le opinioni
Scannarsi su Meloni. Girotondo su 650 giorni di governo
Governo promosso in politica estera e per le promesse non mantenute, ma ondivago in Europa. Rimandato, con il rischio bocciatura, in economia: troppe cautele, poco coraggio nella politica industriale e nell’innovazione
“Il coraggio che manca a Meloni, 650 giorni dopo”: sabato 3 agosto il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha spiegato quali sono i cinque principali peccati del governo Meloni e i suoi cinque principali punti di forza. Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato alcuni commenti selezionati dei lettori. Oggi è la volta di idee e opinioni dei foglianti.
Le due “posture” di Giorgia Meloni. Il problema è scegliere quella giusta
C’è un problema trasversale che unisce i punti positivi e i peccati capitali esposti dal direttore Claudio Cerasa. Un problema di “postura”. Quale postura ha scelto Giorgia Meloni nel suo ruolo di presidente del Consiglio? Quella di capo del governo di un paese importante dell’Unione Europea o quella di capo di un partito che deve regolare i conti dopo decenni di minorità? Quando sceglie la prima postura Giorgia Meoni azzecca molte cose, quando si accomoda nella seconda prigioniera del diavoletto che ha guidato buona parte della sua carriera è un disastro dietro l’altro. Uno degli errori più grandi dovuti alla postura sbagliata è stato la nomina a una delle più importanti cariche dello stato di un personaggio divisivo e gaffeur come La Russa. Una carica che poteva servire per unire il paese e magari costruire un’ipotesi seria per la prossima presidenza della Repubblica è invece diventata una fonte inesauribile di divisioni e di polemiche di basso livello. Per non parlare di cadute di stile come l’incredibile polemica sul sesso di una pugile, degna al massimo di qualche capobastone di seconda linea. I cinque peccati capitali derivano da lì, dal prevalere della postura sbagliata. Frutto anche di un calcolo sbagliato. Quello per cui scegliendo di contrapporsi frontalmente alla leader della sinistra, giudicata debole, la partita si sarebbe giocata a suo favore. Calcolo sbagliato fino al punto che persino pezzi del centro, leggi Renzi, non pregiudizialmente ostili al governo, potrebbero finire dall’altra parte. Qual postura prevarrà dopo il giro di boa? Se vuole allargare il suo consenso Giorgia Meloni deve cercare di guardare otre i sui ristretti confini. Assumendo la postura giusta.
Chicco Testa
Bene non aver cancellato la “Fornero”. Male il “no” all’Europa
L’attuale governo è promosso per non aver fatto gran parte di quello che aveva promesso in campagna elettorale. In particolare, non ha cancellato la riforma Fornero, la bestia nera del ministro Matteo Salvini. Nell’ultimo Documento di economia e finanza (Def) viene spiegato che la riforma delle pensioni, introdotta nel 2012 dal governo Monti, deve restare in vigore perché consente – almeno per ora – di tenere i conti in ordine. Una retromarcia tardiva, ma almeno è arrivata. Del resto, il racconto che è prevalso negli ultimi anni, quello della staffetta generazionale (come dimenticare Salvini che assicurava che per ogni anziano in pensione ci sarebbero stati tre giovani nel mondo del lavoro?) non è più credibile: il tasso di sostituzione è stato di 0,45, ovvero mezzo nuovo assunto per ogni sessantaduenne che ha lasciato la sua occupazione. Spazi per altri schemi di prepensionamento davvero non ci sono. I numeri, del resto, parlano chiaro. Il paese invecchia, la speranza di vita aumenta e il tasso di natalità scende. In un simile contesto, servono più persone al lavoro e non più persone in pensione. Il rischio è quello di minare la sostenibilità della nostra spesa pensionistica.
