Problemi di ministri

Meloni sta per dire addio a Fitto che va in Ue. E alle sue spalle vede solo pasticcioni

Simone Canettieri

Il ministro più normale lascia il governo per andare a fare il commissario in Europa. Intanto Meloni deve gestire l'affaire Sangiuliano e le ricadute mediatiche (e di tenuta psicologica)

L’ha chiamata scelta “dolorosa”. E a colpi di cronaca se ne capisce il perché: dopo quasi due anni di governo, Raffaele Fitto si è dimostrato per Giorgia Meloni il ministro più normale – al di là dei meriti – della compagine di FdI . Un unicum, quasi noioso. Sicché farne a meno, per Meloni, sarà “un dolore”. Era un panda. Finora le interviste del futuro commissario europeo si sono contate sulle dita di una mano. Così come le dichiarazioni spettinate alla prima telecamera che passa o la voglia di ribalta (basti pensare al tour nelle regioni per firmare i patti per i fondi di coesione: Fitto sempre dietro, la premier sempre sul palco). Per non parlare di gaffe (Lollobrigida), di pasticci ( Sangiuliano), di inchieste (Santanchè e  Del Mastro) o dell'uso a volte un po’ disinvolto dei social network (Crosetto). O peggio, della poca esperienza di governo pagata alla prova dei fatti (è il caso di Ciriani ma anche di  Musumeci, non molto incisivo).

Al contrario il quasi ex ministro del Pnrr è stato l’unico, o quasi, che ha saputo indossare la cravatta che la premier regalò a tutti i parlamentari all’inizio della legislatura (alle donne donò un foulard). Quel gentile pensiero fu un modo per dire loro: ragazze e ragazzi, si apre una nuova fase, adesso siete istituzioni e vi trovate dall’altra parte. Invece boom: tipo il colpo partito dalla pistola dell’onorevole Emanuele Pozzolo a Capodanno. 

Di questo – della realtà di cui è circondata – Meloni non si dà pace. Di come cioè ministri, sottosegretari, dirigenti apicali, deputati e senatori scivolino troppo spesso su bucce di banana incredibili, poco consapevoli del posto dove si trovano. Un misto di hybris e provincialismo, dilettantismo e ansia da prestazione.  

Ieri pomeriggio prima di convocare a Palazzo Chigi il ministro della Cultura per novanta minuti, l’umore della presidente del Consiglio era raccontato come il fumo di Londra: grigio, tendente al metallico. 

La risposta-smentita quasi in diretta di Maria Rosaria Boccia alla sua intervista a Paolo Del Debbio non l’è andata giù. Un’influencer  di Pompei (da 31 mila follower, almeno fosse Chiara Ferragni)  che contesta, sbertuccia e fa da contraltare alla presidente del Consiglio di un paese del G7, prendendosi parità di titolo negli articoli dei giornali. E poi i timori di audio e video imbarazzanti, l’ombra del G7 della Cultura che rischia di prendere i contorni di una commedia rosa anni ‘80 con i giornalisti di tutto il mondo interessati alle prodezze del ministro e agli scontrini dei suoi viaggi e delle cene (tipo Ignazio Marino quando era sindaco di Roma).  

Ecco perché Meloni è tornata a lamentarsi sul fatto che, come dice spesso, “per fare questo lavoro ho sacrificato davvero tutto, a partire dalla mia vita privata: perché sono l’unica? Perché gli altri non lo capiscono?”. E’ la solitudine, almeno lei così la racconta, di chi si volta e dietro di sé non vede nessuno.    O al massimo una serie ben disordinata di guai, di facce che le ricordano casi del tutto evitabili. “Paghiamo l’inesperienza di governo”, dice la premier, con concreta amarezza, quando si trova a ragionare con i fedelissimi davanti a scene per le quali, di primo istinto, si mette sempre le mani fra i capelli, strabuzza gli occhi  e dice: “Non ci posso credere”.

 

E ieri pomeriggio durante il colloquio con Sangiuliano tutta questa amarezza deve esserle tornata a galla. Sul tavolo c’erano le dimissioni del ministro della Cultura e dunque la vittoria 6-0, 6-0 delle opposizioni e dei giornali, combinato disposto che la leader di Fratelli d’Italia percepisce come la kryptonite per Superman. Lei lo chiama stillicidio questo flusso di informazioni che Maria Rosaria Boccia sta facendo uscire. Goccia dopo goccia, con sapienza e tempi scenici. La premier ha detto al ministro che l’altra sera “c’ha messo la faccia” difendendolo in tv. Parole che lette controluce sembravano quasi un avvertimento al diretto interessato: tu dici che non ci sono, ma se escono viaggi e hotel a spese del ministero sei fritto. Come detto, Meloni non vuole il rimpasto, non ambisce a succedere a se stessa in questa legislatura, passando dalla fiducia delle Camere. E però a Sangiuliano sembra aver confermato una fiducia, questa sì letterale, a tempo. Salvo nuovi colpi di scena, che appaiono dietro l’angolo. A Palazzo Chigi si discute dell’agibilità politica del ministro alla vigilia di un evento internazionale e anche della tenuta psicologica, visto che da giorni ha perso la spericolata verve polemica che finora l’aveva contraddistinto. Diluvia su Palazzo Chigi, mentre i due si parlano. Chissà se Meloni starà pensando all’unico normale di cui si è privato con dolore.

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.