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L'analisi

Bilancio di Sangiuliano alla Cultura. Qualche medaglia e un'incompiuta

Maurizio Crippa

Lo ricorderanno per le topiche, ma ha varato il Museo della Shoah e provato a tagliare il cinema furbetto. Male su direttori e riforme

“Que reste-t-il de nos amours?”. Meglio appoggiarsi alle malinconie di Charles Trenet e sorvolare sul resto. E provare a domandarsi, semmai, che cosa resterà degli amori culturali del ministro della Cultura, tra pantheon prezzoliniani neo-egemonici e ambiziose architetture riformatrici di cui ancora non sono chiari i fini e i destini. Que reste-t-il, senza nemmeno aspettare di sapere se sia in uscita dal Collegio Romano oppure no. Motivi per l’uscita ce ne sono, ma per come stanno le cose, e per come maldestramente le stanno maneggiando l’opposizione e l’ipocrisia della ciurma mediatica, potrebbe finire che Gennaro Sangiuliano resti dov’è. Ad ogni buon conto, ieri 5 settembre il ministro della Cultura ha firmato il “decreto ministeriale di articolazione degli uffici dirigenziali e degli istituti dotati di autonomia speciale di livello non generale del MiC, in attuazione del nuovo Regolamento di organizzazione del dicastero”. Nuova organizzazione che poi sarebbe il fiore all’occhiello e la vera mission dichiarata del suo operato di ministro. In ogni caso, che resti o che parta, il tempo è quello di provare un bilancio. Non per dar retta al saputo Calenda, “Sangiuliano si deve dimettere per come (non) ha fatto il ministro della Cultura”, ma perché la domanda sul restare o andare dovrebbe riguardare (anche) i contenuti. Il bilancio delle gaffes non serve nemmeno stilarlo. È il primatista di questo governo e ben si piazzerebbe nella classifica generale di governi che pure hanno avuto ministri come Barbara Lezzi. Se sei ministro della Cultura strafalcioni su Galileo non li puoi fare. Ma la gaffe è un moto di spirito; molto più grave, imperdonabile, è farsi infilzare come un tordo televisivo allo Strega per l’incontinenza di mettersi in mostra. Errore devastante.

Ciò detto, a smentita di ridanciani e bercianti, Sangiuliano ministro non è stato solo questo. È stato il ministro che come prima uscita ufficiale è andato alla sinagoga di Roma, il ministro che ha varato il Museo della Shoah e nessun predecessore, nemmeno i querimoniosi di sinistra, lo aveva fatto. Ha messo in cantiere il Museo del Ricordo, per le vittime delle foibe, e in un paese in cui ancora si considera Tito uno statista è una medaglia. Ha messo una data certa all’apertura di Palazzo Citterio a Brera, mentre gli ultimi quattro o cinque ministri non l’hanno fatto o peggio avevano ostacolato. Ha pasticciato con i soliti pronti via e dietrofront sulle domeniche gratuite nei musei, ma poi le ha implementate; ha messo il biglietto d’ingresso al Pantheon e ha fatto bene. Espresse soddisfazione quando l’Unesco “dimenticò” di inserire Venezia nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, il che gli merita un applauso. Provarono a metterlo in croce con l’accusa di non aver finanziato il blockbuster della Cortellesi, ma il ministero della Cultura che l’aveva giudicato “opera di scarso valore” era quello precedente, di Franceschini. Allora l’hanno accusato di voler cambiare i sistemi di assegnazione dei fondi ai film italiani. Ma la sua battaglia, per quanto irrisolta, per tagliare i finanziamenti sotto i piedi al cinéma de fils à papa, ai film senz’arte né storia prodotti a schiere grazie agli amici degli amici e che nessuno va a vedere meriterebbe un monumento a Cinecittà. Ha provato a districarsi nella giungla delle assunzioni del personale nei musei, argomento su cui al Collegio Romano latitano da ben prima della riforma Franceschini. Le mostre su Tolkien possono far arricciare il naso, ma solo se non avete visto Dolce e Gabbana al Palazzo Reale di Milano.

Dove il ministro Sangiuliano è apparso impreciso e senza motivazioni convincenti, suscitando spesso critiche da parte degli addetti di settore, sono invece proprio le iniziative di riforme strutturali di cui pure sempre si vanta. E questo è molto più grave di qualche gaffe. A partire da come scelse di selezionare e poi nominare i direttori dei grandi musei nazionali, con l’assurdo pregiudizio dell’italianità ma non solo quello. In generale sulle nomine, come ha detto al Foglio il filosofo Zecchi, ha pescato un po’ troppo tra giornalisti e amici, schifando i tecnici o gli accademici con scelte politiciste smaccate e nemmeno necessarie. Ma questo è uno dei difetti generali del governo Meloni. Ha istituito ben 17 nuovi musei autonomi, non tutti di chiarissima necessità, ma accorpando però due musei preclari di prima fascia come le Gallerie dell’Accademia di Firenze e il Bargello, scelta di cui nessuno avvertiva il bisogno. Però, paradossalmente, il suo potenziamento delle autonomie dei musei e dei centri di cultura va assai più nella linea impostata dalla riforma Franceschini che non in quella del presunto arroccamento di manipoli dentro alle istituzioni culturali di cui Sangiuliano e il governo sono stati accusati.

Il suo impegno più importante è in ogni caso la riforma dell’organizzazione del ministero, che ora è articolato in quattro dipartimenti (amministrazione generale, tutela del patrimonio e del paesaggio, valorizzazione del patrimonio culturale, attività culturali) i cui direttori sono di nomina diretta del ministro. Prima c’erano 26 direzioni generali, con una complessa architettura di gerarchie. Secondo il nuovo ordinamento, ogni dipartimento coordinerà a propria volta una serie di uffici di livello dirigenziale generale. È ovviamente impossibile stabilire ora se la riorganizzazione porterà buoni frutti o se aumenterà – è la critica più frequente – farraginosità e discrezionalità. Viene solo da pensare che, con 130 nomine ministeriali post riforma in vista – come informa il Fatto in uno dei pochi articoli di pertinenza di ieri – il tempo delle “faide interne” sia già cominciato, e non sia forse estraneo alla pioggia di leaks che dal Collegio Romano sono sgocciolati all’esterno. Il ministero della Cultura, cui ogni poco qualcuno vuole cambiare nome e struttura, è del resto questo: un labirinto complicato che ogni anno, oltre a governare musei, siti, eventi e fondazioni, finanzia fino agli spiccioli ben 232 istituzioni piccole e grandi che si occupano di ogni cosa. Così che dietro a ogni incarico o nomina o esborso si nasconde un interesse, una cordata, una gelosia, un’accademia o una sovrintendenza. Alla gestione di piglio e riformatrice di tutto questo era chiamato il ministro Gennaro Sangiuliano. Scivolare su una sola e mancata nomina, lasciando in sospeso tutto il resto del lavoro, è la cosa più grave.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"