Quindi, dei nostri conti pubblici nel complesso. E, qui arriviamo all’ambito in cui il governo è bocciato: il “no” all’Europa. Un paese come il nostro, che ha un debito pubblico in rapporto al pil al 147 per cento e in crescita, deve far parte del processo decisionale europeo. Aver votato contro il programma presentato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è un errore che avrà delle conseguenze. Non è in questo modo che si fanno gli interessi degli italiani che ogni anno spendono solo per il servizio del debito circa 85 miliardi, quindici in più di quelli destinati all’istruzione. Peraltro, la spesa per interessi è la più iniqua in assoluto. Sottrae risorse alla collettività, quindi meno fondi per trasporti, scuola, sanità, per distribuirle ai creditori dello stato che non sono la componente più fragile della società. Con il ritorno del Patto di stabilità e crescita ci aspettano anni duri. Il debito dovrà essere messo in una traiettoria decrescente in modo credibile. Tradotto: meno spesa pubblica o più tasse. Peraltro, la politica fiscale restrittiva dovrà essere attuata in una fase in cui serviranno (molti) finanziamenti per far fronte alle nuove sfide. A cominciare dalla sicurezza che richiede una difesa comune. Ovvero debito comune che molti paesi europei non sono disponibili a condividere con noi. Non sarà facile incidere su questi dossier dopo il “no” di Meloni a von der Leyen. Per contare bisogna far parte del gruppo che decide. Serve, soprattutto, avere un commissario con un portafoglio economico che difficilmente potremmo ottenere. A questo proposito, continuare a ripetere che non ci saranno conseguenze perché l’Italia è la terza economia europea e la seconda potenza manifatturiera non aiuta.
Finita la luna di miele, è scattata una sindrome pavloviana: l’egemonia culturale (teoria e pratica illiberale), i favori ai ceti “improduttivi”, il familismo, la promozione degli amici di fronte alla evidente carenza di personale politico competente, la reazione identitaria (dalla ecologia al genere), la forzatura sul premierato, una politica europea zigzagante, tutta tesa a cercare il nemico (ora la Francia di Macron, senza dimenticare la Germania di Scholz), la scelta dopo tanti tentennamenti di non convergere al centro e non sostenere Ursula von der Leyen, la tentazione del gesto solitario ed eclatante. L’ultimo esempio è il trattato firmato a Pechino con importanti concessioni alla Cina senza, a quanto pare, nessuna consultazione con gli Stati Uniti. Vedremo come si collocherà sullo scontro Trump-Harris. Sono scelte dovute soprattutto al capo del governo, ma più tempo passa più tutto si concentra a Chigi, o meglio nel Palazzo.
Stefano Cingolani
Con le ultime mosse ha preso il sopravvento l’ossessione per i nemici
Nel dicembre scorso, quando Giorgia Meloni era ancora lontana dal traguardo dei 650 giorni di governo, Ernesto Galli della Loggia spiegava sul Corriere che il destino politico della premier dipendeva dalla sua capacità di scegliere fra una “destra d’ispirazione conservatrice e una destra espressione di un movimentismo nazional-populista… la prima è estranea al settarismo di partito, la seconda vi si alimenta. La prima è attenta a non incrinare l’unità del paese, la seconda è ossessionata anzitutto dai propri nemici”. L’editoriale inseriva il dilemma in un quadro politico vantaggioso per Giorgia Meloni, opposizione divisa, maggioranza poco bellicosa, immagine internazionale positiva, sondaggi in crescita. E tuttavia conteneva già una venatura pessimista che si è rivelata profetica guardando alle ultime mosse della premier: il no al bis di Ursula von der Leyen e ancora, il giorno precedente, il no alla mozione di censura nei confronti di Orban per le modalità e i contenuti della visita a Mosca. Contraddittorio rispetto all’atlantismo professato fin lì. E prima ancora il pasticcio dei veti, forse con finalità negoziali, ma sostanzialmente fallimentare, su Mes e Patto di stabilità. Per non parlare del capitolo identitario, scivolate sulla strage di Bologna, attacchi scomposti ai media e accuse, spesso preventive, alle opposizioni. L’ossessione per i propri nemici ha insomma preso il sopravvento. In realtà ancor di più se questi sono collocati a destra, vedi Matteo Salvini. Il potere di trascinamento del vicepremier leghista su ogni dossier, politico, economico, culturale, internazionale, vedi le relazioni con Le Pen e Trump, sta minando l’azione di governo e la qualità della leadership. È un’esca cui Meloni sembra sempre più spesso abboccare e che drasticamente abbassa i voti in pagella. In tutte le materie.
