Il Giuli pensiero. Idee e sogni del nuovo ministro della Cultura

“La destra e la cultura? Senza reticenza, complessi d’inferiorità da sfamare, sindromi di grandezza mal placées” Egemonia, sì, ma in che senso? Alla ricerca di una destra anti vannacciana

Pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Giuli, neo ministro della Cultura, ex vicedirettore e condirettore del Foglio, al libro “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea”, scritto dallo stesso Giuli per Rizzoli lo scorso maggio.


      
Siamo figli della terra e del cielo stellato, celeste è l’origine. Le radici nazionali non possono gelare poiché s’immergono in profondità intangibili che travalicano la favola e l’intreccio storico e si saldano nel nostro genius loci meridiano espresso in una lingua universale di assolata Concordia. Fuor dalla metafora orfico-tolkieniana: è giunta l’ora che la destra italiana, ormai adulta, celebri il proprio ingresso nell’età matura e si lasci alle spalle il “terribile vuoto morale dei paesi vinti” (Giuseppe Bottai) così come ogni lacerto di nostalgia per un’identità illusoria animata da fantasticherie revansciste, reazionarie, regressive. Sappiamo che non esiste alcun monopolio del patriottismo, il fascismo è morto e sepolto e storicizzato entro i confini pur mobili della ricerca scientifica; e tuttavia il giudizio politico è irrefutabile: nel XX secolo il Torto è stato sconfitto da una Ragione la cui astuzia ha hegelianamente prodotto la Nuova Italia antifascista in cui specchiarsi e riconoscersi tra luci e ombre senza nulla obliterare della nostra autobiografia.

 

La Costituzione del 1948, riformabile nella sua veste stagionale quanto inapplicata in alcune parti fondamentali della sua ossatura sociale, rappresenta il perimetro invalicabile in cui si colloca ogni nostro discorso pubblico. L’articolo 9 ne costituisce qui la stella polare: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La repubblica, Res Publica, è per antica definizione Res Sacra e la maestà delle sue istituzioni sempre contemporanee esige un’adesione incondizionata, composta, scevra da qualsiasi condizionamento confessionale brandito come strumento di dominio o di esclusione.

 

Sebbene smentita dalla moderna biologia evoluzionista, in politica vale la teoria del settecentesco naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck secondo il quale “la funzione crea l’organo”: chi ricopre un ruolo istituzionale è invariabilmente sottoposto a un processo di spersonalizzazione attiva che ne ridisegna l’equazione individuale secondo uno schema che supera la parte in nome del tutto; dal Quirinale in giù, costui o costei personifica il corpo civico della nazione sul modello di un sacerdozio civile. Vige ancora nel nostro inconscio collettivo l’insegnamento di Catone il Censore nella cui storiografia venivano omessi di proposito i nomi di coloro che ricoprivano le più alte magistrature cittadine.

    

Il sovranismo? Si è rivelato per ciò che era: “Uno choc anafilattico sopraggiunto nel sistema immunitario dell’Occidente globalizzato”

   

Date tali premesse, è giusto riconoscere che tanta parte del cammino è stata già percorsa. Il così detto “sovranismo”, secondo nome d’una rivolta populista alimentata dalla scollatura tra potere e consenso, si è rivelato per ciò che era: uno choc anafilattico sopraggiunto nel sistema immunitario dell’Occidente globalizzato in cui la distribuzione squilibrata della ricchezza e la progressiva insicurezza sociale hanno finito per erodere la credibilità delle democrazie liberali. La risposta è stata cruenta, ma salutare perfino nella misura in cui ha temporaneamente riconfigurato la dialettica destra/sinistra nella forma del conflitto tra élite e popolo.

