Metafisica berlingueriana
Enrico Berlinguer, un mito che va bene per tutti: ognuno ha la sua versione
A 40 anni dalla morte del leader del Pci si accende la macchina della nostalgia. Che esisteva già mentre era in vita, immortalata da Luigi Ghirri. Libri, film, spettacoli, TikTok
La mattina dell’11 giugno scorso, la timeline del mio Instagram si è riempita di foto di Enrico Berlinguer. In tanti postavano immagini spensierate dell’ultimo leader del Pci, quelle poche almeno che qui e là avevano scalfito il muro del privato in un’epoca in cui i politici, e sommamente i comunisti, offrivano davvero poco materiale al gossip e ai paparazzi. A quarant’anni dalla morte, Berlinguer su Instagram sembrava però più in linea coi tempi: tra pettorali, tuffi e chiappe spaparanzate su yacht interminabili, eccolo anche lui in barca a Stintino, al timone, i capelli scompigliati dal vento, oppure a mollo all’Isola d’Elba con Napolitano o a passeggio coi figli in Sardegna in gran relax. Poche strette di mano con Moro, nella foto che immortala il fatidico “compromesso storico”. Molti Berlinguer in braccio a Benigni, sorridente, raggiante, in una delle sue poche risate pubbliche. E poi la foto di Umberto Pizzi: Berlinguer a Roma, tra i manovali, in pausa pranzo, come un Cristo tra i muratori. O i tanti ritratti in primo piano, quel modo tutto berlingueriano di sembrare insieme timido, malinconico, remissivo ma anche severo e autorevole. Quelli che volevano darsi un tono però postavano Ghirri. La più instagrammabile delle foto di Berlinguer.
Riusciva a essere fotogenico anche di spalle. Sta come sopra le cose, spirito-guida, simbolo e testimone di una fede e una speranza collettive
In quel celebre scatto, al comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Campovolo a Reggio Emilia, Berlinguer sembra sul punto di staccarsi da terra, e io ogni volta lo vedo volare in un cielo limpido e terso sopra una folla oceanica di bandiere rosse, come in un’ascensione comunista. È lì che vedi il suo carisma. Non è per tutte quelle persone che lo stanno a sentire, cosa che capita ai leader politici. Ma perché capisci che Berlinguer riusciva a essere fotogenico anche di spalle: fermo e risoluto nella simmetria di quella silhouette squadrata, in completo grigio, senza armocromista. Berlinguer morirà l’anno dopo, nel fatale comizio di Padova. Ma con quest’immagine siamo già in piena santificazione. Siamo già nel monumento e nella metafisica berlingueriana. Sospeso in aria nel cielo di Campovolo, Berlinguer non è più parte delle vicende umane e complicate della Prima Repubblica. Sta come sopra le cose, spirito-guida, simbolo e testimone di una fede e una speranza collettive. Siamo già (e qui sta il genio di Ghirri) dentro la macchina della nostalgia di Berlinguer.
Nel frattempo la macchina è diventata un’industria: libri a raffica, canzoni, spettacoli, podcast, orazioni civili, graphic novel, film, documentari, docufilm, memorie della guardia del corpo, dell’autista, del capo della scorta, ritratti intimisti del “Berlinguer velista” a pesca di totani, e pagine Facebook, canali YouTube, poche t-shirt però molti meme su TikTok, dove Berlinguer va fortissimo e rivive in pillole come “Enrico Berlinguer spiega che cos’è la sinistra in 22 secondi”, anche se certo la brevità, la sintesi, la semplificazione proprio non erano di Berlinguer. Ci sono anche gli appassionati del Seiko 5DX, l’orologio di Berlinguer, che fa capolino in molti primi piani: un bloccone d’acciaio sobrio, dal fascino brutalista, all’epoca soprannominato “il televisore” (naturalmente in bianco e nero), oggetto di venerazione feticistica degli orogiofili in rete, antitesi del rarissimo Patek Philippe sfoggiato da Agnelli sul polsino. Berlinguer ha anche un fandom hipster, attratto da quei suoi cappotti e impermeabili austeri ma forse già un po’ “metrosexual”. E c’è anche chi ha visto “una certa somiglianza con Damiano dei Måneskin”, per via degli zigomi e del volto scavato, quando il cantante si presentò alla Camera dei deputati in giacca e cravatta, per un flashmob a sostegno di una legge sulla vulvodinia reclamata da Giorgia Soleri, sua fidanzata dell’epoca (la famosa “fidanzata di Damiano dei Måneskin”). E che dire della performance strappalacrime di Venditti col pianoforte bianco, in una piazza San Giovanni al tramonto, deserta, chiusa per Covid, “chiudo gli occhi e penso a te, dolce Enrico…”, mentre anche Ambra in studio aveva i lucciconi, un po’ per Berlinguer, un po’ per “Notte prima degli esami” che arrivava subito dopo?