Alessandra Sardoni
Garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione: binomio inconciliabile
In materia di giustizia, questo governo nasce già come un “ircocervo” giustizial-garantista: “garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione”. Un binomio inconciliabile. Le parole d’ordine della “certezza della pena” hanno rinchiuso il governo in una gabbia che ha impedito di assumere quei provvedimenti di decompressione del sovraffollamento necessari per dare risposte adeguate alla tragedia del carcere con i suoi sessantadue suicidi. Non classificato. Sul riformismo garantista ha pesato la perdurante massiccia presenza della magistratura fuori ruolo all’interno del ministero. Sarebbe stata sufficiente una riforma dell’ordinamento giudiziario che modificasse tale assetto, anziché ratificarlo. Pessimo l’ampliamento del concetto di “criminalità organizzata” con il quale si estende irragionevolmente l’ambito di applicazione dei più intrusivi strumenti intercettativi. Ddl Sicurezza e dl Caivano: troppe e troppo prolungate le assenze ingiustificate del diritto penale liberale. Bocciato. Luci e ombre nel ddl Nordio, che accanto alla abrogazione dell’abuso d’ufficio ha resuscitato il peculato per distrazione. Sulla giusta strada l’abolizione dell’appello del pm, tuttavia limitato ai soli processi monocratici dove le impugnazioni dei pm sono irrilevanti. Quanto all’estensione delle garanzie in materia cautelare, l’introduzione dell’interrogatorio anticipato vede troppe eccezioni ed eccessivi poteri del pm nell’escluderne l’applicazione. Rivedibile l’introduzione della decisione collegiale sulle misure cautelari per ricadute incerte. Interessanti gli interventi che riducono la diffusione degli atti processuali e delle intercettazioni. Brilla l’emendamento che restituisce finalmente efficacia alla tutela della segretezza delle comunicazioni fra difensore e assistito, storica rivendicazione dell’avvocatura a tutela dell’inviolabilità del diritto di difesa. L’impegno, sebbene incostante, va sostenuto. La parola garantismo aveva da anni abbandonato il vocabolario governativo. Per la riforma costituzionale della separazione delle carriere: rinviato a settembre...
Francesco Petrelli
Un governo positivamente conservatore, con qualche dissipazione
Il bilancio provvisorio del governo Meloni stilato da un vero conservatore, dunque da un osservatore che non divide il mondo in destra e sinistra ma in conservatori e dissipatori (vulgo progressisti). Il governo Meloni ha portato varie innovazioni, alcune di queste sono dissipazioni che eviterò di elencare per non rattristarmi, per non rattristare, perché comunque è tutto vano (un vero conservatore non ha come riferimento Sangiuliano e nemmeno Prezzolini, che pure è un altro pianeta, ha come riferimento l’Ecclesiaste e sa che “omnia vanitas”). Ma soprattutto perché immagino che il prossimo governo sarà peggiore (un vero conservatore è realista, sinonimo di pessimista). Cosa c’è di positivamente conservatore nel governo Meloni? C’è che il capo del governo è nato in Italia da genitori entrambi italiani. C’è che è di religione cattolica e porta un nome cristiano. C’è che è un genitore e un genitore vero, naturale (essendo una donna ha partorito con dolore). Desumo che sia eterosessuale. Per quello che ne so hanno analoghi meriti i due vicepresidenti, Salvini e Tajani, così come il sottosegretario alla presidenza, Mantovano (escluso il parto perché sono giustamente tutti maschi e niente dolore, solo un attimo di piacere). Degli altri ministri e sottosegretari non saprei dire con certezza ma le apparenze (ciò che davvero conta per un conservatore, rispettoso dell’intimità altrui e propria) fanno supporre biografie simili. Pensate che questi dati siano politicamente irrilevanti e comunque poca cosa? Ho capito, nella sfera di cristallo non vedete nulla: beati voi.
