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Italia assetata

Contro i falsi miti sulla siccità. Cinque lezioni necessarie per il governo dell'acqua

Giulio Boccaletti

In Sicilia è di nuovo emergenza idrica. Ai piedi delle Alpi i temporali si trasformano in torrenti per le strade. E torna il dibattito sterile sul clima che cambia. Competenze, investimenti, decisioni: ecco cosa serve per superare l'allarmismo e risolvere una questione ricorrente

Parliamo di siccità. Di nuovo. La Sicilia è in grave difficoltà da varie settimane. Altre regioni italiane, dall’Abruzzo alla Sardegna, passando per la Puglia stanno affrontando scarsità crescenti di acqua. Si parla di emergenze, perdite di rete, razionamenti, nuovi invasi, quelli vecchi da mantenere, invasi piccoli, grandi invasi, falde e pompe, desalinizzazione e riuso, insomma l’arsenale delle discussioni che si fanno ogni qual volta manchi l’acqua. Nel frattempo, per non farci mancare nulla, temporali ai piedi delle Alpi buttano giù occasionali e improvvisi fiumi d’acqua che eccedono la capacità di deflusso delle infrastrutture urbane. Mi sono occupato di questi temi in giro per il mondo per diversi anni. Ho scritto un paio di libri sull’argomento. Vorrei fare cinque considerazioni in merito a ciò che sta succedendo. Qualcuno – non io, ovviamente – potrebbe definirle cinque ipocrisie del dibattito in cui cadiamo ogni qual volta il paese si trovi ad affrontare la siccità. Preferisco chiamarle cinque “brevi lezioni”, nello spirito di cercare di contribuire al dibattito. Ve le riassumo in testa a questo articolo perché sintetizzano quello che credo sia lo stato di fatto. 


Prima lezione: fingiamo stupore sapendo benissimo che la siccità non è una novità in Italia. Seconda: quando succede guardiamo al cielo, invece di guardarci allo specchio. Terza: parliamo di perdite di rete per evitare di affrontare il territorio. Quarta: qualcuno deve pur pagare per sbloccare gli investimenti che ovviamente servono. Quinta: dobbiamo accettare che le discussioni si concludano con una decisione. Andiamo con ordine.


Per la prima, spero mi perdoniate il colloquialismo: questa roba non è una novità. Chi è sorpreso da quanto sta succedendo o ha vissuto sulla Luna, o se ne è disinteressato e dovrebbe sentirsi in obbligo di tacere.  

Che in Italia ci sia un problema serio di adattamento a condizioni materiali estreme, è cosa nota. Il 15 luglio il Cnr diramava un comunicato stampa lamentando cali delle precipitazioni del “50 per cento al nord, del 30 per cento al centro, del 50 per cento al sud e del 60 per cento nelle isole”. Contestualmente, gli invasi registravano volumi ridotti della metà e il caldo portava enorme evaporazione. Si doveva intervenire con scorte di foraggio per evitare di perdere il bestiame. Il comunicato stampa in questione però non è del 2024. È del 2002

Capite bene che stupirsi di ciò che sta succedendo ora è quanto meno inelegante. Non perché l’evento in sé fosse prevedibile, ma perché a fronte di eventi come questo, sappiamo di essere mal preparati da decenni


Questo non significa, come qualcuno dirà, che le siccità ci sono sempre state e che quindi parlare di cambiamento climatico non c’entra. Si direbbe un’emerita sciocchezza. Il cambiamento climatico si esprime non nel singolo evento, ma nella trasformazione della distribuzione statistica, nella frequenza e profondità degli eventi medi. Il passato ci dice che siamo impreparati ad affrontare eventi estremi di questo tipo. Ma è del tutto evidente che se essi accadessero una volta per ogni generazione ci si potrebbe legittimamente interrogare sulla necessità di fare interventi strutturali per una rarità. Ma rari, questi eventi, non lo sono più.


