Il caso Fitto e la rivincita della politica sulle procure
Dalla richiesta d’arresto all’assoluzione piena: la storia, lunga 17 anni, del calvario mediatico-giudiziario di Raffele Fitto e le storie parallele dei pm che lo accusavano. La resilienza del futuro commissario europeo
Il casellario giudiziale di Raffaele Fitto, alla voce “cosa risulta” riporta una grande scritta in caratteri maiuscoli: NULLA. Eppure la storia del futuro commissario europeo è la storia di un calvario giudiziario. E quindi di un calvario mediatico e politico. Non umano, perché Fitto è un uomo resiliente e non si è mai scomposto, neppure nei momenti bui. Tantomeno nelle sconfitte che, per la regola dell’eterogenesi dei fini, sono state la sua più grande fortuna. Consigliere regionale a 20 anni, governatore a 30. Dopo il primo mandato, nel 2005, perde le elezioni contro Nichi Vendola. La prima grande fortuna.
La procura di Bari nel 2006 apre un fascicolo per corruzione. Fitto ha una “straordinaria capacità di delinquere, con modalità particolarmente subdole” scrivono i pm inquirenti Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro, Renato Nitti e Marco Dinapoli nella richiesta di custodia cautelare. Un anno prima, il 24 febbraio del 2005, in piena campagna elettorale per le regionali, durante un confronto televisivo, il candidato governatore Nichi Vendola attaccò il suo avversario, Raffaele Fitto, all’epoca governatore in carica. Dicendogli che avrebbe dovuto spiegare a un magistrato la gestione moralmente discutibile della regione. Solo tempo dopo si seppe che Fitto, dal primo febbraio di quell’anno, era stato iscritto nel registro degli indagati. E che appena tre giorni prima era stato dato il via libera alle intercettazioni sui suoi telefoni.
Consigliere regionale a vent’anni, governatore a trenta. Dopo il primo mandato, nel 2005, perde le elezioni contro Nichi Vendola. Nel 2006 la procura di Bari apre un fascicolo per corruzione: Fitto ha una “straordinaria capacità di delinquere”, scrivono i pm inquirenti
Il primo dei pm che chiese l’arresto di Fitto, Lorenzo Nicastro, al giro successivo si candidò capolista al consiglio regionale nell’Italia dei Valori di Tonino Di Pietro. “Il diritto all’elettorato passivo non può essere negato ai magistrati – disse l’allora presidente dell’Anm Palamara – Tuttavia non sono opportune candidature nei luoghi in cui il magistrato ha esercitato la giurisdizione o è stato titolare di delicate indagini. Deve, inoltre, costituire serio momento di riflessione all’interno della magistratura – aggiunse il leader del sindacato delle toghe – il rientro in servizio del magistrato che ha svolto un mandato elettorale”. Riflessione che non è mai stata fatta, dato che per esempio Michele Emiliano è governatore nel collegio dove faceva il pm.
Il Csm si riunì per decidere la richiesta di aspettativa di Nicastro. La decisione passò con 13 voti a favore, quattro contrari e quattro astensioni. La maggioranza ritenne che non vi fossero margini per negarla, ma in tutti gli interventi del Csm fu sottolineata “l’inopportunità” che Nicastro si candidasse proprio nello stesso territorio in cui aveva condotto le “delicate indagini su Fitto”. Però nessuno lo impedì.
Raffaele Fitto notò che ancor prima della decisione del Csm, Nicastro aveva già stampato i manifesti elettorali: “Ha indagato su di me per nove anni e sostenuto le accuse nei miei confronti fino a qualche attimo fa – disse Fitto – e ora si candida con l’Italia dei valori. Questo rende evidente una barbara commistione tra politica e giustizia. Quella stessa barbarie che hanno praticato i Di Pietro e i De Magistris significativamente presenti alla sua conferenza stampa. E’ abnorme e scandaloso che il sospetto di un uso direttamente politico dell’azione giudiziaria divenga oggi assoluta certezza”.
Il secondo pm, Marco Dinapoli, il giorno dopo la notizia dell’indagine rilasciò un’intervista a Repubblica in cui denunciò “l’esistenza di un’organizzazione malavitosa paragonabile a una cupola e a un giro di malaffare superiore a quello dei ‘pizzini’ di Bernardo Provenzano”. I giornali pubblicarono le intercettazioni private di Fitto con sua madre, chiacchierate, che il gip non ritenne rilevanti per le ordinanze di arresto, contenute nelle 150 mila telefonate registrate in quattro anni. Fitto presentò denuncia sostenendo la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa”, denuncia che fu archiviata. E contro il pm Dinapoli per diffamazione. La Repubblica si assunse tutta la responsabilità e fu condannata a risarcire a Raffaele Fitto 63 mila euro, ritenendo diffamatorio il contenuto dell’intervista stessa.
Marco Dinapoli nel frattempo è stato nominato da Michele Emiliano e dai suoi uffici e agenzie commissario giudicatore della commissione per l’ospedale di Fasano, servizio lavanolo ospedaliero, servizio controllo passeggeri e manutenzione impianti Aeroporti Puglia, concorso per giornalisti del Policlinico, e tante altre.