Camillo Langone
Il governo dopo 650 giorni? Promosso. Anzi no, bocciato. O viceversa
Che cosa penso dei primi 650 giorni di governo? Promosso o bocciato? La mia risposta in proposito è una non risposta: promosso, anzi, no, bocciato, o se volete, bocciato, anzi no, promosso. In questi 650 giorni di governo Meloni il mio giudizio è mutato quasi a giorni alterni. Mi sono riconosciuto più volte e mi riconosco tuttora nelle posizioni assunte dal governo sulla guerra in Ucraina e sulla guerra tra Israele e Hamas. È sicuramente un bene per l’Italia aver tenuto la barra dritta su questioni così decisive. Governo promosso, dunque. Poi però ogni tanto si ascoltano parole di autorevoli membri dello stesso governo che vorrebbero andare in un’altra direzione e così il giudizio traballa.
Un giudizio complessivamente positivo, nonostante le ambiguità emerse in questi mesi, lo darei anche per i rapporti che il nostro governo ha saputo costruire con l’Europa e con la presidente della Commissione europea. Poi però il voto contrario del partito di FdI all’elezione del presidente della nuova Commissione fa pensare a una brutta battuta d’arresto. Nel complesso, per quanto riguarda la politica estera in generale, direi comunque che in questi 650 giorni la premier Meloni meriti la promozione.
Per il resto, un resto in verità molto succulento, poiché si tratta di premierato, autonomia differenziata, riforma della giustizia, provvedimenti per la sanità, condivido senz’altro gli intenti, ma vedo come una sorta di sproporzione tra questi e la capacità del governo di realizzarli per davvero. Insomma promosso e bocciato nello stesso tempo.
Se la cosa può aiutare chi legge a non prendere troppo sul serio questi miei giudizi, si sappia che, avendo un’inclinazione naturaliter negativa nei confronti dei governi in generale, sento sempre di dover compensare giudicando con benevolenza.
Sergio Belardinelli
Nessun disallineamento in politica estera. Tra le cose peggiori, la Rai
Ogni governo di destra parte con un vantaggio: non farà mai peggio dello scenario apocalittico che ci aspetta. Doveva succedere di tutto: svolta autoritaria, regime, manganelli, ginnastica al mattino obbligatoria, lotta alle devianze, scrittori esiliati, epurazioni, discriminazioni brutali, caccia libera ai migranti, assalto ai diritti, Chiara Ferragni scatenatissima sul divieto d’aborto nelle Marche peggio che in Texas. Chi fa il tifo per l’emergenza democratica resta poi deluso (“però… credevo peggio”). Oppure deve alzare il tiro, come Canfora, “Meloni è neonazista nell’anima”, bum! Per esempio, credevo peggio in politica estera. Faccine e faccette a parte qui si è vista la Giorgia migliore (cioè quella che smentisce sé stessa e la truce campagna elettorale che l’ha portata a Palazzo Chigi). Ottima sull’Ucraina, su Israele, sulla visione atlantica, sulla Nato (tutte cose su cui del Pd mi fido meno). Nessun disallineamento. Niente strappi “all’ungherese”. Tra le cose peggiori, forse al primo posto la Rai. Un’ossessione per l’egemonia culturale fuori tempo massimo. La solita destra col “complesso dei peggiori”. Una lottizzazione da principianti col colpo di coda, ora, della privatizzazione, magari, chissà, vedremo (l’abbiamo sentita più volte del Ponte sullo Stretto). Ci si riconosce in un governo che dice “la ricchezza non la crea lo stato, il lavoro non si crea per decreto, la povertà non si abolisce per decreto”, poi però poco, pochissimo, quasi nulla di liberale in economia, ma tasse, stato, aumento dell’Iva, persino sugli assorbenti. Una destra molto ossessionata dal gender ma scarsina sulle politiche per la famiglia (ma ‘sti asili nido gratis per il secondo figlio?). Prima ancora di rilanciare la natalità, si potrebbe iniziare con quella che c’è già. Parlo del governo, ma dovrei dire Giorgia. Perché da seicentocinquanta giorni mi sembra di essere governati solo da lei. Giorgia unica preferenza, Giorgia capolista, “scrivete Giorgia”, l’agenda Italia e l’agenda di Giorgia: una, binaria e trina. Come personalizzazione della politica è un upgrade anche rispetto ai governi del Cav. o al primo Renzi, “arrivo, arrivo!”. “Giorgia spostati che voglio vedere un po’ il governo”, verrebbe da dire. Poi però si sposta, e capisci che era meglio prima.