Sappiamo che il clima sta cambiando. Decenni di studi e, ormai, anni di osservazioni ci dicono che uno spostamento di questa statistica sta succedendo eccome. Da decenni sappiamo anche che il pianeta si sarebbe riscaldato. E ora abbiamo serie storiche sufficientemente lunghe per vedere che la temperatura sul pianeta sta aumentando, e lo fa in maniera non uniforme. Sappiamo che l’Europa si sta riscaldando più del resto dell’emisfero, in media. Il Mediterraneo più del resto d’Europa, in media. E sappiamo anche che questo riscaldamento cambia le statistiche meteoclimatiche in Italia, con probabili siccità più frequenti e profonde, e fenomeni temporaleschi più intensi.
 

Guardate che non siamo i soli ad avere questo problema. Il fatto che il Mediterraneo sia un cosiddetto hot-spot climatico non significa che sia l’unico.  

Una magra consolazione per la situazione nella quale ci troviamo è che siamo in buona compagnia. Anche altri faticano ad affrontarla. Dall’ovest degli Stati Uniti al nord della Cina, il mondo è pieno di comunità che, abituate ad avere tutto più o meno sotto controllo, faticano ad aggiustare il proprio comportamento e il proprio territorio a fronte di condizioni materiali che cambiano. Un fatto emerge chiaramente dai dati osservati in tutti questi luoghi, incluso l’Italia: la siccità e la sua parente stretta, l’alluvione, sono fenomeni sempre più presenti nel rapporto delle società umane con il proprio ambiente. E sono il sintomo di un fallimento gestionale a fronte di un clima che cambia. Richiedono una pianificazione consapevole, investimenti e scelte mirate per mitigarne gli impatti. Insomma, siamo impreparati per fenomeni che sappiamo diventeranno più frequenti. A noi la prossima mossa.


La seconda lezione: smettiamo di guardare al cielo e guardiamoci allo specchio.  Come tante cose in questo mondo – facili da identificare quando le si vede, ma di difficile definizione – la siccità elude definizioni strettamente scientifiche, perché non è un fatto esclusivamente geofisico. Qui ci si può facilmente perdere in semantica – non voglio passare troppo tempo su un punto piuttosto tecnico – ma val la pena chiarirsi in termini generali. 

L’Organizzazione meteorologica mondiale definisce la siccità come una carenza di precipitazioni “prolungata e significativa”. Questa definizione descrive la cosiddetta siccità meteorologica, vale a dire una riduzione anomala della precipitazione piovose o nevose su un intervallo che può andare da una stagione a vari anni, e dove l’anomalia è misurata come deviazione dalla distribuzione statistica di quella località. Il problema di questa definizione è che non coglie l’essenza della siccità di cui stiamo facendo esperienza in Italia

Per esempio, la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, definisce la siccità in base alla percentuale di anni durante i quali il raccolto agricolo collassa a causa di poca acqua. Questa è una definizione operativa più vicina a ciò che stiamo discutendo. Una definizione diversa serve perché può succedere che piova meno del solito ma che le persone non se ne accorgano. Tutto dipende dalle condizioni a terra, e quelle – in gran parte – le controlliamo noi. La siccità di cui si parla normalmente è una siccità idrologica – non c’è abbastanza acqua nei sistemi idrici controllati da noi per soddisfare tutte le esigenze – o al più agro-ecologica – le coltivazioni e gli ecosistemi che gestiamo non hanno sufficiente acqua a disposizione per crescere e maturare in maniera completa. 