   

Risultato: una volta messa in discussione l’inerzia sorda dell’establishment internazionale, ricentrata l’istanza comune d’una sovranità presente in quanto perduta, l’organismo ha reagito secondo natura mettendo i populisti alla prova del governo. Le alterne fortune dell’esperimento hanno comunque consentito di riassorbire l’enfiagione crepuscolare aprendo la strada a un’aurora normalizzante: il ripristino d’una democrazia dell’alternanza fondata sul confronto tra un progressismo riformista con venature radicali e un conservatorismo social-liberale in via di consolidamento ma ancora minacciato da pulsioni anti sistemiche e riflessi condizionati da torsioni autoritarie tese a minare la divisione dei poteri costituzionali, la libertà d’espressione e i diritti civili. Su questo crinale, oggi, a destra più che altrove, si gioca la madre di tutte le sfide: transitare dalla mentalità degli esclusi e dei “governati” a una logica di Sistema, che alla lettera significa “stare insieme” e oltre la lettera vuol dire appunto autopercepirsi come una classe dirigente sorretta da una visione prospettica della società. In altre parole, urge una destra capace di affermare se stessa illuministicamente e neutralizzare ogni sintomo di recidiva novecentesca reincarnatasi nel “terribilismo” assertivo degli ultimi arrivati, e di cui le recenti varianti “vannacciste” non rappresentano altro che vanagloriose e infantili declinazioni. (...)

  

“Urge una destra capace di affermare se stessa” e di “neutralizzare ogni sintomo di recidiva novecentesca”.

  

E qui entra finalmente in campo la Cultura, là dove è possibile creare sfere d’identificazione comuni pensando come uomini o donne d’azione e agendo come uomini o donne di pensiero: “Di fronte a settori della destra che vogliono escludere le minoranze dall’appartenenza alla Nazione, e a settori della sinistra che enfatizzano le differenze tra i cittadini di razze e religioni diverse al punto che i legami tra loro sembrano dissolversi, abbiamo il dovere di forgiare un nuovo linguaggio di patriottismo inclusivo” (Yascha Mounk). Siamo nel cuore della tradizione occidentale romana, nel regno del diritto (Ius) che si universalizza sacralmente (Fas): Roma sorse come un genus mixtum originato da popolazioni culturalmente omogenee ma etnicamente differenti, sempre aperto all’ingresso dell’“altro da sé” come figura di arricchimento di una koiné aperta e anti genetica che richiedeva agli stranieri un contatto profondo con il “genio del luogo acquisito” ma rifiutava il mito dell’autoctonia. Sicché per noi la cittadinanza (italiana, europea, occidentale e via così, in una logica di cerchi concentrici), oltreché un fatto biologico è una conquista culturale quotidiana. Parafrasando le parole di Marco Aurelio, imperatore e filosofo romano: “Come uomo sono un cittadino del mondo, come cittadino la mia Patria è l’Italia”. (...)

 

La destra contemporanea ha il dovere di accogliere tale messaggio di Concordia e di Unità che travalica ogni barriera ideologica, ogni contrapposizione animosa, ogni tentazione di trasformare strumentalmente la sacrosanta contesa delle idee in odiosa delegittimazione dell’avversario. Alla retorica irrazionale del barbaro alle porte, che nasce da un malriposto suprematismo e sfocia nel disprezzo antropologico, si può e si deve contrapporre la forza della persuasione e del confronto. Ciò non significa, naturalmente, che si debba rinunciare a stabilire precise linee di confine in nome delle quali fronteggiare altre culture e altre forze politiche organizzate in cui peraltro la maggioranza degli italiani attualmente non si riconosce. Al contrario. E tuttavia è bene sottolineare come gli anniversari e le ricorrenze liturgiche del nostro calendario repubblicano – dal 20 settembre al 2 giugno passando per il 25 aprile e il 4 novembre – rappresentino i giorni propizi per ricordare a ciascuno di noi la necessità non più rinviabile di riaffermare che nel libero gioco delle forze in campo l’Unità nazionale si fonda sul riconoscimento reciproco all’interno della medesima cornice costituzionale: suscettibile di cambiamenti, correzioni, miglioramenti che mai dovranno snaturare la sostanza del Patto civile fondamentale garantito dalla Carta del dopoguerra. 

