata, per una ragione semplice, anzi per due ragioni. Primo: il salario minimo, che risolve i problemi dei salari fino a un certo punto, cioè poco o nulla, aiuta il sindacato a restare forte a livello nazionale, mentre la contrattazione decentrata, che aiuta i lavoratori ad avere contratti tarati su casi specifici, privilegia il rapporto tra le imprese e i sindacati di un singolo comparto, e tagliando fuori i sindacati a livello nazionale è evidente che la contrattazione decentrata, pur aiutando i lavoratori ad avere salari migliori, non aiuta il sindacato dei lavoratori (e dei pensionati) ad avere la possibilità di sventolare bandierine per intestarsi singoli aumenti di salari. Secondo: parlare di salario minimo e di cuneo fiscale aiuta a essere percepiti come un sindacato attento al tema dei salari, ma soprattutto crea un alibi per non affrontare la vera ragione che permette ai contratti decentrati di funzionare. I contratti decentrati permettono ai lavoratori e alle aziende di trovare accordi sui salari legando l’aumento delle retribuzioni alla produttività. Il sindacato nazionale, avendo sempre negato la correlazione tra salari e produttività, cerca di non promuovere quegli accordi perché significherebbe smentire la propria linea. E non ci vuole molto dunque a capire che  senza un supporto dei sindacati, alla fine, in Italia, succede quello che ha fotografato l’Istat ad aprile: il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto, tra marzo 2023 e marzo 2024, è aumentato da 26,6 a 29 mesi, il che significa che meno i sindacati si occupano di fare pressione sulle aziende per portare avanti contratti decentrati, più le aziende se ne approfitteranno per rinnovare i contratti con calma, senza urgenza, senza sentire il fiato sul collo.

 

Nel dramma italiano dei salari bassi ci sono alcuni fattori che emergono con chiarezza alla luce del sole e che riguardano le imprese, gli imprenditori, i capitalisti italiani, che avrebbero tutto l’interesse ad alzare i salari e che scoprirebbero facilmente che alzando i salari cambierebbe anche il deficit di manodopera nelle proprie aziende, e ci sono alcuni fattori che invece non emergono con chiarezza. Uno di questi riguarda l’incapacità del sindacato più grande d’Italia di parlare con chiarezza e senza ambiguità di una delle grandi emergenze italiane. E la ragione per cui, quando si parla di salari, Landini nicchia, fischietta, parla d’altro, non è solo legata al fatto che il segretario della Cgil sta cercando di costruirsi sempre di più un profilo politico che gli consenta di avere una seconda vita quando andrà in pensione (e si capisce che se vuoi fare politica e stare a sinistra in Italia incalzare i proprietari di uno dei gruppi editoriali più importanti d’Italia può non essere il massimo, vedi i silenzi di Landini su Stellantis, sulla sua fuga dall’Italia, sul lento disimpegno dal nostro paese). Ma è legata al fatto che per la Cgil occuparsi fino in fondo dei diritti dei lavoratori significa dover fare i conti con i propri vizi e i propri tabù. E il risultato, alla fine, è questo: la Cgil vuole abolire una delle leggi che hanno aiutato di più l’Italia ad assumere lavoratori negli ultimi anni, il Jobs Act, e non dedica attenzione all’unica soluzione che aiuterebbe l’Italia ad avere salari più alti, lavoratori più felici, aziende più sane, ovvero la contrattazione decentrata. Si scrive realpolitik, si legge ipocrisia. Qualcuno forse, a Landini, dovrebbe iniziare a chiedere il conto. E se vi chiedete perché il segretario della Cgil protesta su tutto ma non sui temi cruciali per i lavoratori, forse leggendo questo articolo avrete capito il perché.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.