Tutte queste definizioni hanno in un punto in comune: la siccità è un periodo di durata definita, durante il quale la quantità di acqua disponibile, in qualsiasi forma essa sia, non è sufficiente a soddisfare la domanda. L’atmosfera sarà anche responsabile ultima per la quantità di acqua che raggiunge il territorio, ma la nostra esperienza della siccità è dovuta a come noi rendiamo quell’acqua disponibile per i nostri usi. È per questo che è così difficile essere precisi su cosa costituisca la siccità. È una malattia, la gravità dei cui sintomi cambiano a seconda delle condizioni del corpo che ne soffre. E delle cure che decidiamo di adottare


Un’analogia forse aiuta a capirsi. L’esperienza media dell’acqua di un contadino italiano del 1900 era sostanzialmente indistinguibile da quella di uno del 1200. Se pioveva, c’era l’acqua. Se pioveva troppo, il fiume si portava via la casa. La maggior parte del paese viveva di agricoltura. Se c’era la siccità, non si mangiava. Arrivati alla fine degli anni '60 – l’arco di una singola generazione – nessuno guadava più alcun fiume andando al lavoro, il miracolo industriale italiano era stato alimentato dall’ingegnerizzazione delle Alpi a colpi di idroelettrico, tutti aprivano il rubinetto per avere l’acqua in cucina, gli argini proteggevano la gran parte del territorio, e l’Italia industrializzata era diventata un esportatore potente di eccellenze agricole. La maggior parte del paese viveva di servizi e industria.


La differenza nell’esperienza dell’acqua, in quell’intervallo di circa settant’anni, non l’ha fatta il clima, che pure è cambiato a causa dell’aumento delle temperature nel corso del Ventesimo secolo. L’ha fatta il paese, con scelte territoriali, investimenti e sviluppo economico. Il clima sta cambiando molto più rapidamente di quanto non abbia fatto in passato. Lo sappiamo. Ma ciò che dovremmo chiederci, a fronte di questo, è: che cosa vogliamo fare di questo territorio in un clima diverso? Su quali coltivazioni vogliamo puntare? Che stile di vita vogliamo avere? Quali industrie vogliamo sviluppare? Queste sono le domande che dovrebbero guidare la nostra reazione a un contesto materiale che cambia. Rispondere ad esse, o scegliere di non rispondere come stiamo facendo, spetta a noi. Se il territorio è una macchina con la quale viaggiamo verso il futuro, il problema non è solo cambiare o migliorare il veicolo. È chiedersi dove vogliamo andare.


La terza lezione si sintetizza in un’esclamazione: non sono le perdite di rete! Questa è forse la questione su cui si perde più tempo. Se a fronte della siccità, vi trovate a parlare solo di perdite di rete e non di agricoltura, non state parlando né del problema giusto né della soluzione centrale. La siccità in Italia è un problema agricolo e di territorio

Mi direte: ma allora i razionamenti alle città? Ma allora, le perdite di rete? I primi sono la conseguenza di una cattiva pianificazione dello stoccaggio, che parte molto spesso dai bisogni dell’agricoltura. Le seconde sono un problema diverso la cui soluzione, pure importante, non è centrale per risolvere la siccità. È evidente che, a fronte di mancanza di acqua e con domande che competono per riserve insufficienti, città che hanno reti come un colabrodo faticano a sostenere i servizi agli utenti. Ma il problema centrale è la mancanza d’acqua e avere bisogni che competono per riserve che non bastano. Non il fatto che poi non si sia in grado di trasportare acqua potabile alle case. 


Il principale uso terrestre di acqua è la fotosintesi. Sull’Italia intera cadono circa 250-300 miliardi di metri cubi di acqua all’anno e la metà non arriva né in falda né in fiume perché intercettata dalle radici delle piante, usata per fotosintesi e, infine, traspirata verso l’atmosfera. Tutti gli ecosistemi forestali italiani e la gran parte dell’agricoltura dipendono da questa parte della precipitazione. Dei 30 milioni di ettari di territorio, stiamo parlando di circa 28 milioni coperti da piante – campi, prati, e foreste – dove il volume d’acqua intercettato, la metà di ciò che cade, è circa 15 volte quello che tutto il paese usa per il potabile. Tutta quest’acqua non vede mai un tubo. Letteralmente


C’è poi la questione di quanta acqua necessitino le piante. Dipende da tanti fattori: non solo le condizioni climatiche in cui si trovano, ma anche le loro caratteristiche biologiche, il loro stadio di crescita, le proprietà fisiche e chimiche del suolo e così via. Un’insufficienza di acqua si traduce in una carenza di acqua nel corpo della pianta, che ha poi un impatto sul suo metabolismo e sviluppo. Nei casi più estremi, processi fisiologici alterati bloccano la crescita, mettendo a rischio la produzione. Quando c’è siccità, la produttività può diminuire dal 30 al 90 percento a seconda della specie di pianta, del tipo di prodotto raccolto, e dello stadio di sviluppo della pianta al momento della raccolta. 