 

“Una destra intenzionata a disincagliarsi da caricature mostrificanti deve ricordare le basi del liberalismo moderno”

 

Soltanto a partire da questa acquisizione concettuale diventa plausibile, fuori dai confini, la volontà di ridisegnare i principi fondamentali che regolano la partecipazione all’Unione europea intesa come realizzazione – ancora incompleta, purtroppo – di una Patria delle Patrie, la nostra comunità di destino afflitta da guerre e da egoismi nazionali travestiti da astratti sovranismi continentali. Ma torniamo nella realtà più prosaica della destra, che da cittadella distrutta e semiabbandonata è diventata nel presente un insperato blocco (disomogeneo) di potere. Una destra intenzionata a disincagliarsi dalla caricatura mostrificante che gli odiatori cercano di cucirle addosso deve ricordare anzitutto a se stessa le basi dello Stato nazionale sorto dal Risorgimento e dal liberalismo moderno. Una destra moderna, dunque, matura e plurale… sociale nella difesa degli esclusi, degli impoveriti e dei deboli dimenticati dall’umanitarismo inconcludente dei ceti dirigenti al potere negli ultimi decenni. Una destra liberale nella promozione dell’intrapresa privata e nella promessa di proteggere la libertà di creare ricchezza prima di prefigurarne una redistribuzione più equa. Una destra non rigorista ma rigorosa nel rispetto dei conti pubblici, proprio come la destra storica post risorgimentale, consapevole che un sano bilancio dello Stato è il presupposto migliore per garantire il debito sovrano che grava sulle generazioni future.

 

Una destra avanzata, che non si alimenta grazie alla paura ma la combatte con il realismo della volontà e con un costante discorso di verità sulle reali risorse di cui l’Italia dispone per aprirsi o meno alle drammatiche conseguenze della questione migratoria e della tratta di esseri umani. Una destra illuminata dalla convinzione di dover ristabilire il primato della politica coniugando giustizia sociale e libertà, superando così il binomio tra ottimati e popolo, memore del prezioso insegnamento di Piero Calamandrei. Il quale affermava, sì, che “i diritti di libertà sono lo strumento necessario e sufficiente per assicurare al popolo il governo dei migliori”; ma aggiungeva subito che il “rinnovamento dei ceti dirigenti attraverso la libera gara delle iniziative individuali in ascesa è pregio essenziale della vera democrazia”. 

 

La lezione di patriottismo che abbiamo sin qui materializzata ci insegna che “i valori risorgimentali sono le fondamenta della Liberazione e della repubblica italiana” – e sto citando  il presidente Sergio Mattarella. Ma la Liberazione non è soltanto Liberazione dalle spire del totalitarismo; è anche – come ci ammonisce la Costituzione – Liberazione dalla povertà, dalle disuguaglianze e dalla mancanza di lavoro. Se comprendiamo a fondo questo concetto riusciremo a dare una risposta concreta, e non ipocrita, alle sfortunate popolazioni che dalle periferie del mondo ci chiedono aiuto, protezione, asilo. In una parola: salvezza. Ma per rispondere a questo disperato appello abbiamo il dovere di non pensarci soli e isolati, di essere sinceri sulle nostre attuali disponibilità e sulla necessità non rinviabile di concertare politiche comuni europee tali da non sommare povertà a povertà, delusione a delusione, rabbia sociale a rabbia sociale, delinquenza a delinquenza. La Destra che si candida a governare a lungo l’Italia non può togliere nulla ad alcuno, non deve negare diritti comprovati o peggio ancora escludere e discriminare ciecamente: la sua consegna è quella di creare le condizioni per dare a chi ne abbia davvero bisogno quanto gli è dovuto in una dimensione di convivenza euroafricana operosa e pacifica. (…)

 

La destra al potere – si dice da parte sinistra – sta occupando le casematte della cultura con avidità chiodata, bulimia cieca, inesperienza di gestione e incompetenza di nomenclatura. Le fortezze in questione, ovvio, sono quelle sinora amministrate con ineffabile intelligenza pratica dal goscismo millesimato costituitosi nei decenni come una casta di mandarini che ha finito per disciogliere i contenuti nella forma (o meglio nel formalismo), la diuturna fatica dello spirito in una permanente e sonnolenta rendita postprandiale. C’è del virtuismo in questa accusa, e c’è un rigurgito di suprematismo antropologico che sfocia nella rivolta estetica: non vi disprezziamo per ciò che (non ancora) avete fatto, ma per la vostra (presunta) origine. (...)