“Dolce Enrico” di Venditti non è un inno di partito. Quanti sono in grado di commuovere in modo così trasversale? Nemmeno Pertini
Va bene, d’accordo. Si sa che per Venditti il “communismo”, come il gol di Turone, era “regolare”. Ma “Dolce Enrico” non è un inno di Partito. E quanti politici della Prima o della Seconda Repubblica possono vantare una canzone struggente scritta apposta per loro da un cantautore pop? Quanti sono in grado di unire e commuovere in modo così trasversale? Ve l’immaginate Il Volo in un “omaggio a De Gasperi” al concertone di Natale? Persino Pertini, che era Pertini, non è andato al di là di “un partigiano come Presidente”. Una canzone tutta per lui non ce l’ha. Con Berlinguer, insomma, sconfiniamo in una nostalgia che non si spiega solo con la politica.
A ottobre, Elio Germano diventerà tale e quale a Enrico Berlinguer nel film “La Grande Ambizione” che aprirà in pompa magna la Festa di Roma, anche come risposta all’“M” di Sky e Scurati sbarcato ora a Venezia. È il racconto degli anni dal ‘73 al ‘78, dal viaggio a Sofia al rapimento di Moro. Arrivano le prime immagini: Berlinguer, chino sulla sua scrivania, sorvegliato dal ritratto di Gramsci. Viene già voglia di andare al cinema, coi lupini al posto dei capitalistici popcorn. “Sfidando i dogmi della Guerra fredda e di un mondo diviso in due”, dice il regista Andrea Segre, “Berlinguer e il Pci tentarono per cinque anni di andare al governo, aprendo una stagione di dialogo con la Dc e arrivando a un passo dal cambiare la storia”. Un martire. Una speranza tradita. Berlinguer come una sliding door: potevamo essere più felici e più comunisti e invece come al solito la storia si è messa di traverso. I bene informati assicurano che all’anteprima parteciperà anche Giorgia, già vista in ossequioso raccoglimento alla grande mostra su Berlinguer a Testaccio, curata da Ugo Sposetti. E pare che proprio lì, davanti al titolone dell’Unità, “La forza del Pci si attesta al 30%”, che raccontava la sconfitta elettorale del ‘79, abbia sussurrato ai suoi che l’accompagnavano, “avercelo er trenta per cento, altro che attestarsi!” (lo racconta Marcello Sorgi in “San Berlinguer”, ultimo tra i tanti libri dell’anniversario berlingueriano).
Ricordava Miriam Mafai una trentina d’anni fa in “Dimenticare Berlinguer”, uno dei più bei libri sul politico, tra i pochi non a forma di santino, che la sua trasformazione da grigio uomo di apparato a leader carismatico fu “incredibilmente rapida”. Altrettanto rapido fu poi il passaggio da un Berlinguer dimenticato, rimosso, inservibile dopo il tracollo del comunismo, all’icona venerata da tutti che ora ci giudica severamente sulla tessera del Pd, in quel primo piano strettissimo sugli occhi, come in un western di Sergio Leone, “casa per casa, strada per strada”. Come e perché si è passati da “Dimenticare Berlinguer” a “San Berlinguer”? Una prima svolta nell’agiografia berlingueriana arriva dieci anni fa, in piena rottamazione renziana, col documentario di Veltroni, “Quando c’era Berlinguer”. Squadernando tutte le armi della nostalgia, Veltroni colpiva al cuore di una base oramai rassegnata alla Leopolda e allo stesso tempo dialogava con quel mondo lì, trasformando Berlinguer in un mito “liberal”, un’icona kennediana, una figurina Panini, insomma un supereroe dell’universo veltronico. Veltroni infilava Jovanotti che fa l’elogio della parola “comunista” tra canzoni di Gino Paoli e musiche di Danilo Rea, e poi lo struggimento per il repertorio, il “come eravamo”, l’ultimo comizio, il tracollo, lo strazio, i funerali, la catarsi collettiva.
Ricordo una strategia di lancio da blockbuster: promo su Sky, cartelloni nelle grandi città, trailer, interviste, una grande anteprima mondana all’Auditorium con Malagò, Alessia Marcuzzi, Luca Cordero di Montezemolo, Lotito e molti altri (c’era già anche Giorgia Meloni, all’epoca neopresidente di Fratelli d’Italia). Girava voce di un’anteprima privata in cui Massimo D’Alema aveva pianto. Era chiaro che si era entrati in un’altra fase. Non c’era più un’eredità politica da contendersi. Solo un mito da celebrare. Berlinguer ora andava bene a tutti perché ognuno aveva il suo Berlinguer. Quello della purezza e quello del compromesso, quello del rovesciamento del capitalismo e quello dell’“ombrello della Nato”, il Berlinguer vicino al femminismo e quello dell’austerità, che aveva orrore del consumismo, quindi perfetto anche per la “decrescita felice” e il #climatechange, e poi naturalmente il Berlinguer comunista eretico, quello che si sgancia da Mosca, che non vuole mettersi il colbacco, che va lì a parlare di democrazia.
Ma volendo anche quello che nel ‘53 va a commemorare Stalin da segretario della Fgci e si fa prendere un po’ troppo la mano (“non esistono le parole che possono esprimere quel che noi sentiamo di avere perduto… è scomparso l’uomo che, per primo nella storia, ha saputo costruire una società di uomini liberi ed eguali… Stalin ci ha insegnato ad amare sopra ogni altra cosa al mondo la causa dell’elevazione e della felicità degli oppressi, degli sfruttati, degli umili, degli offesi, dei diseredati, la causa di un avvenire radioso della gioventù… Gloria eterna al grande e caro Stalin!”).
