L'editoriale del direttore
Svelare il mistero Fitto: i test che si nascondono dietro la sua indicazione a Ursula
Ecco perché il nome del nostro ministro per gli Affari europei come Commissario in Europa è un test di credibilità per la classe dirigente meloniana, ma è anche un pugno in un occhio per l'opposizione antifascista e per l'oscena repubblica fondata sulla gogna
L’indicazione di Raffaele Fitto come candidato dell’Italia per un posto di peso nella nuova Commissione europea sarà ufficiale da oggi pomeriggio, alla fine del primo Consiglio dei ministri successivo alla pausa estiva, e permetterà agli osservatori di riflettere con attenzione attorno ad alcuni temi interessanti incarnati dalla figura dell’attuale ministro per gli Affari europei, per la Coesione e per il Pnrr. Il primo elemento, quello più fattuale, ha a che fare con l’eredità politica di Fitto sul dossier più importante, che è quello del Pnrr, e i numeri da tenere a mente sono quelli scritti nero su bianco lo scorso 16 luglio nella relazione presentata dal governo. A fronte di una dotazione complessiva di 132 miliardi di euro per le misure che richiedono procedure di affidamento, si legge nel report, “gli interventi attivati ammontano a 122 miliardi di euro (92 per cento del totale), mentre gli investimenti per i quali sono state espletate le procedure di affidamento hanno un valore pari a 111 miliardi di euro (91 per cento delle misure attivate)”. Questi numeri non sono esaustivi, naturalmente, ma sono quelli che hanno permesso a Fitto di dimostrare, anche al Quirinale, che il Pnrr tutto sommato va, che il grosso del lavoro è stato fatto e che trovare un sostituto che gestisca la baracca non sarà un’impresa impossibile.
Il secondo elemento interessante, osservando la traiettoria di Fitto, riguarda un aspetto che il ministro, ex governatore della Puglia ed ex ministro del governo Berlusconi, rappresenta all’interno del panorama politico del mondo meloniano. Si dice spesso, e a ragione, che la classe dirigente che gravita attorno alla presidente del Consiglio non è all’altezza, non è al passo con i tempi, non è altro che la riproduzione in larga scala della sezione romana di Colle Oppio. Nella maggior parte dei casi è così, e il fatto che attorno al melonismo la fedeltà conti spesso più del merito non è un’invenzione dei suoi avversari. Ma il caso di Fitto dimostra che chi sostiene che attorno alla presidente del Consiglio vi sia l’assenza assoluta di una qualsiasi forma di classe dirigente degna di questo nome forse ha sbagliato qualche calcolo. E da questo punto di vista il profilo ultra democristiano, se così si può dire, di Raffaele Fitto, il cui padre, prima della scomparsa in un incidente stradale nell’agosto del 1988 era a sua volta un democristiano e che prima del figlio è stato presidente della regione Puglia, è l’altra faccia della luna del mondo meloniano. Quel mondo che i nemici di Meloni si ostinano a non voler vedere. Europeismo, moderazione, trasversalità, anti estremismo, antifascismo e passaggio strategico da una stagione di opposizione demagogica a una stagione di pragmatismo di governo.
L’immagine del governo cugino dei fasci di Acca Larentia, devoto dei busti di Mussolini custoditi nel soggiorno di Ignazio La Russa, ostaggio dei follower di CasaPound di fronte al profilo mite di Raffaele Fitto perde ulteriormente peso, consistenza e credibilità e non è difficile immaginare che quando a inizio a ottobre, una volta che riceverà le deleghe da Ursula von der Leyen, vedremo quali, vedremo quanto pesanti, vedremo quanto aderenti al patto sottobanco che esiste tra Ursula e Meloni, Fitto si ritroverà a farsi votare dalle commissioni competenti riceverà i voti anche di alcuni partiti, come il Pd, che di solito descrivono il partito di cui Fitto fa parte, Fratelli d’Italia, come l’incarnazione del demonio in terra. La traiettoria di Fitto, o se volete il paradigma Fitto, è gustosa per tutte queste ragioni.
Ma lo è anche per una ragione che c’entra poco con gli ingranaggi della politica europea e c’entra molto con le perversioni della politica italiana. Una in particolare: la sottomissione del potere legislativo, e del potere esecutivo, al potere giudiziario. Da questo punto di vista, la storia di Fitto è esemplare all’interno di un ambito specifico e speciale che potremmo sintetizzare brutalmente così: lezioni utili agli osceni professionisti del ricatto giudiziario, abituati a trasformare i sospetti delle procure in sentenze definitive. Nel 2006, subito dopo aver perso le elezioni con Nichi Vendola in Puglia, Fitto venne indagato dalla procura di Bari. L’accusa è grave: corruzione. Il 20 giugno del 2006 la procura di Bari chiede alla Camera dei deputati l’autorizzazione a procedere per mandare agli arresti domiciliari Fitto: se avesse vinto le elezioni o se non fosse finito in Parlamento la richiesta di autorizzazione a procedere non ci sarebbe stata e sarebbe finito automaticamente agli arresti. La Camera, quel giorno, respinge l’autorizzazione all’arresto (457 voti favorevoli su 462 presenti).
Tre anni dopo la procura di Bari chiederà il rinvio a giudizio a Fitto, ritenuto colpevole, oltre che di corruzione, anche di associazione per delinquere, peculato, concussione, falso, abuso d’ufficio e illecito finanziamento ai partiti. A fine anno, a dicembre, il gup rinvierà a giudizio Fitto per abuso d’ufficio, per due episodi di corruzione, per finanziamento illecito ai partiti e per peculato. Fosse stato un governatore di regione, e non un deputato, la carriera di Fitto sarebbe finita lì. Passa il tempo, passano quattro anni, e Fitto viene condannato in primo grado. È il 2013, notare i tempi della giustizia, soprattutto quella pugliese, e Fitto viene condannato in primo grado a quattro anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici. Passano ancora due anni e arriverà la sentenza in appello. Indovinate un po’: il fatto non sussiste (nel 2017 la Cassazione confermerà l’assoluzione in appello).
Se quel giorno del 2005 la politica avesse scelto di assecondare il mostro del circo mediatico-giudiziario, oggi Fitto non sarebbe dove si trova, la sua carriera sarebbe stata distrutta, la sua storia sarebbe stata dimenticata e Meloni non avrebbe avuto un volto presentabile con cui mostrare all’opposizione l’altra metà della luna del governo, con cui provare a consolidare in Europa il rapporto che nonostante tutto continua a esserci con von der Leyen e con cui provare a dimostrare all’opinione pubblica italiana che ribellarsi al ricatto della repubblica della gogna si può, basta solo volerlo, basta solo saper scegliere da che parte stare. In bocca al lupo.