Andrea Minuz
Giorgia Meloni, il paradosso della prima donna premier italiana
Giorgia Meloni sta vivendo nel silenzio una condizione paradossale. È la prima premier donna del nostro paese, una delle poche e più giovani in Europa, forse del mondo, e la cosa sembra non interessare nessuno.
Le danno di psico-nana, melona, occhi basedovici, pesciaiola… – qualifiche che nei confronti di un leader maschio nessuno ha mai osato – ma alle femministe, alle sacerdotesse della lotta contro il body shaming, la cosa non sembra interessare per nulla. Gli stessi giornalisti che hanno seguito con passione perfino le scarpe di altre premier, e hanno criticato o ammirato donne più anziane e meno attraenti di lei come la Merkel per le loro giacchette, non dicono una parola sui suoi vestiti. Tranne la lodevole eccezione di Natalia Aspesi, non proprio l’ultima venuta. Invece Meloni sa usare a fini politici il suo essere una donna giovane, e anche la sua condizione di vita di madre single. Ma tutti gli osservatori lo ignorano. La sua condizione esibita spesso di madre single che coinvolge la figlia bambina negli impegni internazionali, il suo sorriso aperto che sembra conquistare i leader negli incontri internazionali, suscitando una certa simpatia personale, fanno certo parte del suo messaggio politico. Non sarebbe il caso che qualcuno lo dicesse, e magari si congratulasse anche per la determinazione con la quale si è liberata di un compagno poco adatto? Ma quando si parla di Meloni la mente corre solo al fascismo, all’eterno conflitto ideologico italiano, e non ci si accorge del mondo che cambia.
Lucetta Scaraffia
Nella politica economica finora si è vista solo molta cautela
Il governo italiano in carica gode di una vasta maggioranza parlamentare, affermatasi in libere elezioni. Questo non va mai dimenticato, in un mondo in cui prevalgono regimi autocratici o esplicitamente dittatoriali, ma sono anche presenti governi democraticamente eletti e tuttavia minoritari e instabili. Dice: ma è un governo neofascista! Intanto è un governo di coalizione fra tre partiti, almeno uno dei quali, Forza Italia, ha tratti di moderatismo centrista. Se ci si riferisce al partito di gran lunga più grande dei tre, Fratelli d’Italia, non si può non osservare l’emergere di nostalgie e rivendicazioni che sanno di vecchio Movimento sociale italiano, ma, almeno finora, più nelle dichiarazioni a uso interno che negli atti di governo. Il fascismo, sventura italiana della prima metà del secolo scorso, è da tempo consegnato al giudizio degli storici. Nella politica economica, principale oggetto di queste considerazioni, finora si è vista solo molta cautela. Gli obiettivi sono chiari: non mancare l’occasione del Pnrr; non allarmare i risparmiatori del mondo, che hanno in mano i titoli del debito pubblico italiano e altri dovrebbero comprarne; poi il più importante di tutti, presupposto e conseguenza degli altri due: aiutare lo sviluppo economico italiano a porsi finalmente su una traiettoria più alta, dopo avere quasi ristagnato per un quarto di secolo. Il primo obiettivo era ed è arduo da raggiungere, per la cronica incapacità di investire del settore pubblico italiano; lo sforzo prosegue, entro l’anno capiremo meglio. Per il secondo obiettivo sarà decisiva la prossima legge finanziaria: teniamo presente che non è tanto il livello del debito pubblico di un paese a preoccupare i risparmiatori quanto la percezione che le dinamiche del bilancio pubblico siano sotto serio controllo, senza sortite demagogiche. Il terzo obiettivo dipende da tanti sospirati interventi strutturali: qualche timido tentativo c’è stato, ad esempio nella giustizia, ma il grosso resta da fare, anzi da programmare. Governo promosso o bocciato in politica economica? Diciamo rimandato.