Altri tempi, per carità. Gli stessi però in cui Hannah Arendt aveva già fatto a pezzi lo stalinismo e Simone Weil già da un bel po’ aveva detto che “la Rivoluzione d’ottobre ha solo rafforzato i poteri che già sotto lo zarismo erano gli unici: la burocrazia, la polizia, l’esercito”. Berlinguer c’è arrivato verso la fine degli anni Settanta. Eppure di viaggi a Mosca ne aveva fatti. Ma chissà, oggi anche il giovane stalinista potrebbe avere i suoi estimatori, per esempio Vauro, per esempio Luciano Canfora. Però il mito di Berlinguer, si diceva, non è mito politico. Anche perché il Berlinguer politico, nei suoi ultimi dieci anni, le perde più o meno tutte. Non riesce a capitalizzare la marea di voti che lo porta testa a testa con la Dc; scommette sulla crisi e il rovesciamento del capitalismo e invece quello stava mutando forma e a crollare sarà il comunismo; perde con Moro l’unico interlocutore di cui si fidava; perde nella “marcia dei Quarantamila” a Mirafiori; perde con Craxi. L’approdo alla “questione morale” e l’affermazione di una superiorità etica del Pci, lo splendido isolamento dei comunisti italiani esuli in patria, puri in una nazione infetta, diventa così una scelta quasi obbligata con una sua furbizia tattica. La “questione morale” legittimava e compensava le sconfitte politiche. Non siamo noi che abbiamo perso, sono corrotti quelli che hanno vinto. Ma ecco forse proprio qui, nella sconfitta politica, c’è il primo pezzo del fascino duraturo di Berlinguer. Il fascino dei vinti, troppo buoni, onesti e puri per poter vincere. Berlinguer come simmetrico opposto di Andreotti: il Divo e l’Antidivo.
Nella sconfitta politica c’è il primo pezzo del suo fascino, quello dei troppo buoni, onesti e puri per poter vincere. Simmetrico opposto di Andreotti
La “diversità” attrae ancora oggi, secondo Antonio Polito, come “resistenza etica alla deriva consumistica e materialistica della società italiana degli anni 80” (un decennio che i nostri storici leggono ancora con gli occhiali di Berlinguer). C’è poi chi sostiene che quella morte sul palco, tragica, straziante, eroica, “come se Maradona fosse morto facendo una rovesciata”, annotava Miguel Gotor, abbia anch’essa giocato un ruolo non secondario. Altri, come Michele Serra, sostengono con validi argomenti che oggi, travolti dal trash, di Berlinguer rimpiangiamo lo stile misurato, sobrio, rigoroso. “Berlinguer incarna ciò che temiamo la nostra comunità nazionale abbia perduto per sempre: la compostezza”. È un po’ la teoria della “brava persona” di Gaber. Ricordo a ogni passaggio televisivo di Berlinguer mio nonno o mio padre (entrambi estranei al Pci) che puntualmente commentavano, “però è un brav’uomo”. Anche la politica, come il cinema, si fa con le facce. Ma non può essere solo questo. La “compostezza” ce l’aveva gran parte della Prima Repubblica, ma non c’è un Venditti che abbia scritto “Dolce Arnaldo” in ricordo di Forlani.
Compone con Moro e Pasolini un trittico cristologico. Tre grandi moralisti, diffidenti verso le spinte libertarie che attraversavano l’Italia
Il fatto è che Berlinguer è una figura centaurica. A sinistra, permette di tenere insieme il sogno astratto e mediterraneo di un comunismo che viaggia con la libertà, mantenendo quindi intatta la sacralità della parola, separandola dai suoi esiti storici. Ma Berlinguer entra anche nell’immaginario collettivo. Credo dipenda dal fatto che in Italia abbiamo un debole per le figure ribalde e ruffiane, una naturale tendenza a identificarci col sotterfugio cinico, poi però ci sentiamo in colpa e da bravi cattolici vogliamo il contrappeso ascetico, come la Quaresima dopo la Pasqua. Vogliamo Berlinguer. Ma se l’ultimo leader del Pci è parte ormai di un repertorio italiano, non solo comunista, è anche perché compone con Moro e Pasolini un grande affresco. Un trittico cristologico. Tre grandi moralisti, diffidenti verso le spinte libertarie che attraversavano la società italiana nell’onda lunga del boom, impauriti e angosciati dalla modernità. Berlinguer, Moro e Pasolini, con le loro astrazioni, “l’eurocomunismo”, “le convergenze parallele”, “il Palazzo”, come tre grandi testimonial del cattocomunismo italiano in purezza, condividono lo stesso processo di beatificazione. Con Berlinguer e Moro che davvero si specchiavano l’un l’altro in una comune radice, animati dalla medesima prudenza, vestiti in spiaggia di tutto punto sotto il sole. Certo lontani dal narcisismo autolesionista di Pasolini.