Vita e drammi di un fondo europeo
Il viaggio delle risorse del Pnrr mette a nudo le fragilità del nostro paese (e alcuni miglioramenti)
Sul modello del Piano nazionale di ripresa e resilienza e di quanto ha fatto il governo, servirebbe una riforma della politica di coesione Ue. Il punto di forza della riforma Fitto è aver snellito a monte un segmento del processo di programmazione. Il lato debole è non averla costruita sul dialogo effettivo fra Roma e periferie
Ci sono due bauli molto pesanti in corso di preparazione nella primavera del 2021 a Bruxelles ed entrambi devono approdare in territorio italiano. Sono carichi di fondi europei. La prima cassa porta la scritta Pnrr, contiene 191,5 miliardi di euro (24,9 miliardi come anticipazione in contanti, il resto con dieci “pagherò” semestrali): arriva a Roma in aereo puntuale, per essere poi smistata su 209 treni (59 Riforme e 150 Investimenti) che dovrebbero arrivare a destinazione il 30 giugno 2026 passando per 527 fermate complessive (target e milestones). Tutti i treni sono gestiti da una sala di regia e controllo a Roma, chiamata Regis, che dovrebbe essere un gioiello di tecnologia informativa e gestionale e dare il buon esempio a tutti, ma che spesso perde il contatto con i convogli sparsi sul territorio. A un certo punto del viaggio, dalla centrale di controllo, in collegamento con Bruxelles, ci si rende conto che molti di questi treni hanno un problema, riescono a viaggiare solo a bassa velocità o si fermano proprio: serve una revisione generale. Alcuni treni vengono sostituiti (o almeno sostituiti alcuni loro vagoni) e per cambiarli passano mesi. Anche l’equipaggio viene cambiato, quello della sala di controllo e quello delle singole spedizioni.
Quando i treni si rimettono in moto devono recuperare un anno di ritardo cumulato per la sosta e soprattutto valutare se sapranno viaggiare alla velocità necessaria per arrivare puntuali. Non solo: i treni sono diventati 216 (66 Riforme e 150 Investimenti) e le fermate complessive 618.
Il nuovo macchinista in capo assicura che si potranno rispettare i tempi, perché la sua squadra ha già dato il meglio nella fase di preparazione dei convogli. In realtà, il motore ben funzionante nella fase di avvio lo aveva messo a regime la squadra precedente (rapida ripartizione di risorse, pubblicazione dei bandi e aggiudicazioni di appalti). Ma ora gli alibi sono finiti e la nuova squadra è attesa alla prova del nove. Ripartirà il treno, con i vagoni nuovi, alla velocità necessaria per arrivare all’appuntamento? Tutto il resto, polemiche comprese, non conta più nulla.
Sul secondo baule in partenza da Bruxelles nel 2021 c’è scritto COESIONE e il tesoro che c’è2 dentro – 42 miliardi di fondi europei che salgono a 75 con il contributo nazionale – deve essere diviso in tante casse più piccole che partono da Bruxelles su una flotta di pullman, alcuni con destinazione i ministeri di Roma, altri diretti alle diverse regioni. Le casse più grandi sono quelle dirette al Sud.
Il viaggio è molto lungo, ma già prima di partire accumula ritardi gravi sull’orario programmato: deve presentare molti documenti per il viaggio, alcuni di questi “strategici”, nel senso che richiedono impegni vincolanti e obbligati per far arrivare il tesoro a destinazione. Il primo di questi passaggi, l’Accordo di partenariato 2021-2027 fra Bruxelles e Roma fa già capire che siamo in un viaggio molto diverso da quello del Pnrr: il primo step segna già un anno di distanza fra le due corse. La trattativa per l’Accordo comincia il 17 gennaio 2022 e si chiude il 15 luglio 2022. Un anno esatto. il Pnrr era decollato il 13 luglio 2021. Inoltre l’accordo di partenariato non è un elenco di investimenti già dettagliato ma solo un “documento di orientamento strategico”. Aiuto!
