Giorgia Meloni - foto Ansa

l'editoriale del direttore

I successi dell'Italia meloniana nascono dalla negazione dell'agenda estremista

Claudio Cerasa

I populisti di un tempo, passo dopo passo, sono costretti a fare i conti con una dura realtà. E i risultati si vedono: export, immigrazione, pil, lavoro. Disegnini per i distratti

Capita sempre così, e ormai da tempo. Ogni volta che gli estremisti proliferano, ogni volta che i populisti si affermano, ogni volta che le forze antisistema avanzano succede che, istintivamente, un brivido di piacere si manifesta in mezzo alle schiene dei vecchi populisti italiani. È un istante, o forse qualcosa di più, in cui tutti i leader che nel passato hanno frequentato gli stessi terreni arati oggi dalle Le Pen, dalle AfD, dai Trump, da Farage d’Europa si danno di gomito e, guardandosi negli occhi, improvvisamente si dicono: e se tornassimo anche noi a essere come loro? Quando i partiti populisti cambiano idee su alcuni temi senza rivendicare le proprie trasformazioni è facile pensare che i passi indietro possano ripresentarsi con la stessa velocità con cui si sono presentati i passi in avanti. Ma come spesso è capitato negli ultimi mesi, il caso vuole che uno dei governi potenzialmente più populisti d’Europa, ovvero quello italiano, sia diventato uno degli esempi più interessanti da osservare nel continente nell’ambito di una disciplina speciale, diversa dalla tradizionale attitudine mostrata dai populisti quando si trovano a governare, ovvero il pragmatismo. Nel caso specifico, la disciplina in cui da tempo eccelle l’Italia è quella di essere un paese all’interno del quale i populisti di un tempo, passo dopo passo, sono costretti a fare i conti con una dura realtà.
 

Non solo il populismo è dannoso quando si governa una potenza industriale ambiziosa e carica di debito pubblico ma alla fine dei conti occorre ammettere che tutto ciò che permette a un paese come l’Italia di navigare in acque non cattive è direttamente collegato a un fenomeno sempre più diffuso: la progressiva e sistematica e non sempre volontaria rimozione dell’estremismo dall’agenda di governo. E così, mentre in Europa gli estremismi crescono, anche se ancora sono lontani dai posti di governo, in Italia un governo potenzialmente estremista scopre che i propri successi, successi economici e non solo, passano dalla capacità di tenere il populismo lontano dall’agenda di governo.
 

Giorgia Meloni, due giorni fa, in un’intervista a Paolo Del Debbio, seppure con qualche imprecisione, ha rivendicato i numeri positivi dell’economia italiana (che non cresce più dell’area euro, ma cresce esattamente con il ritmo dell’area euro) e si è detta pronta ad affrontare in modo ambizioso i passaggi della prossima legge di Bilancio (“Le risorse che saranno disponibili le stanzieremo a sostegno delle imprese che assumono e creano posti lavoro”, ha detto la premier). Tutto molto bello. Ma dietro alla narrazione c’è una realtà interessante da analizzare. La crescita italiana, qualcuno forse dovrebbe dirlo a Salvini, dipende in buona parte dai soldi ricevuti dalla cattivissima Europa, attraverso il Pnrr, e come messo a verbale dall’ultimo Documento di economia e finanza nel 2024, su una crescita attesa dell’uno per cento, il contributo del Pnrr dovrebbe essere circa dello 0,9 per cento.
 

Allo stesso modo, la prossima legge di Stabilità potrà tentare di essere ambiziosa  grazie a uno strumento storicamente detestato dai populisti: la lotta contro l’evasione fiscale. Nel 2023, sono stati recuperati 24,7 miliardi, 4,5 miliardi in più rispetto al 2022, la somma più alta di sempre. Di questi, 19,6 miliardi derivano dalle ordinarie attività svolte dal fisco e 5,1 miliardi da misure straordinarie. La previsione per il 2024 è che grazie all’odiata lotta contro l’evasione fiscale il governo riuscirà non solo a coprire i circa 18 miliardi che serviranno per rinnovare gli interventi del 2023 su cuneo fiscale, Irpef, quota 103, Ape e Opzione donna ma ad avere almeno altri quattro miliardi da stanziare come meglio crede. L’Italia cresce grazie all’odiata Europa, può ragionare senza troppe ansie sulla legge di Stabilità grazie all’odiata lotta contro l’evasione fiscale, e grazie al fatto che le promesse elettorali sulle pensioni generose sono state superate dalla realtà (il bilancio complessivo sulle pensioni delle due manovre, come ha notato Luciano Capone, per il governo Meloni è pari a oltre quattro miliardi di risparmi, rispetto alla legislazione precedente). E può rallegrarsi dello stato di salute positivo delle imprese grazie ai ripetuti record fatti segnare dalle imprese italiane sul fronte delle esportazioni e anche qui il paradosso per i populisti di un tempo è evidente: più il protezionismo, amato dai populisti, sarà debole e più, grazie all’odiata globalizzazione, grazie all’odiata libertà del commercio, sarà possibile avere, in Italia, imprese più forti, capaci di incidere positivamente sulla crescita del paese e su quella degli occupati.
 

Si potrebbe aggiungere che i populisti di un tempo dovrebbero ammettere che per poter far crescere più velocemente i salari andrebbe con urgenza messa da parte la retorica del piccolo uguale bello (i dati Istat ricordano periodicamente che i salari più elevati vengono pagati dalle grandi imprese). Ma si potrebbe dire che non è questa l’ammissione più clamorosa. Quella più incredibile, a pensarci bene, è quella che arriva da un terreno su cui la retorica populista, almeno in Italia, ultimamente soffre, zoppica un po’: l’immigrazione. Meloni, sempre da Del Debbio, ha rivendicato risultati positivi nel contrasto all’immigrazione irregolare e ha squadernato alcuni numeri questa volta reali: il numero degli sbarchi in Italia, in calo quest’anno rispetto allo scorso anno. Quello che Meloni e Salvini faticano a ricordare è che il cambio del trend è avvenuto non perché Meloni e Salvini hanno sbattuto i pugni sul tavolo, come si dice, chiuso i porti, applicato il blocco navale, preso a schiaffi l’Europa.
 

Quello che è successo è che buona parte degli sbarchi che lo scorso anno partivano dalla Tunisia sono stati evitati anche grazie a una serie di accordi che l’Italia ha sottoscritto insieme con l’Europa in Tunisia. Il pil italiano cresce grazie all’Europa. Le imprese crescono grazie alla globalizzazione. La stabilità dell’Italia non è in discussione grazie alla responsabilità sulle pensioni. E l’immigrazione non è un’emergenza anche grazie ai successi, vedremo se parziali, di una strategia che si trova all’estremità opposta rispetto alla stagione dei blocchi navali. Più i populisti di un tempo guardano l’Italia e più togliendosi le fette di prosciutto dagli occhi non potranno non capire che il benessere del nostro paese è sempre più legato alla capacità con cui i populisti di un tempo rinnegheranno se stessi. Chissà se durerà. Dita incrociate e viva l’anti estremismo dei fatti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.