l'analisi

Più immigrati, unica chance di crescita economica per l'Italia, ora

Salvatore Rossi

Non ci sono ricette di rapida attuazione per aumentare l’occupazione o la produttività e arginare il calo demografico. Ecco perché

Torniamo sul tema dell’immigrazione, che non perde mai di attualità. Il tema può essere affrontato da molteplici lati: culturale, politico, economico. Io sono un economista e non posso che trattarne gli aspetti economici, ma neanche posso ignorare come l’immigrazione susciti potenti reazioni nell’opinione pubblica che hanno poco a che vedere con l’economia e molto con la storia, l’identità, i valori profondi dei popoli. E tuttavia poniamoci una domanda intrinsecamente economica: può l’immigrazione, in Italia oggi, favorire lo sviluppo dell’economia? La risposta è semplice e diretta: sì, senza ombra di dubbio. Anzi, più immigrazione è l’unica possibilità che il nostro paese abbia per tornare a tassi di crescita economica alti e duraturi. 

Come è ormai universalmente noto l’Italia invecchia e pertanto la sua popolazione si riduce. Nonostante i flussi d’immigrazione degli ultimi anni, la fecondità è scesa a poco più di metà del cosiddetto tasso di rimpiazzo (2,1 figli per ogni donna) e la popolazione ha preso a scendere ormai dieci anni fa. La fecondità è da noi particolarmente bassa, ben al di sotto della media dell’Unione europea. A parità di quota della popolazione impegnata in un lavoro e di prodotto pro capite, se la popolazione scende, scende anche il pil. 

 

Ma – viene polemicamente chiesto da alcuni – che bisogno c’è d’immigrati, non si potrebbe aumentare il tasso di occupazione, o la produttività, o entrambi? In linea teorica sì, per di più sono obiettivi entrambi di per sé sacrosanti: in Italia il tasso di occupazione è poco sopra il 60 per cento della popolazione, il più basso fra i paesi avanzati dopo la Grecia e la Turchia; il prodotto per ora lavorata è anch’esso minore della media. Far salire l’uno e l’altro richiede però una trasformazione profonda della società e dell’economia, non ci sono ricette facili e certamente non bastano gli incentivi pubblici. In ogni caso occorrono anni. Invece il calo demografico è già inesorabilmente in atto e si porta dietro una pressione al ribasso del pil.

Non c’è solo un difetto di crescita economica dietro la necessità di un flusso consistente d’immigrazione, c’è anche una questione di sostenibilità finanziaria, in particolare nella previdenza pubblica. Anche questo è molto noto: si riduce a vista d’occhio il rapporto fra chi lavora oggi e vorrà una pensione domani e coloro che lavoreranno domani e pagheranno le pensioni dei lavoratori di oggi. L’Italia ha già un debito pubblico alto, senza correttivi si avvia ad averne uno ancora più alto, forse insostenibile prevalentemente a causa dello squilibrio crescente del sistema pensionistico. 

 

Un ulteriore argomento di chi è contrario ad accogliere, o addirittura a sollecitare, flussi d’immigrazione suona così: se il problema dei problemi è la fecondità calante degli italiani, la si incentivi con abbondanti politiche pubbliche, piuttosto che compensarla con l’immissione dall’estero di gente più feconda. Si costruiscano più asili nido, si studino incentivi monetari per gli italiani che progettino di fare figli, si favorisca chi ha figli sui luoghi di lavoro. E’ indubbio che in Italia spesso si rinuncia a far figli per le difficoltà economiche che questo comporterebbe; più spesso che, ad esempio, nei paesi nordici. Quindi qualcosa bisogna fare, soprattutto sul piano normativo e regolamentare. Gli stessi immigrati in Italia sono meno fecondi di quelli che vivono in altri paesi europei con meno ostacoli alla genitorialità. Ma qualunque provvedimento si prenda avrà effetti lentissimi, occorre una generazione prima di vederne gli effetti sulla demografia, mentre, come abbiamo visto, il problema è ora. 

Scontato che occorra più immigrazione e non meno, tutto si riduce a capire in quali condizioni debba avvenire. Rimango sul terreno schiettamente economico, senza avventurarmi in valutazioni morali o politiche. Per raggiungere gli obiettivi indicati – più crescita, maggiore sostenibilità – sono necessari immigrati che lavorino e paghino tasse e contributi. Dunque immigrati regolari, che conoscano o imparino rapidamente l’italiano, possibilmente con un’istruzione o, come si dice in gergo sociologico-economico, in possesso di un capitale umano apprezzabile. Quest’ultima condizione è spesso soddisfatta dagli immigrati che giungono da noi. Come risulta ormai da molti studi, a emigrare non sono gli analfabeti poverissimi, ma coloro che hanno conoscenze e determinazione. La clandestinità è una sciagura per chi la vive e per chi ne subisce gli occasionali risvolti criminali; lungi dall’avere benefici economici è un peso per il territorio. Ma per accogliere e regolarizzare è necessario un grande sforzo e una grande intelligenza organizzativa, che altri paesi, come la Germania, hanno avuto e hanno. Noi italiani molto meno. 

 

Il direttore generale della Banca d’Italia Federico Signorini ha tenuto qualche mese fa in Liguria un intervento dal titolo “Ma se ghe penso. Migranti, demografia, sostenibilità”. Lo concludeva, parlando degli sbarchi drammatici di migranti sulle nostre coste, dicendo: “Difficile, realisticamente, pensare di potere gestire questa intensa pressione senza prepararsi a offrire… la chance di un ingresso regolare, a condizioni ben definite, con politiche di integrazione ben disegnate e programmi di ingresso calibrati, che tengano conto delle esigenze della nostra economia. Quanto più un fenomeno è arduo da arrestare, tanto più pare opportuno che un paese che sta affrontando un marcato declino demografico lo veda non… come un problema, ma anche come un’occasione da cogliere”. Difficile dir meglio.

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