I pullman della COESIONE non sono Flixbus nuovi di zecca, ma vecchi pullman che hanno già visto tante strade, spesso tortuose. Fanno varie soste e alla fine del loro viaggio continentale ognuno fa capolinea in un capoluogo di regione dove lo aspetta un ulteriore viaggio su una littorina locale. Non solo. Quelli che viaggiano con la metropolitana, fra ministeri romani, stanno messi pure peggio e sono più in ritardo di quelli regionali. Trascurati, dimenticati, tutta l’attenzione è sul Pnrr.
Il viaggio di Pnrr, intanto, mette a nudo tutte le fragilità italiane, in due differenti versioni. La prima è che Pnrr è riuscito perfettamente dove l’Unione europea si è sostituita all’Italia o quanto meno l’ha affiancata con pieni poteri per superarne i limiti. La seconda fotografia del ritardo è che, dove cessa la surroga europea e la palla torna all’Italia, alcuni meccanismi evidenziano grandi miglioramenti, per esempio nell’accelerazione di alcune fasi autorizzative e di gara, altri mettono a nudo le incapacità e gli ostacoli di sempre: la scelta concreta delle opere sbanda, manca ancora la capacità di progettazione e conseguentemente un parco progetti spendibile, le strutture tecniche della Pa restano fragili. Per non parlare dei problemi nuovi e gravi come l’assenza di un meccanismo automatico di revisione prezzi di fronte alle impennate dei costi (con la conseguenza di mettere pezze come capita e perdere tanto altro tempo) oppure la carenza di manodopera specializzata.
La surroga europea ha invece funzionato al meglio nei primi due step del viaggio dei fondi: la pianificazione finanziaria e i meccanismi di programmazione degli investimenti, due tristissimi punti deboli italiani.
In una parola possiamo dire che l’Europa ha dato certezze granitiche là dove l’Italia è una fabbrica di incertezze. La pianificazione finanziaria del Pnrr ha fissato tappe, risorse, rate e scadenze certe, non negoziabili, non rinviabili, non sottoposte al peggiore vizio italiano di una legge di Bilancio che cambia ogni 12 mesi fondi, poste, politiche obiettivi e opere in base alle banderuole del momento e ai giochi della grande sceneggiata politica. La legge di Bilancio come momento dell’anno per imprimere un marchio politico. La maledetta fluidità italiana priva di ancoraggi lunghi (e bipartisan) che rinnova continuamente l’immagine della tela di Penelope.
Le scadenza finanziarie del Pnrr non sono negoziabili e anche quelli che con leggerezza vedono uno spostamento del termine del giugno 2026, la pensano un po’ troppo all’italiana.
Anche la programmazione degli investimenti in un arco di sei anni ha avuto il tratto europeo della stabilità. E, nonostante la proposta/scelta delle opere inserite spesso discutibile fosse fatta da Roma e nonostante la revisione Fitto-Meloni ottenuta dall’Italia che ha interessato mezzo Pnrr, la procedura seguita, gli esami sostenuti, l’ancoraggio a una logica pianificatoria già impostata dicono chiaramente che si è passati da un solido a un solido senza passare per il liquido (o, peggio, spesso, l’aeriforme) italico.
Qui c’è anche una prima sostanziale differenza fra PNRR e COESIONE. Perché il Pnrr ha imposto un piano concordato fin dall’origine fra Ue e stato con un metodo (del tutto nuovo in Italia) che ha privilegiato la performance attesa dall’investimento, non l’opera in sé o i suoi tempi di realizzazione. Da un asilo nido ci aspettiamo che 200 famiglie o donne da una certa data abbiano un sostegno attivo rispetto ai figli. Solo questo conta. L’infrastruttura non fine a sé stessa, ma come contenitore di politiche sociali.
Un metodo perfettibile, quello del Pnrr, ma che dovrebbe segnare la svolta di un ancoraggio agli obiettivi di performance, il cambiamento di rotta definitivo, senza ritorni all’indietro.
La coesione invece produce centinaia di documenti sulle strategie che spesso danno solo una motivazione a interventi che si vogliono fare comunque, di logica territoriale e non di rado clientelare. O peggio a visioni frammentate, investimenti deboli e conflitti fra istituzioni. Gli accordi fra Ue, regioni, stato, enti locali sono sempre stati il lato debole della coesione che spesso ha richiesto anni di mediazione perché ora uno, ora l’altro di questi soggetti perseguiva un suo gioco e nessuna visione strategica del futuro.