 

La posta in gioco è troppo alta per cavarsela con la frase tornita contro gli inquilini del privilegio annidati nella ZTL, con lo slogan a effetto (ormai consunto) contro i “radical-chic”, o peggio ancora con l’ostentata volgarità insita nella rivendicazione di una sacrosanta rivincita di “Coccia di morto” nei confronti di “Capalbio”, intendendo i due poli come l’espressione retorica di mondi opposti e parallelamente macchiettizzabili. La superbia e l’ebbrezza del potere ci seguono come l’ombra di un diavolo zoppo anche quando discettiamo sulla necessità di “aprire” il dovuto spazio alla destra altrimenti emarginata dal cono di luce dell’industria culturale d’una sinistra che, come l’Inghilterra novecentesca, perde tutte le battaglie e vince tutte le guerre. Eppure la provenienza da un mondo “tutta prassi e niente dottrina” dovrebbe averci insegnato qualcosa: non soltanto che il contegno e l’esempio irradiati hanno talvolta più valore delle idee professate; ma che spesso le idee, quando ve ne siano, se non respirano libere e vitali, così da configurare perfino un’autocritica metodica (senza scomodare il dubbio cartesiano) come strumento di dialettica interna, vengono congelate nella sintesi di automatismi declamatori buoni per un talk televisivo e perciò crocifisse nella sfera di un fato bugiardo. Idee morte per creature d’un giorno. Solamente i poeti sono “araldi di sapienti parole” (Pindaro) e cionondimeno d’immagini e parole è sostanziata la realtà.

 

E vengo al punto: lo splendore autentico dell’agonismo non risiede nell’asserzione dottrinale (logo) ma nella contesa delle idee, nell’assumersi il rischio del confronto (dialogo) all’interno di un racconto unitario relativo a noi stessi. Non si tratta dunque di sgomberare la scena culturale dall’avversario negandogli diritto di cittadinanza anche laddove in passato egli abbia a noi inflitto l’esclusione (pronto a rifarlo peraltro), se non nella formula togliattiana del “fuori i pagliacci dal campo della lotta”. Ma in questo caso i pagliacci da accompagnare all’uscio sono pure coloro che rincorrono gli stilemi e le parole d’ordine d’una sinistra in ritardo; ovvero quegli abusivi e obsoleti gerarchi minori, residui di remote stagioni e dunque estranei al nuovo corso di Palazzo Chigi, ammalati d’ipertrofia acquisitiva e alla perenne ricerca del Gramsci di turno come “uno di noi” (e Antonio Gramsci lo fu, in effetti, ma non in “quel senso”) da ibridare con qualche vecchio santino sopravvissuto nel retrobottega delle catacombe nere; e altri pagliacci sono le controfigure stentoree ancor nerovestite, nemiche giurate Palazzo Chigi, che ignorano di rievocare il fascismo da operetta nel mentre mettono in scena la propria operetta di regime, smerciando per un bagaglio culturale il loro personale Bagaglino (con rispetto parlando verso l’originale).

     

Il paradosso è che spesso le due categorie coincidono e la loro pericolosità conferma l’adagio secondo il quale, in politica, la cretineria è una forma d’infedeltà imperdonabile. (...) Un ruolo di primo piano all’interno del sistema culturale delle arti contemporanee mi ha offerto la possibilità di misurare il mio dovere istituzionale con il piacere dell’intelligenza altrui, partecipando a dibattiti con figure di varia natura e latitudine politica ma sempre di alto (talora altissimo) conio, elevando il livello del dialogo ben al di sopra della schermaglia cursoria prevalente nel circuito mediatico-politico. Senza alcuna reticenza, senza complessi d’inferiorità da sfamare, sindromi di grandezza mal placées. Ne è nato così qualcosa di rapsodico che non può ancora dirsi libero, ma forse sì libertario e liberatorio al contempo. Come la destra che vorrei. Antonio Gramsci è morto, Gramsci è vivo.