Ciò che importa per la produzione, oltre alla durata e severità della siccità, è la sua tempistica rispetto alle diverse fasi dello sviluppo della pianta. Il clima mediterraneo è storicamente benigno. Piove quando serve. È per questo che, in Italia, l’irrigazione è prevalentemente supplettiva, cioè supplisce alle piogge quando piove meno ma la pianta deve continuare a crescere. Quasi nessuna coltivazione in Italia dipende esclusivamente dall’irrigazione. È anche per questo che i dati sull’uso delle risorse per irrigazione, che in Italia variano a seconda delle condizioni climatiche ma che in genere sono da due a quattro volte gli usi potabili e industriali, danno un’idea fuorviante del vero peso idrico dell’agricoltura. L’acqua usata per irrigazione, che si estrae da ciò che corriva nei fiumi o da ciò che si raccoglie in falda, è in realtà una piccola frazione dell’acqua di cui l’agricoltura ha bisogno.
E poi ci sono le condizioni dell’atmosfera. Quando si parla di siccità non si intende solo poca pioggia. L’atmosfera è anche dove, alla fine, tutta l’acqua torna. Il potenziale dell’atmosfera di assorbire acqua dipende dalla sua temperatura, dall’umidità relativa, dalla velocità del vento e dal bilancio radiativo (la quantità di radiazione solare e superficiale che contribuisce all’energia che entra nella colonna atmosferica). Se le temperature sono alte, i venti forti o l’umidità relativa bassa, l’evaporazione dai corpi d’acqua e la traspirazione dalle piante aumenta, anche a parità di precipitazione, e la quantità di acqua a disposizione diminuisce.


C’è anche da dire che l’impatto delle condizioni atmosferiche dipende dalla storia cumulativa del territorio, non solo dalle condizioni meteo in quel momento. Se c’è sufficiente umidità nel suolo, un potenziale di assorbimento più alto in atmosfera – di solito correlato con temperature e radiazione più alte – potrebbe corrispondere a un aumento della produzione. Ma se c’è poca umidità nel terreno, un potenziale atmosferico più alto implica stress sulle piante e una riduzione della produzione. Quindi un deficit idrico ha un effetto diverso se negli anni precedenti il terreno ha assorbito acqua a sufficienza, invece di aver sofferto un deficit per vari anni. 
La siccità è un processo che si sviluppa nel tempo e che dipende dalle condizioni di partenza del territorio. Questo diventa ancora più importante nella gestione di un altro potenziale sintomo di cui sentiamo parlare sempre più spesso assieme alla siccità: gli incendi. Che un campo o una foresta si trasformino in una riserva di combustibile pronto a esplodere non dipende solo da cosa succede oggi, ma dall’evoluzione del territorio nel tempo. 
Insomma, quando si parla di siccità, cosa cresciamo, quando mietiamo, cosa è successo al territorio nel passato, come suppliamo ai deficit, queste sono le domande centrali e hanno tutte a che fare con la gestione del territorio, non con i tubi.