Salvatore Rossi
Abbiamo davvero imparato la lezione dell’emergenza pandemia?
È stato a tutti ben evidente che l’emergenza Covid ha trovato il nostro sistema decisamente impreparato: strutture non pronte a gestire situazioni di crisi, grande debolezza nel ruolo del medico di famiglia, assenza della medicina scolastica, fragilità delle Rsa, scarsa disponibilità di posti di terapia intensiva, il tutto unito a una debole cultura di gestione della macro emergenza sanitaria. L’unica cosa che ci ha salvati è stata la grande professionalità e il profondo senso di responsabilità di medici, infermieri e personale sanitario. Eroica disponibilità, ben oltre le proprie competenze e funzioni, molti si sono sacrificati pagando a caro prezzo la loro dedizione al lavoro.
Durante quei terribili mesi ci dicevamo, quasi a consolazione nella tragedia, che le emergenze sono un momento importante per imparare. Citando Darwin, ci si diceva che se saremo bravi, il paese rinascerà più forte, strutturato e organizzato. Dopo quattro anni è assai difficile dire se abbiamo effettivamente appreso le lezioni di quella terribile emergenza o se abbiamo semplicemente voluto rimuovere dalla memoria quel tragico periodo. È difficile dire quale sia oggi lo stato di preparazione del sistema, ben oltre la predisposizione di un fascicolo denominato piano pandemico: quanto le strutture del territorio hanno investito in preparazione, predisposizione di scorte, formazione del personale; non ho letto molto negli ultimi mesi in proposito. Ad esempio, mi colpì molto il fatto che nei primi mesi della pandemia rilevavo l’assenza in importanti dicasteri di strutture dedicate alla gestione di emergenze nazionali, nessuno di questi ministeri disponeva di un dipartimento dedicato allo scopo. Oggi mi auguro che almeno scuola e salute stiano seriamente valutando questa ipotesi.
I vaccini: altro tema di scontro più che scientifico direi politico, argomento sul quale ho l’impressione che abbiamo imparato ben poco, anzi rischiamo un processo di recessione seguendo deliranti affermazioni di quanti, politici, giornalisti e pseudo scienziati, hanno voluto cavalcare teoremi che non solo hanno contestato l’efficacia dei vaccini ma hanno alimentato un clima di sfiducia scientifica sul valore salvifico di questo straordinario strumento della scienza e della cultura medica. È più che legittimo e giustificato indagare sul possibile abuso e malversazione nel commercio e distribuzione dei vaccini, altra cosa è contestare il loro intrinseco valore; un esercizio che non esito a definire criminale per i rischi che comporta. E questo purtroppo è quello che mi pare residui dall’esperienza dell’uso del vaccino contro Covid 19, che, piaccia o meno ai teorici negazionisti, ha salvato milioni di vite in tutto il mondo.