Il terzo Pm, Renato Nitti, è diventato procuratore a Trani. Roberto Rossi è l’attuale capo della procura di Bari. Nel 2008 si fotografava al Vaffa Day grillino. Due mesi fa sedeva in Comune in conferenza stampa accanto allora sindaco Antonio Decaro, per dire che l’amministrazione di sinistra aveva collaborato con la procura per contrastare la mafia.
Questi pm chiesero l’arresto di Raffaele Fitto. La richiesta fu accolta e ratificata dal gip Giuseppe De Benedictis, che la inoltrò alla Camera dei deputati. Fitto chiese di autorizzare il suo arresto, ma la Camera la respinse con 457 voti favorevoli su 462 presenti. Se Fitto avesse vinto le elezioni contro Vendola, diventando presidente di regione e non parlamentare, sarebbe stato arrestato, costretto alle dimissioni, e la sua carriera sarebbe finita lì. Anche se, come è poi avvenuto, dopo molti anni, è stato assolto. Ma questa è una lunga storia.
Torniamo al giudice che ne autorizzò l’arresto, Giuseppe De Benedictis. Due mesi fa è stato condannato in via definitiva a 9 anni e 8 mesi di reclusione per quattro episodi di corruzione in atti giudiziari relativi a tangenti intascate in cambio di scarcerazioni a membri di un’associazione mafiosa. E in un altro processo ad altri sette anni per detenzioni di armi e ricettazione. Fu arrestato la prima volta nel 2010. All’epoca, dopo aver firmato l’arresto di Fitto, doveva decidere su Punta Perotti, abbattimento che diede il via alla carriera politica di Michele Emiliano. Fu liberato e continuò la sua carriera. Dieci anni dopo, nel 2021, la Guardia di Finanza ha ritrovato in un deposito sotterraneo di una villa di Andria un arsenale da guerra di sua proprietà composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette – tra cui due kalashnikov, due fucili d’assalto AR15, sei mitra pesanti Beretta MG 42, dieci MAB, tre Uzi – nonché armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano e una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni. Lo scandalo armi esplose qualche giorno dopo il primo, clamoroso arresto: quello per l’accusa di avere intascato mazzette in cambio di scarcerazioni facili, colto in flagranza di reato mentre prendeva una tangente e dopo che in casa gli furono trovati 60 mila euro in contanti nascosti nelle prese elettriche. Nell’ordinanza si legge che in cambio di denaro “il gip sostituiva l’originaria custodia in carcere, da lui stesso applicata, con misure meno afflittive quale quella degli arresti domiciliari o, addirittura, dell’obbligo di dimora nel comune di residenza”. Dopo le due sentenze definitive la Procura generale di Lecce ha sospeso l’esecuzione dell’ordine di carcerazione a carico dell’ex gip Giuseppe De Benedictis a causa delle sue precarie condizioni di salute. Il processo di Fitto comunque va avanti.
Dopo tre anni dalla richiesta di arresto, nel 2009 la Procura di Bari chiede il rinvio a giudizio, ritenendo l’ex governatore colpevole di associazione per delinquere, peculato, concussione, corruzione, falso, abuso d’ufficio e illecito finanziamento ai partiti. L’accusa è di aver intascato una “tangente” da Angelucci da 500 mila euro. In realtà era un regolare finanziamento alla campagna elettorale registrato in totale trasparenza con bonifico bancario, e approvato da Corte dei conti e dalla Camera dei deputati. Secondo l’accusa invece era una tangente in cambio dell’apertura ai privati della gestione delle Residenze sanitarie assistite. Secondo i giudici civili, Fitto con la delibera avrebbe fornito alla giunta una falsa rappresentazione sull’incapacità delle Asl di gestire in proprio le residenze assistenziali per anziani, allo scopo di aprire ai privati mediante una gara del valore di 198 milioni di euro. Talmente “falsa” che quella delibera, da allora, non è mai stata ritirata. Né da Vendola né da Emiliano. E ancora oggi la regione Puglia finanzia le cliniche private per la totale gestione delle Rsa, di cui la più grande è di proprietà della moglie di un attuale assessore regionale. Non solo. La regione Puglia, guidata dalla sinistra, ricorre regolarmente ai privati (compresi enti ecclesiastici) anche per smaltire le liste di attesa. E’ di luglio scorso l’ultima delibera, di una lunga serie, che affida 30 milioni ai privati per gli esami di routine.