La quarta lezione, pare banale dirlo, è questa: costruire e gestire infrastrutture per supplire ai deficit del territorio costa soldi. In finanza si parla spesso di liquidità. È una metafora che dobbiamo a Keynes, ed è curiosa perché i soldi chiaramente non sono acqua – nessuno beve euro – ma l’acqua che vogliamo, accessibile dove e quando ci serve, al livello di qualità richiesto, è invece interamente una questione di soldi. Questo è un punto fondamentale. 
Quando parliamo di acqua si parla spesso di natura, o di bene comune. Ma la nostra esperienza di acqua è interamente mediata da noi. L’acqua non è comune ma pubblica, vale a dire dello stato, che poi può darne la gestione in concessione. E il valore dell’acqua nel mondo moderno non è la molecola, ma il fatto che possiamo averla quando e come ci serve. Ha poco di naturale. La natura è ciò che il contadino del 1200 più o meno vedeva, non ciò di cui abbiamo esperienza noi (ci sarebbe molto da dire sul valore che degli ecosistemi e sulla funzione che essi hanno nella gestione dell’acqua – lasciamo il tema per un’altra volta.)


Qui le perdite c’entrano eccome, perché non saranno una soluzione strutturale alla siccità ma sono sicuramente uno spreco di soldi. Potabilizzare l’acqua costa circa un euro per metro cubo. In Italia si usano una decina di miliardi di metri cubi di acqua per il potabile. Con perdite di rete medie intorno al 30 per cento, stiamo letteralmente buttando giù per lo scarico 3 miliardi di euro all’anno. Tra l’altro, l’ironia della nostra situazione è che mettere a posto quelle stesse perdite costerebbe all’incirca 3 miliardi di euro all’anno per i prossimi vent’anni. In altre parole, non costerebbe nulla mettere a posto la distribuzione in Italia. 
Perché allora non riusciamo a sistemarle queste benedette reti? Perché mancano capacità finanziaria e, in alcuni casi, tecnica. Possiamo sprecare meno soldi, ma dobbiamo spenderne per risparmiarli. In Italia le tariffe del servizio integrato sono troppo basse per dare agli enti una sufficiente base di introiti per farsi prestare i soldi necessari a fare gli investimenti. Il tubo che non perde lo devo comprare quando lo metto a terra, anche se poi mi risparmia acqua per i prossimi vent’anni. In più il territorio italiano è complicato e comuni piccoli (la stragrande maggioranza in Italia) hanno poche competenze tecniche mentre, gli enti di ambito, spesso sottodimensionati, faticano a definire, commissionare, e sorvegliare i lavori. 

Senza soldi, competenze, e incentivi è veramente un mistero che ci siano questi problemi? La realtà è che il servizio idrico che abbiamo è il prodotto di trent’anni di polemiche su come governare un sistema infrastrutturale complesso, dalla legge Galli in poi, con dibattiti infiniti e manichei su cosa sia giusto fare, sui cattivi che ci vogliono rubare l’acqua o i corrotti che non investono i soldi che diamo loro. Per carità, i problemi e il malaffare ci sono – come ovunque nel mondo – ma la realtà è che non siamo disposti a pagare il servizio che vogliamo. La nostra tariffa è metà di quella francese e un terzo di quella tedesca. 


Detto questo, e una volta deciso quale territorio vogliamo avere nei prossimi anni, le infrastrutture strategiche non sono quelle della distribuzione potabile – pure importante – ma quelle che assicurano sufficiente stoccaggio o disponibilità di risorsa quando non ne viene abbastanza dal cielo. A parità di bisogni idrici, la costruzione di invasi, canali, sistemi di irrigazione, il pompaggio da falda, la desalinizzazione e il riuso possono supplire acqua a un sistema che altrimenti sarebbe in crisi. Questa è stata la ricetta fondamentale della modernità nel Ventesimo secolo: le società più ricche hanno costruito infrastrutture proprio per rendere il territorio resiliente, trasformando l’idrologia naturale in idraulica funzionale all’industrializzazione. E per fare tutto questo bisogna investire risorse finanziarie.  


Qui è importante capire che “la soluzione” non è una tecnologia, ma un portafoglio di tecnologie e pratiche di gestione dimensionate sul problema da risolvere. Sempre. Per di più, diverse tecnologie risolvono problemi diversi. Gli invasi piccoli non sono la stessa cosa degli invasi grandi. Questi ultimi hanno una risposta diversa all’evaporazione e sono tipicamente dimensionati per gestire variabilità pluriannuali, non stagionali. La produzione da falda è tipicamente correlata alle precipitazioni, e una sua gestione integrata richiederebbe investimenti in monitoraggio e sorveglianza che non abbiamo. 