Agostino Miozzo
Per la politica estera governo promosso. Con una sola ombra: i rapporti con l’Ue
Mi convince soprattutto la politica estera del governo: appoggio senza tentennamenti all’Ucraina, eccellenti rapporti con l’America, posizione equilibrata ma non equidistante sulla questione israeliana. Anche la proposizione del piano Mattei, anche se per ora più che altro retorica, indica una volontà di contrastare la penetrazione russa e cinese in Africa, che rappresenta un pericolo non solo per l’area mediterranea. Se penso a quanto sarebbe difficile per il fronte delle opposizioni, fortemente influenzato dal “pacifismo” a senso unico, tenere una linea altrettanto ferma, me la sento di dare una promozione. Naturalmente ci sono anche le ombre, soprattutto nei rapporti con l’Unione europea, anche se non mancano le attenuanti: la volontà di emarginare la destra italiana da parte della maggioranza dell’Europarlamento qualche volta sconfina nella discriminazione dell’Italia e questo rende davvero difficile la costruzione di rapporti equilibrati.
Sulle riforme istituzionali, invece il governo va rimandato, perché non riesce a trovare una soluzione che renda compatibili gli obiettivi, il premierato e l’autonomia differenziata (di per sé accettabili secondo la mia opinione), con i vincoli di un sistema che resta parlamentare e con l’esigenza di garantire servizi quanto più possibile omogenei ai cittadini di ogni parte del paese. Promossa invece la svolta garantista sulla giustizia.
Sulla politica economica contano i dati, che sono più positivi di quelli francesi o tedeschi, ma naturalmente questo dipende più dalla insperata vitalità delle imprese che dall’azione del governo, che non ha fatto un granché, e forse ha fatto bene a non ingerirsi troppo (visto che quando lo fa, come in agricoltura, suscita più problemi di quanti ne risolva).
Sergio Soave
Politica economica all’insegna di un vittimismo efficace ma costoso
Lavoro. Il tasso di occupazione è aumentato al 62,1 per cento, ma siamo ancora 8 punti sotto la media Ocse del 70,2 per cento. La disoccupazione è scesa al 6,8 per cento, ma la media Ocse è al 4,9 per cento. Il decreto “1° maggio” del 2023 ha risentito del contrasto “propaganda/opposizione ideologica” sul lavoro, contribuendo a complicare le norme del nostro mercato del lavoro, tra i più diseguali d’Europa. Il lavoro “povero” si concentra nel terziario, con bassi salari e condizioni sfavorevoli. Secondo l’Employment Outlook 2024 Ocse, nel primo trimestre del 2024 i salari reali italiani erano ancora inferiori del 6,9 per cento rispetto al 2019. Il calo dei salari più forte dei paesi Ocse.
Produzione industriale: -2,8 per cento I dati Istat mostrano che a giugno 2024, rispetto a giugno 2023, la produzione industriale è calata del 5,6 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 la flessione è stata del 2,8 per cento. In epoca sovranista: l’acciaio viene importato da Germania e Turchia, l’Ilva è praticamente chiusa e si producono in Italia un terzo delle auto immatricolate. Dal 2021, Stellantis ha perso 11.000 posti di lavoro. In preda alla schizofrenia, i dazi europei sulle auto cinesi vengono attenuati con i “bonus tricolore” ed elusi facendo assemblare le auto cinesi in Italia. Con scarsa ricaduta occupazionale e industriale. Gli ultimi governi hanno perso l’investimento di Intel nei semiconduttori, parzialmente recuperato con Silicon Box.
Innovazione: il piano “Transizione 5.0”, che contiene gli incentivi per l’innovazione industriale per il 2024 e il 2025, è arrivato con grande ritardo, provocando un generale rinvio degli investimenti. Le risorse disponibili (circa 6,3 miliardi) sono inferiori rispetto ai piani di altri paesi. Speriamo, almeno, che spingano davvero l’innovazione senza finire in altri rivoli. È stata pubblicata la strategia sull’intelligenza artificiale, che denuncia i ritardi nella digitalizzazione in ogni ambito ma promette “leadership europea”.
Record di debito, deficit e tasse. Il deficit è ai livelli pandemici e il fabbisogno di cassa è attorno ai 100 miliardi. Il carico fiscale, spinto dal fiscal drag è a livelli record.
