l'editoriale del direttore
I punti del patto segreto Meloni-Ursula
La non fiducia concordata. I voti offerti a Ursula seppur non esplicitati. La garanzia di avere un commissario che "conti quanto la Francia". Patto o pacco? Ecco da cosa si misurerà il successo o il flop di Meloni in Europa
Patto o pacco? Al termine del Consiglio dei ministri di ieri, pochi istanti dopo aver ufficializzato l’indicazione di Raffaele Fitto come candidato italiano per il ruolo di commissario europeo, Giorgia Meloni ha consegnato ai suoi interlocutori una frase sibillina, che riguarda il futuro del ministro Fitto ma che riguarda anche il futuro, e la reputazione, del governo Meloni. “Nonostante veda molti italiani che tifano contro un ruolo adeguato alla nostra nazione, non ho motivo di credere che quel ruolo non verrà riconosciuto”. Giorgia Meloni non lo può dire esplicitamente ma ciò a cui fa riferimento è un non detto che forse andrebbe esplicitato: il patto di ferro che il capo del governo italiano avrebbe con la presidente della Commissione europea, nonostante il voto contrario espresso lo scorso 18 luglio da Fratelli d’Italia al Parlamento europeo in occasione della votazione di Ursula von der Leyen. Fino a oggi, in molti hanno sostenuto che questo patto di ferro fosse basato sul semplice rapporto personale tra Meloni e von der Leyen e sulla necessità da parte della presidente della Commissione di non penalizzare il paese che esprime la seconda potenza manifatturiera dell’Europa e la terza economia del continente. Le informazioni raccolte dal Foglio nell’ultima settimana con alcune fonti qualificate illuminano una realtà molto diversa all’interno della quale il patto tra Meloni e von der Leyen ha una dimensione tutt’altro che aleatoria. Il tempo ci dirà se il patto resterà tale o diventerà un pacco, lo scopriremo a fine settembre quando sarà chiaro come verrà inquadrato Fitto all’interno della Commissione, ma quello che può essere utile mettere insieme sono i punti principali del patto, non smentibili dai diretti interessati.
Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 18 luglio, nel giorno in cui Ursula viene votata in Parlamento. Quel giorno, qualcuno ricorderà, la delegazione di Fratelli d’Italia decide di non far sapere fino all’ultimo il suo voto, salvo poi, una volta completata la votazione, rendere nota la sua contrarietà alla candidatura di Ursula. Il patto nasce da qui. È stata Ursula a chiedere a Meloni di far votare contro la delegazione di Fratelli d’Italia. E la ragione è semplice da capire: il sostegno esplicito a Ursula da parte di un partito che fa parte di un gruppo europeo vicino all’estrema destra avrebbe potuto accrescere il fuoco amico nei confronti di Ursula all’interno del gruppo dei socialisti. Ed è stata ancora Ursula a chiedere a Meloni di non far sapere fino all’ultimo il modo in cui avrebbe votato Fratelli d’Italia. E anche qui il calcolo di Ursula è semplice da capire: se i voti contrari dei meloniani fossero stati dichiarati molto prima della votazione, i franchi tiratori, sapendo che una delle possibili stampelle di Ursula era venuta meno, avrebbero potuto prendere coraggio e avrebbero potuto provare a sabotare la sua candidatura.
Nel patto tra Ursula e Meloni c’è però un non detto che conoscono tutti i vertici di Fratelli d’Italia: dei ventiquattro parlamentari di FdI al Parlamento europeo sono tra i sette e gli otto quelli che nel segreto dell’urna hanno garantito un sostegno a Ursula, un terzo, e anche questo dettaglio fa parte del patto tra la presidente della Commissione e la premier italiana. Sintesi: il no di Meloni a Ursula, no ovviamente che a Meloni ha fatto comodo, anche per non offrire ai Patrioti argomenti utili per denunciare il tradimento della premier, che votando per Ursula avrebbe votato insieme con i socialisti, è un no pilotato, concordato, definito nei minimi dettagli. Ed è un no che fa parte di un patto all’interno del quale si trovano alcune promesse fatte da Ursula a Meloni.
La prima promessa è politica: sui temi su cui la Commissione e l’Italia hanno collaborato in modo proficuo negli ultimi mesi, immigrazione e Piano Mattei in primis, il sostegno di Ursula resterà immutato. La seconda promessa è di posizionamento: quale che sarà l’equilibrio che verrà trovato nella Commissione, per nessuna ragione il peso che avrà l’Italia di Meloni sarà inferiore a quello che avrà la Francia di Macron. La terza promessa riguarda le deleghe: quale che sarà l’equilibrio che verrà trovato in Commissione, Ursula si impegna a garantire al governo italiano un commissario europeo, nel caso specifico quello al Bilancio, le cui deleghe però non siano inferiori a quelle che ha avuto negli ultimi cinque anni l’Italia. La quarta promessa riguarda un ingranaggio: se verrà concessa una qualche vicepresidenza esecutiva, tra i paesi che la riceveranno ci sarà anche l’Italia.
La scommessa naturalmente è spericolata, rischiosa, avventurosa, e non ci vuole molto a capire che per Ursula non sarà semplice dare lo stesso peso a governi guidati da partiti che l’hanno sostenuta in Parlamento e al Consiglio europeo e a governi guidati da partiti che Ursula l’hanno bocciata in Aula. Le possibilità che il patto si trasformi in un pacco esistono.
Ma se il patto dovesse invece reggere, cosa che ogni buon europeista dovrebbe augurarsi, a Meloni sarebbe riuscita un’impresa non male: non dare argomenti a Salvini (e ai follower di Meloni) per provare a complicarle la vita (traditrice!) e costruire un acrobatico rapporto con Ursula per evitare di isolare l’Italia in Europa.
Patto o pacco? I paletti sono questi. Tra un mese capiremo se Meloni in Europa è riuscita a costruire una triangolazione efficace o se invece non ha fatto altro che prendere in giro se stessa permettendo all’Europa di dimostrare che le decisioni importanti si possono prendere anche senza l’Italia.
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