Da questo confronto Pnrr-Coesione viene chiaramente in evidenza la necessità che la nuova commissione Ue riformi i meccanismi della politica di coesione importando filosofia e pratiche del Pnrr.
L’Italia ha provato a fare da battistrada su questa via con il decreto legge Fitto sulla Coesione, approvato a maggio come obiettivo del Pnrr. Vedremo con il prossimo assessment della commissione Ue se la strada individuata da Fitto viene promossa e fatta propria da Bruxelles. Per ora il giudizio è sospeso. Lo vedremo anche dalla possibilità che sia lo stesso Fitto a guidare in Europa, come commissario, questo avvicinamento fra Pnrr e Coesione.
Il punto di maggiore forza della riforma Fitto è comunque aver provato a snellire a monte un segmento di quel processo di programmazione troppo complesso che tanti ritardi produce prima che i pullman con i fondi riescano davvero a partire.
La riforma ha cioè individuato i sei settori prioritari in cui investire: acqua, dissesto idrogeologico, rifiuti, mobilità sostenibile, energie e aiuti alle imprese per affrontare la transizione climatica e digitale. Nessuno può uscire da questo sentiero post Pnrr finanziando – come in passato – le saghe di paese o il turismo insostenibile o qualche vecchio progetto produttivo rimasto a lungo nel cassetto.
Ovviamente il sentiero è stretto ma per arrivare a un elenco di opere effettivamente prioritario, coerente e realizzabile nei tempi assegnati, ministero per ministero, regione per regione, ci vuole ancora molto lavoro. Prova ad accelerarlo l’articolo 4 del decreto legge Fitto, ponendo il termine di ottobre per la presentazione delle opere prioritarie e un complesso elenco di criteri cui dovranno attenersi. Ma questo elenco di criteri complica e accentra anziché semplificare e soprattutto tutto avverrà “fermo restando” le procedure previste dai regolamenti Ue sulla coesione.
Ma il lato debole della riforma Fitto è non averla costruita sul dialogo effettivo fra Roma e periferie (come ci si aspetta da un ministro delle Regioni a tempo pieno) e anche le strutture tecnico-amministrative rafforzate dal decreto legge (compresa la società in house Eutalia) appaiono sovrastrutture chiamate a svolgere un lavoro burocratico. Quello che non si è visto è il lavoro politico e culturale per creare un dialogo a monte delle procedure e delle strutture: il lavoro che fece Carlo Azeglio Ciampi con il convegno per il sud a Catania nel dicembre 1998; e quello che fece Fabrizio Barca con le task force tecniche di collegamento fra ministro e regioni su ogni singolo programma e progetto. Quelle task force riuscirono ad aiutare i territori a progettare, realizzare, eseguire, verificare le performance, perché c’era un ministro che in quel dialogo giorno dopo giorno si spese per intero.
Accrescere le strutture tecnico-amministrative senza investire su un dialogo che vada oltre l’assegnazione dei fondi o il bando di gara vuol dire votarsi a tensioni e nuovi fallimenti. Non basta il bando fatto e assegnato da Invitalia (o adesso Eutalia) per trasformare i territori e le strutture amministrative che non hanno capacità tecnica sul posto. Anche il Pnrr ne è stata la drammatica conferma. Il modello Invitalia funziona se intorno ha un dialogo continuo fra stato e periferie, se si creano strutture finalizzate proprio all’assistenza e a rendere via via più autonomo il territorio, se si cura la progettazione (come aveva fatto Graziano Delrio rilanciando il fondo rotativo di progettazione), se dietro al potenziamento delle strutture tecniche della Pa sul territorio c’è un lavoro politico quotidiano coerente. Insomma, Invitalia funziona bene ma dovrebbe essere un anello di una lunga catena che purtroppo non c’è.
Può darsi che Fitto voglia arrivare proprio lì, da Roma o da Bruxelles. L’Italia ne avrebbe grande bisogno per evitare che, dopo il 2026, si riproponga il baratro degli anni 2008 e seguenti.