Giudizio finale: le promesse elettorali sono state in larga parte disattese, con un’eccezione: i tassisti e balneari in testa alle classifiche per evasione fiscale. Nonostante tutto, il governo riesce a discutere quotidianamente su temi ad “alto tasso di indignazione” per distrarre dagli insuccessi, promettendo di risolvere i problemi con i titoli di provvedimenti legislativi (quello sul taglio delle liste d’attesa nella Sanità, particolarmente grottesco). È un governo “ripetente”: nel senso che ripete gli errori dei governi precedenti ma utilizza meglio vittimismo e distrazione di massa. L’opposizione per adesso risponde a colpi di “meme” senza proporre un’agenda alternativa.
Marco Bentivogli
Serietà sui conti pubblici, ma occorre fare di più per l’industria
Di positivo c’è l’atteggiamento di grande serietà che si è voluto mantenere sui conti nelle prime due Finanziarie, in particolare grazie alla fermezza del ministro Giorgetti che ha stoppato diverse pretese da campagna elettorale che non stavano né in cielo, né in terra e, soprattutto, che i mercati finanziari (da cui dipende il nostro debito, a causa nostra, mica perché sono “cattivi loro”) ci avrebbero fatto pagare pesantemente. Sarà davvero complicato – e un Def così spoglio di numeri e previsioni lo evidenzia plasticamente – mantenere ordine nei conti pubblici anche nella prossima legge di Bilancio, soprattutto a fronte di spinte propagandistiche e ideologiche che purtroppo sono una costante. Forse, aver scollinato le europee permette di avere un periodo in cui poter pensare meno ad accondiscendere il proprio elettorato e di più a intraprendere azioni strutturali per l’aumento della produttività del sistema Italia. Cose che alle urne pagano poco sul breve, ma che fanno tanto bene al paese. Ci vuole coraggio, vedremo quanto ne avrà questo governo. Ad oggi, verso l’industria, lo dico con grande rammarico, sentiamo non sia stato fatto un lavoro sufficiente. Abbiamo visto tanta attenzione verso settori a bassissimo valore aggiunto, la difesa di rendite di posizione anticoncorrenziali, nessuno scatto nel favorire la ricerca e lo sviluppo, non una visione di medio-lungo termine per quanto riguarda la politica industriale. Vediamo se lo sblocco effettivo del Piano Transizione 5.0 – che nella bontà delle intenzioni, presenta purtroppo diverse criticità che contiamo possano essere comunque affrontate e risolte – possa rappresentare quel cambio di passo che non solo è necessario, ma assolutamente urgente.
Laura Dalla Vecchia, presidente Confindustria Vicenza
L’importanza di far parte di una rete di congiunti
Non c’è alcun dubbio che nella storia della Repubblica italiana, il governo Meloni è quello che ha fatto di più per la famiglia. La famiglia della premier, s’intende. La grande opera di Giorgia Meloni, in questi 650 giorni di governo, è stata aver portato l’impresa familiare da istituto giuridico dell’ordinamento italiano a essere l’ordinamento italiano stesso. Nel 1975, quando questo istituto fu riconosciuto e regolamentato per la prima volta, nessuno avrebbe potuto immaginare che cinquant’anni dopo sarebbe diventato forma di governo, classe dirigente, spoils system, merito e curriculum in Rai. L’altra grande novità è l’idea di famiglia che c’è alla base: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la famiglia meloniana è tutt’altro che conservatrice o tradizionale; la famiglia che intende Meloni è allargata: a parenti acquisiti, amici, amici degli amici, parenti acquisiti dagli amici degli amici dei parenti acquisiti di altri amici – del cognato. Questa rivoluzione fu anticipata, forse intuita, da Giuseppe Conte: fu lui il primo, quando fu premier durante la pandemia, ai tempi dell’autocertificazione, a mettere l’accento giuridico sulla figura del congiunto. Lì l’Italia capì, o avrebbe dovuto capire, l’importanza di far parte non di un partito, non di un salotto, non di un club o di una parrocchia, né tantomeno di una lobby o di una loggia massonica, ma di una rete di congiunti. Sicuramente lo capì Giorgia Meloni, ed eccoci qua.
Saverio Raimondo