Dopo una condanna in primo grado, i giudici dell’appello nel 2015 hanno stabilito che le accuse contro Fitto “erano solo un’illazione perché non ci sono prove”. I pm della procura di Bari, congiuntamente alla giunta regionale, fecero appello in Cassazione. Di quella giunta faceva parte il pm Nicastro. Un dettaglio che non sfuggì all’allora ministro Fitto che, commentando la decisione della procura sul ricorso presentato per annullare il proscioglimento dopo il deposito della sentenza, aveva preannunciato la decisione della giunta Vendola: “Il terzo pm di questo processo, attuale assessore dell’Italia dei valori nella giunta Vendola, Nicastro, – dichiarò Fitto – si appresta a continuare il suo lavoro di pm come assessore, votando la delibera con cui si costituisce anche la Regione, aggiungendo così il linciaggio politico e mediatico e avallando ulteriormente il dubbio che la sua presenza garantisca di per sé immunità giudiziaria alla giunta Vendola. Una vicenda vergognosa sulla quale sarebbe interessante sentire il parere del Csm e dell’Anm”.
La Corte di Cassazione però rigetto il ricorso di procura e giunta regionale, poiché “non ci fu alcuna ingerenza di Fitto nell’iter amministrativo che portò alla delibera per l’affidamento delle Rsa alle società dell’imprenditore romano Angelucci”, rilevando che mancava la prova di un collegamento tra “l’ipotizzata vicenda corruttiva e il finanziamento illecito”.
Passano ancora cinque anni e Fitto, forte del grande consenso ricevuto alle europee, si candida per la terza volta governatore della Puglia per il centrodestra, nonostante la Lega di Salvini, da sempre in Puglia vicina a Emiliano, gli boicotti la campagna elettorale. A due giorni dal voto, il 17 settembre, il quotidiano Domani pubblica un articolo in prima pagina firmato da Nello Trocchia: “Fitto vuole governare la Puglia che gli chiede ventuno milioni di euro”. Occhiello: “La regione è in causa con il candidato presidente delle destre in quattro procedimenti legati al suo mandato precedente. Se vince, potrà decidere sul contenzioso con sé stesso”. In due giorni cambiò drasticamente il sentimento dell’elettorato, e Fitto, che fino a quel momento era dato vincente nei sondaggi, perse le elezioni che videro rivincere Emiliano, nonostante le forti polemiche sulle assunzioni in campagna elettorale.
Il processo sulla gestione delle Rsa e la loro privatizzazione: i giudici, e le giunte di Vendola prima e di Emiliano poi, chiedevano la condanna di Fitto per una delibera che loro non hanno mai modificato, e di cui invece hanno continuato a fare uso. La sentenza alla fine è stata di totale assoluzione, penale e civile
Nonostante la prima pagina, la vicenda processuale era sempre la stessa. Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, rimaneva in piedi il processo in sede civile. La regione Puglia infatti gli aveva chiesto 25 milioni di euro per danno patrimoniale, più il danno d’immagine. Questa semplice richiesta, firmata dalla giunta di Michele Emiliano, bastò per firmare quella prima pagina grazie a cui la sinistra negli ultimi due giorni riuscì a far passare Raffaele Fitto come un malfattore, corrotto e ladro. Due anni dopo, senza prima pagina, quella richiesta fu respinta. Il motivo, si legge nella sentenza, è proprio che i governi regionali successivi non hanno annullato la delibera sulle Rsa, che ancora oggi in Puglia sono gestite dai privati. “Durante la presidenza Vendola – scrivono i giudici nel provvedimento – la delibera non è stata né revocata né annullata in autotutela”. La revoca, segnalano ancora i giudici, “non intervenne neppure in epoca successiva: deve quindi concludersi – o, quanto meno, non può escludersi – che, sia pure in forma omissiva e senza alcun concorso nella falsificazione, anche l’amministrazione successiva alla presidenza Fitto abbia oggettivamente condiviso la scelta privatistica sulle Rsa”. In sostanza i giudici, e le giunte di Vendola prima e di Emiliano poi, chiedevano la condanna di Fitto per una delibera che loro non hanno mai modificato, e di cui invece hanno continuato a fare uso.
Inoltre, scrivono sempre i giudici “la Regione chiedendo il risarcimento non ha mai chiarito quando in effetti quella privatizzazione avvenne, dal momento che quella gara era un passaggio sì necessario per la privatizzazione, ma non lo realizzava nel pratico”.
Quella sentenza di totale assoluzione, penale e civile, è arrivata 17 anni dopo. Per fortuna però, per la regola dell’eterogenesi dei fini su citata, quell’indagine nel frattempo ha fatto perdere per due volte a Fitto le elezioni regionali. Questo gli ha consentito la prima volta di candidarsi al Parlamento, ottenendo l’immunità che ne ha vietato l’arresto. E la seconda volta di diventare ministro del governo Meloni, e oggi candidato alla Commissione europea. Un risarcimento mediatico, politico e umano che Raffaele Fitto si è guadagnato sul campo con pazienza, competenza, e serietà. Resistendo in silenzio a una fitta rete di magistrati, giudici, tutti amici tra loro, tutti appartenenti alle medesime correnti, che hanno fatto carriera o in magistratura, o nelle elezioni. Oggi con la nomina di Raffaele Fitto è la prima volta che la politica ha vinto sulla magistratura, il merito sul sistema, e il silenzio sulla gogna.