E ancora, la desalinizzazione non è la stessa cosa di un sistema di captazione della pioggia. Produce acqua potabile, disponibile 24 ore su 24 a un costo che è decine di volte più alto di ciò che può sostenere la maggior parte dell’agricoltura di oggi, che invece non ha bisogno di acqua potabile e disponibile giorno e notte. Questo sarebbe vero anche se utilizzassimo le rinnovabili per desalinizzare tutto – e pure se l’energia fosse gratis. La risposta non è “la desalinizzazione”, come sostiene Elon Musk, nello stesso senso che la risposta alla sostenibilità nostra e delle future generazioni non è la colonizzazione di Marte. Questo non vuol dire che la desalinizzazione non serve. Certo che serve. Ma non come unica risposta a tutto. La siccità non è un chiodo e non abbiamo martelli
Tutto ha un ruolo e un costo. Il lavoro è risolvere il problema giusto a un costo accessibile. E poi avere i soldi per pagarlo quando serve.


La quinta e ultima lezione è questa, ed è in un certo senso la più importante. In un paese assuefatto dalla polemica, alla fine qualcuno deve poter prendersi la responsabilità di decidere. In maniera il più condivisa possibile, certo. In consultazione con le varie parti, naturalmente. In maniera legittima e con tutti i contrappesi necessari, ovviamente. Ma poi qualcuno deve poter prendere una decisione e andare avanti. 

La responsabilità dei problemi che stiamo osservando e discutendo in questa torrida estate italiana non è del clima o dell’ingegneria. È la nostra incapacità di decidere cosa vogliamo. Per superare questa impasse è importante riconciliarsi con una realtà ineluttabile: la gestione dell’acqua, ovunque nel mondo, è un universo di soluzioni sub-ottimali. Ci vogliono anni per costruire infrastrutture idrauliche e ancora di più per vederle in azione. Una infrastruttura matura, venti o trent’anni dopo la sua costruzione, esiste in un mondo che non poteva essere immaginato da coloro che l’hanno progettata. 


Le infrastrutture idrauliche italiane sono per lo più il prodotto del primo dopoguerra. ChatGPT è stato annunciato alla fine del 2022. Nessuno si sarebbe potuto immaginare questa rivoluzione solo tre anni fa, figuriamoci 30 o 60. È un esercizio diffuso quanto inutile giudicare le scelte del passato con il senno di poi. Non può sorprendere che si stiano rivelando inadeguate a una trasformazione della società e del clima che nessuno avrebbe potuto immaginarsi a quel tempo. 
Data l’impossibilità di immaginare come sarà il mondo nel 2050, si rischia di passare tutto il tempo a disquisire di chi ha la sfera di cristallo migliore. L’amministrazione vera non è un mondo di piani perfetti, ma di scelte imperfette e correzioni di tiro. Si fa il meglio che si può. 


Poiché costa fare, disintegrare le decisioni in migliaia di piccole decisioni locali senza capacità finanziaria, garantisce il far nulla, che è poi il problema che abbiamo nel nostro paese. L’Italia dell’acqua, complici riforme istituzionali poco lungimiranti e un’atomizzazione della capacità di finanziamento e spesa, è diventata un paese di riunioni di condominio permanenti senza amministratore. Ci si infervora a discutere di questioni tecniche perché in realtà non si può fare altro. Questa è una lezione importante specie quando la sussidiarietà territoriale è considerata da alcuni un valore assoluto. La dimensione dei fenomeni idrici e il costo della loro soluzione non si cura particolarmente dei nostri desideri amministrativi.  

Dobbiamo decidere cosa vogliamo. E per farlo, dobbiamo avere istituzioni in grado di decidere e di finanziare le decisioni che hanno preso. A scriverlo sembra una banalità ma, in fondo, la soluzione ai nostri problemi idrici parte da lì. 

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